Una storia curiosa che detterà legge, letteralmente!
L’avvento degli algoritmi di intelligenza artificiale sta scombinando tutte le carte in tavola nell’ambito tecnologico-informatico, ma una delle ricadute più evidenti – e che ha suscitato le maggiori perplessità e i pi vivaci dibattiti – riguarda l’ambito creativo e artistico. Se per quanto riguarda opere collettive come i videogiochi l’applicazione di tool AI integrati nei processi di sviluppo può velocizzare le pipeline di lavoro e abbattere i costi, facendo tuttavia sentire meno sicuri i lavoratori del settore, in ambiti di produzioni artistiche effettuate da singoli come la fotografia o la scrittura, l’utilizzo di questi software è più problematico perché mina alla radice l’autenticità dell’atto creativo.
Negli scorsi anni ci sono stati vari casi limite, talvolta volutamente provocatori, di opere premiate a concorsi di pittura e fotografia rivelatesi poi interamente realizzate da algoritmi di intelligenza artificiale: a volte l’intento dell’opera era il mero profitto facile, in altri casi si è trattato di scelte consapevoli di artisti che hanno tentato di sollevare il problema dell’attribuzione dell’opera e del significato del concetto stesso di arte nell’epoca della sua riproducibilità per mezzo di strumenti informatici. Ora un caso eclatante arriva dall’editoria americana: l’ufficio per il Copyright degli Stati Uniti (USCO) ha infatti garantito il diritto d’autore a un’opera generata da ChatGPT. Ma c’è una ragione!
Ovviamente, ChatGPT non si è svegliata un giorno decidendo che aveva voglia di inaugurare la sua carriera di autrice di best-seller. Come sempre, dietro un grande algoritmo c’è un grande prompt, in questo caso decine e decine di prompt, scritti da una persona in carne ed ossa: si tratta di Elisa Shupe, una soldatessa americana di 60 anni in congedo, che sotto lo pseudonimo di Ellen Rae ha dato alle stampe un’opera di autofiction intitolata AI Machinations: Tangled Webs and Typed Words, una sorta di thriller/drammatico su una scrittrice di paranormale che, diagnosticatale una fibromialgia, utilizza dei chatbot per continuare a scrivere ma finisce al centro di complicati intrighi corporativi.
Shupe non ha fatto alcun mistero di utilizzare ChatGPT nel suo lavoro di composizione letteraria, anzi lo ha rivendicato con orgoglio, spiegando che è proprio grazie a questo strumento che le è stato possibile portare a termine il romanzo: la scrittrice infatti soffre di disturbo bipolare, personalità borderline e disabilità al 100% diagnosticata dal Dipartimento per gli Affari dei Veterani, e non sarebbe stata in grado di scrivere autonomamente il libro. In ogni caso, sostiene, ha proceduto con pignoleria alla sistematica revisione di ogni frase composta dal chatbot, modificandone termini e struttura a volte in modo sostanzioso. Sulla base di questo suo lavoro ha poi sottoposto la sua opera all’ufficio del copyright, che si è trovato decisamente una bella gatta da pelare. Alla fine, l’USCO se n’è uscito con una soluzione di compromesso in grado di accontentare un po’ tutti, e soprattutto destinato a dettar legge in materia di diritto d’autore.
La soluzione escogitata dall’USCO è un unicum nella storia dell’editoria, ma è destinato senz’altro ad aprire la strada per altre soluzioni di questo tipo, forse cambiando per sempre la storia del diritto d’autore. Quello che è stato deciso è la creazione di una nuova forma di copyright, una via di mezzo che tenga conto dell’indubbio sforzo creativo dell’autrice del romanzo, che ne ha ideato trama e struttura, ma anche dell’oggettivo filtro di ChatGPT, che come sappiamo attinge a un dataset di opere e materiali che non possono essere ulteriormente sottoposte a nuovo copyright, poiché sarebbe un controsenso. Per quest’ultimo motivo l’ufficio in prima istanza respinse la richiesta di deposito dell’opera da parte di Shue, ma tornò sui suoi passi a seguito dell’appello intentato dall’avvocato Jonathan Askin, fondatore del Brooklyn Law Incubator and Policy Clinic che ha accettato di lavorare pro bono a questo caso.
L’appello, come riporta un approfondito articolo di Ars Techinca, ha insistito sulla condizione di disabilità di cui soffre Shupe e che le avrebbe impedito di scrivere alcunché, non fosse stato per ChatGPT: l’avvocato ha invitato l’USCO a considerare l’AI come una protesi per un individuo amputato, ovvero uno strumento indispensabile per esercitare una funzione primaria, in questo caso l’atto creativo. Alla fine, l’USCO ha concesso il deposito del copyright sull’opera, anche se si tratta di una forma di “copyright leggero”: Shupe è accreditata come autrice “della selezione, coordinazione e sistemazione di un testo generato da intelligenza artificiale”; in questo modo l’opera è stata protetta dal rischio di copia non autorizzata, ma non dalla rielaborazione libera della stessa: chiunque, quindi, può riproporla interamente o parzialmente, a patto di non fare un mero copia-e-incolla ma di riscriverla proponendo una rielaborazione originale. Nel frattempo, Shupe è libera di vendere il romanzo e ricavarne un profitto.
Tutti contenti dunque? È questo il possibile futuro del copyright nel mondo delle intelligenze artificiali? Ai posteri l’ardua sentenza!
This post was published on 19 Aprile 2024 12:30
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