Diversi documenti trapelati fuori durante i dibattimenti della causa legale per l’antitrust tra il dipartimento della giustizia americano e Google evidenziano alcuni atteggiamenti monopolistici del colosso americano.
Mettiamola così: questo è un articolo piuttosto complicato; Google è al centro di un vortice legale piuttosto incasinato, che la vede protagonista di una causa per tentato monopolio e comportamenti monopolistici in più parti.
Durante il corso degli ultimi mesi la situazione è parzialmente peggiorata, complici anche dei documenti che sono solo recentemente diventati pubblici che ulteriormente evidenziano uno screzio importante tra il quanto Google dica di preoccuparsi della sua utenza e quanto invece spinge per continuare a crescere in maniera indefinita.
Durante lo scorso anno, giusto per fare un’esempio, fece tanto scalpore la dichiarazione di un ex-googler che, intervistata in un podcast, disse che il peggioramento delle ricerche di Google non era tanto da legarsi alla qualità del motore di ricerca, quanto al peggioramento dell’internet stesso; dopo i documenti usciti fuori dalla causa legale in questione è difficile guardare a quelle dichiarazioni e crederle ugualmente realistiche.
Google sostanzialmente domina il mercato della ricerca su internet; secondo Statista l’azienda americana possiede circa l’83% del mercato in questione, una cifra particolarmente elevata che secondo il dipartimento di giustizia Americano potrebbe derivare anche da pratiche scorrette.
Queste ultime sono state sottolineate a più riprese dalle figure più svariate, tanto da aziende rivali quanto dai consumatori stessi. Google è il motore di ricerca di default su miliardi di dispositivi sparsi in tutto il mondo (con investimenti plurimiliardari per far si che questo status quo rimanga tale) ed è, quasi casualmente, lo stesso gigante che su smartphone richiede almeno una decina di passaggi per cambiare motore di ricerca.
Una situazione di certo non rosea che però, grazie al lavoro svolto dal dipartimento di giustizia americano, si è complicata ancora di più. Gli avvocati dell’accusa, infatti, hanno sottolineato anche le tensioni interne di Google riguardanti la sua natura ambivalente: da una parte c’è Google Ads, il prodotto di maggior successo di Google che da solo raccoglie l’80% dei ricavi del colosso, dall’altro invece ci sono i prodotti consumer driven come appunto Google Search, Maps, Images e così via.
Come si possono riassumere queste tensioni interne? C’è uno scambio di email tra Ben Gomes, head di Google Search e il team di Ads in cui il primo sottolinea come, in seguito ad una serie di report negativi dal punto di vista economico per Google (sette settimane di code yellow, ovvero di crescita inferiore alle aspettative per Search), il team consumer oriented stava venendo spinto con troppa forza verso la ricerca di profitti a tutti i costi, anche limitando la qualità finale dei servizi proposti per gli utenti.
Se consideriamo che, come Bloomberg stessa sottolinea all’interno di un ricco (ma sotto paywall) reportarge, Google era nota per compartimentare le sue branche in modo da far concentrare i prodotti consumer su ricerca e UX e i money maker su Ads, l’idea di questo mischione ha chiaramente fatto scatenare il panico in parte dell’utenza.
Sebbene internamente questo genere di diatriba si sia risolta attraversa un’intelligente modifica del tipo di criterio con cui si valuta la crescita delle query, in una bozza di email poi mai inviata al capo di Ads Ben Gomez ha sottolineato come ci siano diverse pratiche con cui Search stessa possa di fatto incrementare il valore delle revenue delle Ads.
Tra queste pratiche, troviamo ad esempio il togliere il correttore automatico dalla barra di ricerca, costringendo l’utente a fare delle ricerche a vuoto sulla quale poi andranno mostrate comunque le ads e così via; Gomez stesso ha prontamente dichiarato davanti ai giudici che quelle pratiche erano da considerarsi unicamente teoriche e che non ci sarebbe mai stata la necessità reale di applicarle al fine di aumentare i ricavi.
Questo elemento ha, però, dato da pensare ai giudici; in un intervista rilasciata da Lee Hepner, American Economic Liberties Project Legal Counsel a Gizmodo, l’esperto ha dichiarato che la capacità di Google di potenzialmente peggiorare un suo prodotto senza perdere in maniera significativa utenza è un perfetto indice di situazione simil monopolio; il parallelo da lui mostrato è anche semplice da interpretare: in una situazione di monopolio, il monopolista può aumentare il prezzo del bene che vende senza migliorarne la qualità e senza nemmeno il rischio di perdere alcun frammento di mercato.
Dichiarazioni come quella di Gomes, in sostanza, non fanno altro che rimarcare la consapevolezza di Google di avere il coltello dalla parte del manico quando parliamo di posizione dominante del mercato e che sempre più si fa sottile il confine tra ciò che Google promette e quello che crede di dover fare per sopravvivere all’interno del mercato attuale.
La testimonianza di Gomes non è l’unico punto di appoggio per il dipartimento della giustizia per sottolineare alla giuria la situazione monopolistica incarnata da Google. Durante questo lunedì infatti l’ente americano ha reso pubblici 22 diversi documenti che, in una maniera o l’altra, sottolineano come Google abbia effettuato pratiche scorrette al fine di mantenere il suo dominizio nel mondo dei motori di ricerca.
I dati ad esempio mostrano come Google abbia pagato nel solo 2021 qualcosa come 26.3 miliardi di dollari per potersi assicurare la natura di motore di ricerca predefinito su browser e smartphone, prendendo accordi direttamente con i produttori o le aziende che forniscono software. Buona parte di questa cifra, tra le altre cose, è finita direttamente nelle tasche di Apple, così da rendere Google il motore di ricerca predefinito su Safari e più in generale sui dispositivi dell’azienda di Cupertino.
Google è inoltre consapevole di come l’utenza sia parzialmente disinsteressata a questo discorso del motore di ricerca; sempre in dei documenti interni pubblicati dal dipartimento della giustizia americano ad esempio ci sono frasi in presentazione che sottolineano come gli utenti non sembrano fare delle scelte attive quando si parla di motore di rierca, mentre analisi di mercato hanno visto un calo del quasi 30% dell’utilizzo del motore di ricerca in dispositivo in cui Google non era presente all’interno dell’homepage.
Alcuni documenti tra quelli resi pubblici riguardano anche il rapporto tra Google e Apple, con delle note relative a un meeting tra Sundar Pichai (CEO di Google e CEO più pagato al mondo) e Tim Cook (CEO di Apple) in cui si è ampiamente parlato della collaborazione tra le due aziende al fine di mantenere Google il motore di ricerca predefinito.
Ancora più incredibile pensare a tali pratiche a tali scelte se consideriamo che, tra i documenti resi pubblici, ci sono anche alcuni carteggi tra Google e Microsoft che risalgono al 2005 in cui l’azienda di Mountain View si lamenta con la scelta di Microsoft di integrare una barra di ricerca all’interno di Internet Explorer 7, rende complesso per l’utente finale cambiare il motore di ricerca predefinito; un discorso tristemente speculare a quello che al giorno d’oggi concorrenti come Microsoft, DuckDuckGo, Yahoo e compagnia fanno proprio al colosso dietro alla distruzione di Stadia.
Tutti i documenti di cui abbiamo parlato sono liberamente accessibili sul sito del ministero della giustizia americano; diverse lotte ci sono state per renderli pubblici, con gran parte degli avvocati e della stampa a fare pressioni sul giudice Amit Mehta. Durante le prime settimane del processo, infatti, Mehta non ha permesso ne a Google né al dipartimento della giustizia americano di condividere con l’esterno nessun documento.
Le motivazioni per cui tali pressioni sono state fatte sono semplici da comprendere anche senza masticare niente di giustizia americana: senza la pubblicazione dei documenti, i retroscena riguardo uno dei più importanti processi legati al mondo della tecnologia degli ultimi anni non sarebbero mai usciti allo scoperto, lasciando intorno a Google un’ aura (purtroppo per noi utenti) falsata di azienda buona.
In un report del New York Times, inoltre, Diane Rulke, professore presso la Carnegie Mellon ha dichiarato che un tale livello di segretezza all’interno di un processo per l’antitrust è una novità considerati i processi storici, sempre all’interno dello stesso report sono presenti le opinioni di altri esperti in storia dei processi per antitrust, tutti pronti a definire senza remore alcune il processo contro Google come piuttosto opaco in termini di accesso agli atti da parte del pubblico e dei giornalisti.
Google, in sostanza, è consapevole degli effetti negativi che sta portando al mondo dei motori di ricerca con il suo monopolio ma la sua continua crescita economica sembra essere più importante del resto. Per figure come il precedentemente citato Lee Hepner, questa consapevolezza è la prova più schiacciante possibile per chiudere rapidamente la questione e chiedere a Google di prendere dei provvedimenti.
Sono quindi finiti, più che mai, i tempi di “don’t be evil”, un mantra che Google ha adottato per buona parte della sua carriera e che ha tentato più che mai di mantenere intatto almeno da un punto di vista prettamente di facciata durante il corso della sua storia.
Rimane a noi lettori, giornalisti e normali utilizzatori di un computer un solo e semplice mantra, che dobbiamo imparare a ripetere con forza durante la nostra fruizione della rete e della tecnologia.
Le aziende fanno le aziende, le persone fanno le persone; se le seconde sono potenzialmente cattive, le prime (purtroppo) lo sono anche se cercano di convincerti del contrario.
In un mondo votato all’ipercapitalismo e alla crescita infinita come il nostro, in un mondo di risorse finite, il paradigma con le buone o con le cattive prima o poi finirà per cambiare; la speranza è che tale cambiamento finisca per impattare più i multimilionari CEO che i poveracci come noi.
This post was published on 5 Novembre 2023 20:30
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