La Commissione per le Comunicazioni americana preme al fine di ripristinare la web neutrality, per dare a tutti gli internauti pari diritti.
C’è stato un sogno chiamato World Wide Web. Nelle speranze dei pionieri che lo imbastirono e dei primi internauti che lo navigarono, esso avrebbe dovuto rappresentare la massima espressione della democrazia: libero accesso alle informazioni, strumento di arricchimento conoscitivo e nessun vincolo imposto da autorità, censori o multinazionali; un’agorà virtuale in cui essere totalmente liberi e far circolare la conoscenza. Decenni dopo, ci troviamo un Web 2.0 lottizzato e “privatizzato” da mega-corporazioni che fanno affari d’oro vendendo i dati personali più o meno truffaldinamente ricavati dai propri utenti, redattori online che lavorano a ritmi da schiavi per pochi spiccioli e pagine di “informazione” che sono poco più che vetrine per inserzioni pubblicitarie di ogni sorta.
Qualcosa insomma è andato maledettamente storto, e probabilmente ne siamo tutti corresponsabili in una certa misura. Ma ora c’è chi sta riflettendo sul fatto che sia necessario imprimere un cambio di rotta dall’alto, imponendo per legge dei chiari paletti che limitino alcune pratiche palesemente scorrette da parte delle big tech e ridiano agli utenti un po’ di quel sogno di democrazia rappresentato dall’Internet delle origini: che torni cioè alla web neutrality.
Web neutrality, questo sconosciuto
La neutralità del web è uno dei principi ispiratori della stessa tecnologia, uno dei principi cardine su cui si basava il web delle origini e che ora la Federal Communications Commision americana sembra intenzionata a voler ripristinare (o almeno provare a farlo): secondo questo principio gli ISP (Internet Service Provider, ovvero il fornitore del servizio Internet, l’azienda che ci permette l’accesso al web e ai suoi servizi a fronte della sottoscrizione di un contratto di fornitura) devono trattare in eguale misura tutti i siti web, garantendone il completo accesso alla massima velocità possibile senza favoritismi di sorta (ovviamente si parla di siti legali).
In pratica, però, questa imparzialità del provider raramente è garantita al 100%: non sono pochi i casi in cui un ISP decida arbitrariamente di assegnare più o meno banda a determinanti server, alterando così i tempi di caricamento delle pagine web a seconda di quale sito l’utente voglia navigare. Spesso queste discrepanze sono causate da accordi più o meno espliciti stipulati tra il provider e i proprietari di determinati siti, altre volte sono artificialmente limitati dal provider stesso per spingere l’utente a effettuare un upgrade del proprio piano contrattuale. Qualunque sia la ragione, si tratta di un comportamento profondamente scorretto anche perché spesso non è nemmeno esplicitato da parte del provider stesso. Senza delle chiare leggi che impediscano queste discriminazioni, inoltre, non è difficile immaginare le estreme conseguenze in cui un ISP può decidere arbitrariamente di bloccare l’accesso a certi siti, in barba a qualunque presunzione di democrazia del web.
Bisogna correre ai ripari, e la FCC ha deciso di farlo.
FCC alla riscossa
La dirigente della FCC Jessica Rosenworcel ha rilasciato una dichiarazione esclusiva all’agenzia di stampa Reuters, spiegando che entro fine mese la commissione voterà in merito alla reintroduzione di leggi federali che sostengano la web neutrality.
La pandemia ha reso chiaro che la larghezza di banda sia un servizio essenziale, e che ognuno di noi – non importa dove viviamo o chi siamo – ne ha bisogno per avere accesso a eque opportunità nell’era digitale. Un servizio essenziale necessita di supervisione, e in questo caso siamo intenzionati a ripristinare le regole che erano già state approvate dai tribunali e che assicurano che l’accesso alla banda sia veloce, aperto ed equo.
Tali principi avevano fatto parte dell’agenda politica dell’amministrazione Obama, ma l’iter legislativo era stato interrotto dall’avvicendamento, nel 2015, dell’amministrazione Trump, che aveva alterato gli equilibri interni alla stessa FCC portando a un ridimensionamento della spinta riformatrice della Commissione. Cosa che non lascia ben sperare per il futuro, nel caso le nuove elezioni presidenziali concedessero a Trump un nuovo mandato presidenziale.