Quando nell’ormai lontano 2006 Spotify esordì nel mercato dello streaming musicale, entrava a gamba tesa in un mercato, quello del digitale, che non era granchè visto di buon occhio; i più attempati, per così dire, ricorderanno il “Non ruberesti mai un’auto” dei video anti-pirateria degli anni 2000. Spotify riuscì a far cambiare idea alle maggiori etichette del mondo discografico, investendo in un’iniziativa che prometteva di essere il trampolino di lancio di innumerevoli artisti.
Ovviamente non sono mancate negli anni le controversie, soprattutto da parte di coloro che accusavano Spotify di favorire le major e di compensare a ratei da fame gli artisti emergenti che sceglievano, in assenza di altre opzioni, la piattaforma come base dei loro streaming. Forse avevano proprio ragione, vista la nuova ondata di licenziamenti.
“Asciugare non è un’opzione, è una necessità”
Mentre innumerevoli utenti continuano a pubblicare sui loro social i loro Wrapped di fine anno, in cui mettono in mostra il loro sopraffine gusto musicale, o la mancanza di questo, Spotify conclude un ciclo di licenziamenti che nelle ultime tornate ha portato al taglio di 1500 persone dall’organico; il 17% dell’intera forza lavoro.
Le dichiarazioni del CEO e fondatore di Spotify, Daniel Ek, non lasciano alcun dubbio. Si parla infatti di “cambi organizzativi”, e del fatto che “asciugare non è più solo un’opzione, ma una necessità”.
“Per allineare Spotify ai nostri obiettivi futuri ed assicurarci di avere le giuste dimensioni per le sfide che ci aspettano, ho fatto la difficile decisione di ridurre il totale dell’organico di circa il 17% in tutta la compagnia”, dichiara lo stesso Ek, aggiungendo poi in un successivo post: “La decisione di ridurre la dimensione del nostro team è dura, ma un passo cruciale verso la creazione di una Spotify più forte ed efficiente nel futuro. Evidenzia inoltre che dobbiamo cambiare il modo in cui lavoriamo.”
Per dovere di cronaca, queste ondate di licenziamenti arrivano a distanza di un mese dal report dei guadagni del Q3 dell’azienda, in cui la stessa Spotify dichiarava una crescita economica non da poco: 11% rispetto l’anno precedente, arrivando a €3.4 miliardi; un margine lordo del 26.4%, un margine operativo di €32 milioni per il quarter. Insomma, numeri che non raccontano di un’azienda in difficoltà, anzi in continua crescita finanziaria.
A riguardo, Daniel Ek ha tenuto a precisare: “Comprendo che per molti, una riduzione di queste dimensioni può sembrare sorprendentemente larga dato i recenti guadagni riportati e la nostra performance. Abbiamo discusso sulla possibilità di fare riduzioni più piccole e diffuse per tutto il 2024 ed il 2025. Ma, considerando il gap tra i nostri obiettivi finanziari e i nostri costi operativi attuali, ho deciso che un’azione sostanziale di ridimensionamento dei costi fosse la migliore opzione per raggiungere gli obiettivi.”
Insomma, si tratta dunque di margini finanziari; per quanto Spotify possa essere l’egemone dello streaming musicale, divenuto praticamente sinonimo del settore, per Daniel Ek ed i membri del Consiglio di Amministrazione sembra non essere abbastanza. Certamente Spotify non è l’unica azienda del mondo tech a fare licenziamenti su scala così grande, venendo preceduta da Meta, Amazon, Microsoft, Twitter/X e PayPal.
Nel post in cui annuncia i tagli al personale, Ek ha puntato il dito contro le assunzioni avvenute tra il 2020 ed il 2021; “Abbiamo approfittato dell’opportunità offerta dal capitale a basso costo”, ha affermato, sottolineando però che adesso l’azienda aveva “troppa gente dedicata a lavoro di supporto, piuttosto che a contribuire ad opportunità che avessero un vero impatto. Più gente deve essere focalizzata nel raggiungere gli obiettivi dei nostri stakeholder chiave, i creatori ed i consumatori.”
Il CEO di Spotify ha poi promesso, sempre nello stesso post, un “trattamento di fine rapporto” calcolato sulla durata dell’impiego “con l’impiegato medio che riceverà approssimativamente cinque mesi di paga”, il riscatto di ferie non riscosse, ed un periodo di “grazia” per le assicurazioni sanitarie relative all’impiego; cosa tanto americana quanto l’azienda.