Uno dei trend più in voga nelle major videoludiche è quello di capitalizzare sul proprio catalogo, come dimostrano i numeri.
Che l’industria dei videogiochi stia vivendo un momento di profonda trasformazione è sotto gli occhi di tutti. L’entusiasmo causato dall’improvvisa espansione del bacino di utenza conseguente alla pandemia ha innescato un’ondata di eccessivo entusiasmo, che ha portato ad acquisizioni selvagge ed assunzioni massicce di personale, oltre che un profluvio di produzioni dei più vari ordini di grandezza. Scelte poco lungimiranti che si sono ritorte contro le stesse major, incapaci di tenere sotto controllo i costi e far quadrare i bilanci allorché, specialmente nell’anno appena trascorso, la contrattura del mercato provocata da un graduale ritorno alla normalità dopo l’emergenza COVID e l’incertezza dei mercati dovuti alla tragica situazione geopolitica mondiale hanno decretato il fallimento di molte operazioni live service, vendite sotto le aspettative per tantissimi giochi e una colossale riduzione degli investimenti nel settore. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: migliaia di posti di lavoro persi a causa di licenziamenti di massa da parte di tutte le più grandi aziende videoludiche, da Microsoft a Sony, da Ubisoft ad Embracer, la dismissione di interi studi di sviluppo e la cancellazione di numerosi progetti.
Non che queste misure draconiane fossero assolutamente necessarie, parliamoci chiaro: i ricavi dell’industria del gaming nel 2023 hanno continuato ad essere giganteschi, e il settore non si è mai trovato veramente in crisi di sostenibilità. Tuttavia le major hanno preferito non rischiare di perdere la fiducia dei propri investitori, facendo di tutto per poter continuare a presentare risultati finanziari in positivo: basti pensare alla gigantesca operazione di ristrutturazione messa in atto da Embracer Group, che nel Q3 2023 ha potuto esibire numeri confortanti dal punto di vista economico, pagando un carissimo prezzo in capitale umano. Lo stesso dicasi per Microsoft che, nonostante sia riuscita finalmente a mettere a segno l’acquisizione di Activision Blizzard per una cifra che ha sfiorato i 70 miliardi di dollari, non ha perso tempo nel licenziare centinaia di dipendenti degli studi appena inglobati nel nome della razionalizzazione dei costi; se non altro Phil Spencer si è dimostrato un cattivo sincero, dichiarando con franchezza che i tagli in oggetto siano stati decisi unicamente in nome della massimizzazione del profitto e non in conseguenza di una situazione emergenziale.
Piano piano stanno emergendo altri trend che fanno intuire la direzione verso cui si sta muovendo l’industria, almeno per quanto riguarda i grandi conglomerati: diminuzione delle produzioni, attenzione ai mercati emergenti, aumento dei franchise transmediali e dedizione al settore mobile sono alcune delle strategie verso cui vogliono orientarsi i grandi player del settore. Ce n’è anche un’altra, che al posto di guardare al futuro punta al passato (più o meno recente), e consiste nello sfruttamento dei giochi legacy: in pratica la rivalorizzazione (o mantenimento di valore) del proprio catalogo, tramite una serie di operazioni atte a mantenere profittevoli i titoli pubblicati il più a lungo possibile, o a riportarli in auge con iniziative ad hoc. Del resto, ciò che ha reso grandi le holding videoludiche odierne è la storia dei loro passati successi, dunque perché non fare di tutto per sfruttarli il più a lungo possibile?
L’anno scorso la società di analisi dati Newzoo pubblicò un report dedicato alle sfide ed opportunità di lanciare nuovi videogiochi in un mercato sempre più affollato di uscite (il report è scaricabile gratuitamente a questo indirizzo). In esso presentò la classifica dei giochi più giocati nella prima metà del 2023 su PC e console; da questa top 20 emerse che solamente un gioco pubblicato quell’anno vi rientrava (Hogwarts Legacy), mentre il resto del novero era costituito da giochi usciti negli anni precedenti, in alcuni casi si trattava di titoli con oltre 10 anni di età alle spalle! Insomma il pubblico tende a giocare i titoli vecchi assai più di quelli nuovi.
Da ciò si evincono due cose fondamentali: il fortissimo potere attrattivo delle IP più longeve e il successo del modello live service. Il franchise di Call of Duty rientra in entrambe queste categorie, e ciò non stupisce dato che è da anni in testa alle classifiche di vendita e di pubblico nei segmenti PC e console. La riconoscibilità e potenza del suo marchio ha fatto sì che 2 titoli appartenenti al franchise figurassero tra i titoli più giocati dell’anno (se calcoliamo Modern Warfare II e Warzone 2.0 come giochi a sé stanti). Questo vale anche per altre serie famosissime, come FIFA e The Sims, esperienze che si ripropongono annualmente o quasi, apportando cambiamenti più o meno significativi tra una release e l’altra ma mantenendo sempre una capacità attrattiva invidiabile verso un pubblico di fedelissimi.
Molti altri giochi costituiscono un unicum, ovvero non sono parte di una serie, eppure sono riusciti ad ottenere un successo tale da rimanere in auge per molti anni. Basti pensare a Fortnite, in circolazione dal 2017 anche se ci ha messo un po’ di tempo ad ingranare e diventare il fenomeno collettivo che è oggi; GTA V, uno dei giochi più venduti della storia, che dal 2013 ad oggi continua a comparire nelle classifiche dei titoli più giocati e redditizi; e addirittura titoli ultradecennali come League of Legends e Minecraft, ormai veri e propri universi transmediali espansi che si fa fatica a considerare “solo” videogiochi.
Ovviamente tuti questi giochi sono accomunati dalla stessa struttura live service: ovvero il loro mantenimento in termini di pubblico e redditività è assicurato da aggiornamenti costanti che garantiscono l’aggiunta di contenuti sempre nuovi con cui il produttore si assicura una costante monetizzazione. In un modello economico del genere i costi di sviluppo e lancio iniziale del gioco si ammortano nel corso di anni e anni di vita commerciale del prodotto, ripagandosi ampiamente, e i titoli in questione continuano a generare profitti a lungo, all’esiguo prezzo del costo di mantenimento e sviluppo di contenuti aggiuntivi, non certo esosi come quelli richiesti dal costante sviluppo di nuove IP AAA, i cui costi di produzione diventano sempre più elevati e insostenibili.
Se si affronta la questione della quantità di nuovi giochi pubblicati come un problema, ci si rende conto dell’effettiva difficoltà che questi ultimi hanno nell’attirare pubblico: se videogiochi vecchi di 10 anni continuano a calamitare il tempo e le attenzioni di centinaia di migliaia di videogiocatori, chi troverà mai il tempo di soffermarsi sulle nuove uscite, soprattutto se esse continuano a moltiplicarsi? In effetti, i dati raccolti su quest punto sono assai problematici: di anno in anno si producono sempre più videogiochi, ma quelli che riescono ad ingaggiare e/o mantenere quote significative di pubblico diminuisce sempre di più, almeno per quanto riguarda il mercato PC e console.
Il grafico qui sopra radiografa il problema in modo evidente: ogni anno vengono pubblicati su Steam migliaia di nuovi titoli, in particolare negli ultimi anni il numero eccede addirittura le 10.000 nuove uscite annuali. questo grafico si ferma al 2022, ma consultando Steam DB si può leggere anche il dato relativo al 2023, anno in cui si è raggiunta la cifra record di 14.451 nuovi videogiochi! Come si può pretendere che il pubblico giochi tutta questa roba? È impossibile, anzi: avviene l’esatto opposto. Come si vede dal grafico di destra, infatti, il numero di uscite annuali che raccolgono almeno 50.000 utenti in modo stabile diminuiscono di anno in anno. In parole povere, il numero di pubblicazioni cresce ad un ritmo troppo elevato rispetto alla crescita del bacino di utenza: non ci sono abbastanza videogiocatori per tutti i videogiochi che si producono. Questo trend potrebbe aver raggiunto il suo picco: sempre secondo Steam DB, in questi primi tre mesi dell’anno sono stati pubblicati poco più di 3000 nuovi giochi, una media di circa 1000 al mese. Se l’andamento si manterrà uguale per tutto l’anno, per la prima volta dal 2019 a questa parte potremmo testimoniare una battuta d’arresto nella crescita del numero di nuove uscite; sarebbe comunque ancora troppo presto per parlare di una vera e propria inversione di tendenza.
Questo problema, lo ribadisco, riguarda nello specifico i segmenti PC e console: il mobile gioca una partita leggermente differente, anche perché ha un pubblico in espansione molto più rapida, dato che consiste praticamente in qualsiasi possessore di smartphone. In questo #GameFactory ho analizzato i numeri relativi alle differenti generazioni di videogiocatori, da cui emerge chiaramente quanto le generazioni più giovani tendano a videogiocare tramite dispositivi mobili piuttosto che fissi. Il mobile gaming insomma mangia fette di utenza e mercato a quelle PC e console anno dopo anno, il che fa sì che tutte le nuove uscite videoludiche sulle piattaforme domestiche abbiano sempre meno chances di totalizzare grandi numeri. Ciò detto, nemmeno il segmento mobile è immune al problema della proliferazione di nuovi giochi, anche se i fattori appena descritti lo rendono meno pressante. Tuttavia è il caso di soffermarsi su questo punto per scoprire come si sta muovendo il settore per la valorizzazione dei propri giochi legacy.
Come detto, il mobile gaming non è esente dal problema della quantità di titoli presenti oggi sul mercato e della necessità di capitalizzare sulle proprie IP di punta da parte degli sviluppatori per assicurarsi un costante flusso di ricavi in entrata. Nonostante sia il segmento in maggior crescita dell’intera industria del gaming per quanto riguarda ricavi e pubblico, è anche quello dove vige la maggior incertezza rispetto al quadro legislativo, in perenne fermento soprattutto in questi ultimissimi anni, al crescere dell’attenzione delle autorità antitrust di messo mondo – ma in particolare europee – che stanno obbligando i proprietari di app store a conformarsi a normative più stringenti e favorevoli alla libera concorrenza: basti pensare alle misure imposte dall’UE ad Apple, costretta ad aprire i propri sistemi iOS a store di terze parti, con Google che rischia di subire a stretto giro la medesima sorte. Tutto questo rende più difficile targetizzare la pubblicità in-game, da sempre una delle principali fonti di reddito del settore mobile. Mettiamo nel calderone anche il controverso caso della Unity Runtime Fee, che ha gettato ulteriore incertezza rispetto ai costi di sviluppo dei giochi mobile basati sull’engine in questione.
Insomma anche il mobile ha i suoi problemi, e sono in molti gli sviluppatori che hanno studiato il modo di monetizzare al massimo i propri cataloghi. La società di consulenza per sviluppatori mobile Superscale ha coniato un’espressione ad hoc per definire questa pratica: Legacy Game Management, ovvero l’insieme delle strategie adottate dagli sviluppatori per assicurare lunga vita alle proprie IP, prolungandone la profittabilità per oltre il periodo di lancio.
Legacy Game Management è il processo di ringiovanimento di giochi che si potrebbe pensare abbiano lasciato alle loro spalle i propri giorni migliori, e magari non ricevono più aggiornamenti regolari o grandi quote di pubblico. Hanno ancora una platea di utenti paganti, ma soffrono di un trend declinante di ricavi, oppure i loro sviluppatori stanno focalizzando le proprie risorse su altri progetti potenzialmente più profittevoli.
– Estratto dal report Good Games Don’t Die: Unlocking the full potential of Legacy Games – scaricabile a questo indirizzo
Gli sviluppatori in media hanno 18 legacy game nel proprio catalogo. Ma i bei giochi non devono per forza morire. Possono tornare i auge tramite nuovi aggiornamenti, migliori analisi dati, unitamente a strategie di marketing efficaci e il supporto di esperti di LiveOps. Su queste premesse si può fondare il futuro del loro business.
Il sondaggio condotto da Superscale ha coinvolto oltre 500 sviluppatori distribuiti tra USA e Regno Unito. Tra questi, il 32% ha effettuato tagli di personale nel 2023. Sebbene i giochi casual e hypercasual siano il genere più diffuso sule piattaforme mobile – oppure proprio per questo – sono gli sviluppatori di questo genere ad aver riscontrato le difficoltà maggiori, in particolare il 62% dei team ha dovuto licenziare parte del personale per mantenere il businness sostenibile. Tra le principale strategia per abbattere i costi si è messo in pratica l’outsourcing: il 40% degli studi intervistati ha esternalizzato parte del processo di sviluppo, il 37% ha esternalizzato il publishing e il 28% ha fatto lo stesso con il comparto artistico. Solamente il 23% delle software house ha curato interamente lo sviluppo dei propri titoli.
D’altronde una pratica sempre più in voga consiste nel cancellare i giochi ancor prima che escano, qualora ci si renda conto che non rispettano gli standard qualitativi prefissati o che non riescano a raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati entro certi limiti temporali. La percentuale di questi progetti abortiti è sconvolgente: ben il 43% dei giochi vengono cancellati prima del lancio. Insomma è evidente che gli studi si stanno facendo sempre più prudenti e preferiscono evitare di portare a termine i lavori su progetti che, per vari motivi, rischiano di non ripagare gli investimenti profusi. Ovviamente questo provoca una certa insoddisfazione nel personale che ci lavora, ma un dato curioso consiste nel fatto che il 24% degli sviluppatori più longevi (con oltre 10 anni di carriera) considera questa pratica “parte del lavoro”, e non la considera particolarmente demotivante.
Quanto ai nuovi giochi effettivamente immessi sul mercato, le cose non sono particolarmente rosee: il 17% “muore entro i primi 6 mesi di lancio; il 47% entro il primi 12 mesi; l’83% entro i primi 3 anni. Ciò significa che meno di 2 giochi su 10 supera i 3 anni di vita commerciale sugli store mobile, senza contare il fatto che ben il 76% dei giochi raggiunge il picco di ricavi nel primo anno di lancio. Dunque produrre tanti videogiochi è chiaramente controproducente, e la sensazione è che l’inflazione di titoli che ha caratterizzato questi ultimi anni sia una bolla prossima a scoppiare. Molto meglio smetterla di far uscire roba nuova e concentrarsi sul valorizzare ciò che si ha.
Gli stratagemmi adottati dai produttori di videogiochi per capitalizzare sui propri titoli di catalogo sono molteplici. In particolare le operazioni più in voga sono l’adozione del modello live service (cui ho già accennato sopra ma ora ci torno); lo sfruttamento transmediale e cross-franchise dei propri marchi; lo sviluppo di remake, rimasterizzazioni e addirittura demake condotti internamente o affidati a studi di terze parti; la creazione di collezioni di retrogame arricchite da contenuti extra.
Il 62% degli sviluppatori mobile oggetto del report di Superscale dichiara di adottare un modello LiveOps per i propri titoli, e di questi quasi uno su due propone nuovi contenuti su base mensile. Sappiamo bene che il modello game-as-a-service si è rivelato vincente sostanzialmente per qualsiasi dei titoli di maggior successo su piattaforme mobile: da Candy Crush Saga a Genshin Impact, da Monopoly Go a Clash of Clans, tutti i maggiori successi del mercato sono giochi free-to-play che monetizzano tramite acquisti in-app facoltativi: che siano moneta virtuale, loot box o pool di personaggi e armi come nei gacha, questo modello economico punta a coinvolgere il maggior numero di utenti possibile tramite l’offerta gratuita del gioco base, andando poi a sfruttare le cosiddette whale, ovvero i giocatori alto-spendenti, per garantire la sostenibilità di lungo periodo tramite la monetizzazione di contenuti aggiuntivi.
Tale strategia è sempre più usata anche nei segmenti PC e console, sebbene l’inesperienza delle major in questo settore abbia portato alcuni grossi produttori a compiere passi falsi nel recente passato, basti pensare ai pasticci della conduzione di SIE da parte di Jim Ryan a ridosso del pensionamento, che ha obbligato molti studi first-party a dedicare tempo ed energie allo sviluppo di GaaS senza possedere il know-how adeguato, con il risultato di interi progetti cancellati e anni di sviluppo buttati al macero (come nel caso della cancellazione del gioco multiplayer basato su The Last of Us); oppure al fallimento del progetto Hyenas targato SEGA, morto ancor prima di cominciare. Tuttavia ci sono stati anche successi inaspettati, a partire proprio da Helldivers II (qui la nostra recensione), uscito su PC e PS5 in esclusiva console, che in poche settimane ha totalizzato picchi di connessioni simultanee del tutto inattese adombrando quello che sembrava essere il fenomeno del momento ovvero Palworld, altro grandissimo successo immediato nonostante le diatribe con Nintendo circa il design delle creature (successo che a dire il vero sembra essere rapidamente declinato). Va notato inoltre che sempre più spesso i GaaS mobile di maggior successo approdano anche su PC e console, come avviene sistematicamente per tutti i recenti titoli di miHoYo, o come accaduto per il recente RPG-gacha Dragonheir: Silent Gods.
Dello sviluppo di IP transmediali come trend principale dell’industria del gaming ne ho parlato in diverse occasioni, fin da qualche anno fa. Le recenti posizioni delle major, da Microsoft a Sony, passando per WB Games, evidenziano la volontà di estendere le proprie IP sul maggior numero di piattaforme possibili. Ciò non consiste solamente nell’intensificazione dei lanci cross-platform, che porteranno verosimilmente ad una tendenziale diminuzione dei giochi in esclusiva (le quali saranno sempre più circoscritte temporalmente), ma anche nello strabordamento dei brand verso altri media. Il più evidente di questi spillover è il sempre maggior numero di adattamenti audiovisivi di videogiochi famosi sotto forma di film e serie tv, una sorta di tie-in al contrario che, certificando un ribaltamento di ruoli rispetto a quanto avveniva negli anni Novanta, ha sancito ormai il primato del videogioco sul cinema in quanti a potenza contaminante dell’immaginario collettivo almeno per quanto attiene all’ambito dell’industria culturale digitale.
In questo nuovo panorama mediatico il possesso delle licenze è la vera fonte di ricchezza, come dimostrano l’exploit di Hogwarts Legacy dello scorso anno, che ha sostanzialmente tenuto in piedi l’intero assetto gaming di Warner Bros, o i numeri che ogni trimestre totalizza Middle-earth Enterprises, azienda di proprietà di Embracer Group che gestisce le licenze non letterarie delle opere tolkeniane e concorre ogni trimestre al saldo positivo dei conti della holding svedese. E l’importanza dello sfruttamento del marchio è tanto più evidente quanto più si moltiplicano i fenomeni di cross-franchise, uno degli escamotage che le grandi compagnie stanno iniziando ad usare in modo sistematico solo in tempi recenti. Grazie alle ricerche di mercato che forniscono alle major delle analitiche sempre più precise rispetto a età, gusti ed interessi del proprio pubblico, le operazioni di marketing volte a legare le IP videoludiche a marchi di attività che col gaming non hanno nulla a che fare stanno aumentando vistosamente. Gli esempi più evidenti sono ovviamente i concerti virtuali tenuti all’interno di Fortnite, ormai verso e proprio metaverso che Epic è in procinto di espandere ancor più nel prossimo futuro grazie ad una partnership appena siglata con Disney.
Ma il cross-franchise esula dal videogioco in sé per andare ad abbracciare altri settori come la moda, lo sport, la gastronomia e molto altro. Qualche esempio?
I recenti attacchi di Nintendo contro gli emulatori di Switch e altre retroconsole di sua proprietà possono leggersi non solo come un consueto indice di paranoia e iper-protezionismo delle proprie proprietà intellettuali da parte dell’azienda nipponica, ma anche come volontà di preservare la profittabilità del proprio catalogo retrogaming. Nintendo infatti sta ampliando sempre più il suo catalogo digitale presente sullo store di Switch Online con giochi classici, spesso rilasciati a pagamento sottoforma di Pacchetti Aggiuntivi, tramite cui ci si può intrattenere con titoli (emulati) per Game Boy Advance e Nintendo 64. Del resto la pratica del recupero di giochi classici avviene sempre più di frequente, dato che si tratta di una soluzione win-win grazie alla quale le software house riescono e revitalizzare titoli vecchissimi che hanno ormai da tempo esaurito la propria vita commerciale con operazioni dal dispendio economico molto contenuto, anche perché spesso si tratta di conversioni con lievi miglioramenti e/o aggiustamenti affidati a terze parti che lavorano a basso costo.
Ci sono aziende specializzate in questi recuperi, la cui cura riposta nel lavoro filologico di ricostruzione del titolo è arricchito dall’inclusione di contenuti bonus che portano alla realizzazione di sontuose riedizioni da collezione. Probabilmente l’azienda leader in questo ambito è Digital Eclipse, che si è specializzata nella ripubblicazione di giochi classici, presentanti in gran lustro e con una pletora di apparati audiovisivi di corredo atti a conferire delle coordinate storico-critiche al prodotto stesso, conferendo al gioco stesso una dignità pari ad alcune prestigiose edizioni home video di film o dischi. Gli esempi più noti sono Atari 50: The Anniversary Celebration e soprattutto The Making of Karateka, un vero e proprio deep dive nel seminale fighter a scorrimento di Jordan Mechner e che fu un precedente fondamentale per la creazione del successivo Prince of Persia (se vi interessa l’argomento vi rimando al mio #aDevStory dedicato proprio Jordan Mechner e PoP). Ci sono anche piattaforme di game streaming online esclusivamente dedicate al retrogame come Antsream Arcade, che offre oltre 1000 titoli classici risalenti agli anni 80-90-00, ne arricchisce l’esperienza con inedite modalità multiplayer online ed organizza perfino competizioni settimanali su titoli sempre diversi.
Non si tratta certo di una tendenza recente, dato che le prime HD Collection risalgono alla settima generazione di console (ma volendo si può risalire fino a Super Mario All-Stars per SNES!). La pratica però sta prendendo sempre più piede e riguarda i giochi più disparati, non solamente appartenenti ai brand più celebri ma anche a titoli più di nicchia o storicamente relegati a settori specifici, o che magari erano usciti solo su determinati mercati e non su altri. Molte aziende giapponesi, ad esempio, hanno preso l’abitudine di riproporre ad un pubblico mondiale versioni restaurate di vecchi titoli usciti originariamente sul solo mercato nipponico: pensiamo ad esempio ai remake 3D di Secret of Mana e Trials of Mana, o al remake HD-2D di Live A Live. Anche molte storiche IP relegate all’ambito PC stanno conoscendo una nuova giovinezza grazie a conversioni e rimasterizzazioni moderne che approdano anche su console, oppure al contrario alcune storiche serie videoludiche per console sono approdate per la prima volta su PC tramite ricchissime collezioni rimasterizzate: i casi in entrambi i sensi sono sterminati, si va dalla Halo Master Chief Collection alla Yakuza Collection; da Command & Conquer Remastered Collection alla Crash Bandicoot N. Sane Trilogy; da Diablo 2 Resurrected a Mafia: Definitive Edition, e si potrebbe andare avanti per ore.
Pere quanto riguarda l’ambito specifico dei remake, poi, è impossibile non citare la trilogia remake di Final Fantasy VII, di cui recentemente è uscito il secondo capitolo, Final Fantasy VII: Rebirth, acclamato da critica e pubblico; l’operazione di Square Enix, sicuramente inedita dal punto di vista dello sforzo produttivo, ha suscitato lo stesso (se non maggiore) entusiasmo che si riserverebbe ad una nuova IP AAA a lungo attesa, ed ha catalizzato su di sé un’attenzione spasmodica – attirando anche comprensibili critiche legate alla parziale riscrittura della narrativa di gioco – che ha riportato al centro del dibattito videoludico un gioco di quasi 30 anni fa! Quale migliore dimostrazione di questa circa la potenza dei cataloghi videoludici?
Infine, va segnalata la curiosa evoluzione del fenomeno demake, nati da iniziative amatoriali di giovani sviluppatori e modder che programmavano per passione delle versioni low poly dei propri giochi preferiti, ed ora evolutisi in un vero e proprio trend commerciale con studi di sviluppo che commissionano demake professionali ad aziende di terze parti, spesso con finalità pubblicitarie più che economiche: vedasi ad esempio il demake di Furi, commissionati da Game Bakers allo sviluppatore Sylph e rilasciato gratuitamente via Steam, oppure il Devolver Bootleg, collezione a prezzo budget di versioni demake di alcuni classici titoli del catalogo di Doinksoft pubblicati da Devolver; o ancora, un demake di Farming Simulator 2019 realizzata per Commodore 64 con tanto di formato cartuccia ad hoc, offerto come bonus dell’Edizione Limitata del gioco. La promozione dei propri brand passa anche da queste iniziative decisamente sui generis!
Oggigiorno esistono molte strade a disposizione delle major per valorizzare il proprio portfolio di giochi, assicurando loro una lunga vita che renda felici gli utenti e rimpingui le loro casse con continuità. Lo sfruttamento del catalogo è una tendenza sempre più pronunciata che l’industria sta sfruttando per far quadrare i conti in questa delicata fase di trasformazione del mercato, e ci sono tutti i presupposti per far sì che tale pratica venga assunta in pianta stabile da un numero sempre maggiore di sviluppatori e publisher.
This post was published on 16 Marzo 2024 17:45
Uno smartphone che, grazie alla tecnologia, è in grado di cambiare colore e reagire alla…
Recensione di Indiana Jones e l'Antico Cerchio, avventura cinematografica dell'archeologo più famoso del mondo. Continua
Come vi sentireste a pagare 6mila dollari per una bolletta di internet? Questo è ciò…
Siete alla ricerca di luci smart LED che possano restituirvi forti sensazioni visive e che…
Congegnare auguri di buon Natale, non banali e né stucchevoli, da mandare su WhatsApp ad…
L'annuncio arriva direttamente dal director del gioco che vuole dire stop al progetto nonostante il…