L’avvento di Alan Wake 2, con il suo successo di critica, è riuscito a portare le luci dei riflettori sull’ amore che Remedy impegna nel raccontare il genere fantastico in modo peculiare, attraverso un intreccio di thriller tradizionale e un insolito approccio alle tematiche sci-fi e soprannaturali tanto che, anche nel mercato mainstream si è tanto parlato di “new weird”.
Partendo dal noir di Max Payne e passando poi alle storie del Wake/Controlverse, ma anche giochi a sé stanti come Quantum Break, Remedy è riuscita a rileggere tutti i generi del racconto popolare con un approccio molto particolare, nel quale tantissimi topoi sono stati rielaborati in una chiave post-moderna, smaliziata e complessa, tipica del filone che abbiamo citato prima.
Un filone che, tuttavia, non è certo stato espresso solo dai giochi di Sam Lake e soci.
Fenomeni paranormali che popolano il mondo a nostra insaputa, oscure agenzie governative che studiano quegli stessi fenomeni, vicende bizzarre al confine tra thriller psicologico e introspettivo e puri racconti dell’orrore: di base, le storie di Remedy hanno in loro ingredienti che appartengono alla letteratura e al cinema di genere da almeno quarant’anni e che hanno avuto il loro momento culminante della popolarità con opere come X-Files o Roswell.
Tuttavia, la critica è concorde nel ritenere che le opere di Sam Lake siano più riconducibili al già citato new weird, una corrente letteraria ancora più recente e arrivata alla ribalta tra anni ‘90 e 2000 grazie a opere come Perdido Street Station di China Miélville o la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer.
Cosa lega le opere nate dalla penna del buon Sam e questi autori?
La metteremo così: un modo diverso di raccontare delle storie che forse abbiamo già sentito, un modo che, piuttosto che sui soli stilemi tipici dei generi popolari (avventura, mistero, paura, fantasy) tende a virare su concetti quali “bizzarro” e “inconsueto”, facendo leva su una maggior maturità e una certa autorialità postmodernista.
I risultati sono storie conturbanti nelle quali i generi si meticciano, mettendo assieme atmosfere visionarie, elementi da fantascienza realistica e, magari, qualche pennellata di inquietudine horror.
Un esempio è proprio il già citato X-Files, nel quale spesso le indagini di Scully e Murder (strutturate rigorosamente sul classico racconto di detection da poliziesco procedurale) vanno a sfociare in eventi fortemente bizzarri e spesso inquietanti, che spingono i protagonisti a mettere in discussione le loro certezze e a dover fare i conti con una realtà molto più strana di quella che potrebbero immaginare.
Questo approccio rende spesso le storie più elaborate e meno lineari, dai significati stratificati e ricchi di letture, non di rado utilizzate anche come mezzi di riflessione su temi etici, morali e politici.
In un certo senso, sintetizzando, è come se il new weird fosse un modo di intendere un fantastico calato in un contesto “verosimile”, ma su questo torneremo quando avremo in mano qualche elemento in più per ragionare.
Tornando a Control, già all’epoca dell’uscita della sua uscita la critica specialistica notò subito come il gioco avesse tantissimi elementi in comune con una delle opere letterarie manifesto del new weird, la Trilogia dell’Area X, incentrata sulle indagini di un’organizzazione governativa su un’area degli Stati Uniti in cui è in corso un’anomalia spazio-temporale che minaccia di inghiottire la realtà (dal primo romanzo, Annientamento, è stato tratto anche un discreto film da Alex Garland).
Ora, non solo sia Control che questi romanzi parlano di eventi misteriosi e di servizi segreti che devono tenerli sotto sorveglianza (una caratteristica che come abbiamo visto è propria anche di opere precedenti) e di un’entità “aliena” che fa accadere il finimondo (l’hiss in Control e le strane entità dell’Area X nella trilogia di Vandermeer), ma il vero nesso è soprattutto il tono di voce, sommesso, inquieto, incerto, quasi “analitico”, capace di descrivere un mondo sì permeato da elementi fantastici o “soprannaturali”, ma perfettamente coerente al suo interno e nel quale lo straordinario viene ricondotto in una dimensione quasi “razionale” (e proprio per questo, l’elemento weird risulta ancora più inquietante). Un principio simile a quello dei racconti della Fondazione SPC (qui trovate l’edizione italiana), incentrati su una misteriosa organizzazione segreta dedita al contenimento di anomalie soprannaturali, esperimento di “wiki narrativa” in cui dal 2012 portato avanti da una folta community attraverso testi strutturati come una serie di frammentari rapporti redatti dai membri del misterioso ente.
Il risultato di questo tipo di racconto è che, nel seguire gli eventi assurdi che ci troviamo davanti, siamo portati a rimanere sempre più rassegnati alla verità, ovvero che il nostro mondo concreto è permeato a forze e dinamiche che vanno al di là della nostra ragione e della nostra conoscenza, e quasi ad assecondarle.
È del resto ciò che accade in Control, dove Jesse Faden, vittima da ragazzina di un evento inspiegabile, abbraccia completamente la straordinarietà dei poteri che acquisisce all’interno della Oldest House come se fosse una sorta di essere un “mutante”, un X-Men.
Ciò è dovuto senza dubbio ai suoi trascorsi, ma anche all’ambiente straordinario in cui si trova, o forse ciò accade grazie alla consapevolezza di essere straordinaria e di avere altri strumenti per decifrare la realtà.
Non è un caso che, filologicamente, il weird originario (parliamo degli U.S.A. degli anni ‘20 e ‘30 del ‘900) fosse un genere di fiction in cui i generi tradizionali del dark venivano fusi -pensiamo all’incontra tra horror, scifi e soprannaturale in Lovecraft-ma soprattutto rivisti in una chiave nella quale il protagonista non è più eroe, ma vittima di orrori cosmici che si manifestavano in chiave insolita.
Il new weird prende letteralmente questa prospettiva e la proietta in una dimensione ancora più smaliziata.
Aggiornando la riflessione parallelo tra i canoni di Control e quelli del New Weird al dittico di Alan Wake, ci rendiamo conto che l’ipotesi di appartenenza dei prodotti Remedy a questo genere è, se possibile, accentuata.
Sin dal primo capitolo dedicato allo scrittore più famoso dei videogiochi, Remedy ha costantemente giocato con i topoi della narrativa horror e mistery, e in particolare con le poetiche di Stephen King e David Lynch, utilizzando l’archetipo dello scrittore in crisi e tormentato dai suoi blocchi (qui uno speciale su questo) meticciato con un tessuto narrativo più complesso, nel quale gli incubi del creativo acquistato una dimensione estremamente plausibile e dunque ancor più inquietante.
Il riferimento è per esempio agli episodi di Night Springs trovati durante l’avventura, in grado di farci mettere in prospettiva le vicende di Alan: gli orrori affrontati sono solo la proiezione mentale di una mente “andata”? E se invece non fosse così? Se le singole puntate di Night Springs non fossero che “segnali” in grado di farci intendere che le vicende di Bright Falls siano solo un “tassello” di un quadro più grande?
Se, come già accennato, nel primo episodio della serie questo tema rimane in qualche modo sotto l’ala di un mistery paranormale tutto sommato ancora “canonico” (per quanto originale), e se Control ha di fatto contestualizzato quegli eventi soprannaturali mostrandoli semplicemente come “un episodio” inserito in un insieme molto più grande, con Alan Wake 2 le cose diventano “davvero” weird.
Forse beneficiando dell’approccio di storytelling sofisticato e ricco di dettagli del gioco del 2019, il frammento di lore del Remedyverse che riguarda Alan Wake 2 è molto più cupo di quella del predecessore, non solo per le tinte horror, ma soprattutto per un certo senso di ineluttabilità degli eventi che finisce per inghiottire il giocatore.
Alan Wake 2 sa creare angoscia, sia giocando su un level design e un gameplay asfissianti (qui la nostra recensione) sia grazie a eventi davvero disturbanti e in grado di portarci a dubitare della nostra sanità mentale.
Se il “weird” di Control era quasi un genuino senso di fascinazione per una serie di eventi straordinari, un sense of wonder di incredibile potenza visiva e narrativa tutt’al più accompagnata dall’inquietudine, nel gioco del 2023 veniamo letteralmente atterriti da quello che succede e mai in senso positivo.
Perché quel personaggio dice una cosa senza senso?
Perché ho l’impressione che un posto che ho visitato in precedenza abbia qualcosa di diverso ed estremamente tetro?
Perché abbiamo la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato in tutto quello che proviamo?
Senza spoilerare, la chiave di lettura si trova in un termine che abbiamo utilizzato prima: disturbante, Alan Wake 2 è estremamente disturbante, molto più del predecessore e forse anche più di Control.
Tutto questo grazie alla tangibilità dell’ambientazione, all’approccio convinto con cui sono stati delineati personaggi che altrimenti non sarebbero altro che macchiette da storia thriller e, non ultimo, alla ricchezza della narrativa ambientale; ogni location di Alan Wake 2 non sarebbe altro che una sorta di compendio di ambientazioni da horror americano di cassetta, non fosse per la capacità di Remedy di riempirlo di contenuti secondari in grado di raccontare una storia anche partendo da un singolo dettaglio, dando corpo a un intero mondo.
Per esempio, vagando tra i vari livelli è possibile trovare alcuni siti di misteriosi esperimenti sui quali è possibile rinvenire appunti di vario tipo, che raccontano il “retroscena” di quello che stiamo vedendo. Baite, stazioni dei ranger isolate, torrette d’avvistamento tra i boschi: sono luoghi che, grazie a dettagli infinitesimali, sanno farci intuire il loro passato e il modo in cui si inseriscono nel racconto generale dandogli “qualcos’altro”.
Di fatto, ogni livello di Alan Wake 2 è una stratificata macchina narrativa nella quale si affastellano più e più significati, raccontati nelle maniere più impensate: quadri che ritraggono immagini misteriose, sovraimpressioni che riportano la mente a sequenze di gioco già viste o che ci si presenteranno solo in seguito, intere messe in scena che hanno come obiettivo quello di manipolare il giocatore attraverso un’opera di concerto tra level e game design e una lore diffusa e complessa.
Se Control era una sorta di gioco-manifesto del videogioco new weird, in grado di dimostrare come queste tematiche possano funzionare alla perfezione in questo genere, Alan Wake 2 ne è la complessa e fiera quintessenza, uno spietato atto d’amore verso un genere e un modo di raccontare le storie assolutamente peculiare.
E tuttavia, sarebbe sbagliato affermare che soltanto i giochi Remedy siano stati in grado di incarnare questa filosofia all’interno del videogioco, contemporaneo e no.
Anzi, dirlo sarebbe un dramma, perché a ben vedere il New Weird sembra aver lasciato tracce all’interno del videogioco influenzando molti altri artisti.
Torniamo brevemente al new weird.
Arrivati a questo punto, dopo aver sviscerato le componenti dei giochi Remedy riconducibili a questo tema, possiamo riprenderne la definizione e ampliarla: in virtù del suo voler riprendere stilemi narrativi già visti e portarli a un altro livello di maturazione, oltre che genere, oltre che tematica, new weird sembra quasi avvicinarsi al concetto di “ottica autoriale”, un approccio al fantastico, all’horror, al mistery (e quasi, perché no, più geek).
Un altro tassello che dovrebbe portarci a questo ragionamento è a questo punto che la stranezza delle tematiche di questi giochi si riflette anche nelle loro meccaniche di gameplay peculiari, quasi come se la loro grammatica dovesse riflettere la complessità della lore labirintica, e ancora una volta Control e Alan Wake 2 sembrano esempi calzanti: tanto il mix di esplorazione e azione forsennata del primo (in cui la fanno da padrone dinamiche di progressione e di poteri soprannaturali molto profonde), quanto l’intricato game system del secondo (con un intreccio di investigativo next-gen e di survival horror arricchito da svariati elementi caratterizzanti) sono a tutti gli effetti elementi identitari, ancor prima che elementi chiave dell’esperienza.
Il sistema della Stanza dello Scrittore di Alan, per esempio, non avrebbe senso in un altro gioco, è praticamente un ingrediente che acquista senso soltanto lì, in quel contesto.
Se a questo punto applichiamo la combo weird tema+gameplay a tutta una serie di altri giochi, soprattutto usciti nel corso degli ultimi anni, ci rendiamo conto che rintracciare un fil-rouge è abbastanza intuitivo.
Rimanendo nel filone del tripla-a e partendo da circa quindici anni fa troviamo la trilogia di BioShock: una pazzesca saga fantascientifica post-moderna nella quale Irrational Games declina i temi del dieselpunk (BioShock 1 e 2) e dello steampunk (BioShock Infinite) per farne tre epopee immersive sim in cui il giocatore deve affrontare orde di nemici in situazioni e ambienti alquanto distopici e bizzarri come i folli regimi di Rapture e Columbia, utilizzando tanto una discreta potenza di fuoco quanto a tecnologie fantasiose come i Plasmidi e il Vigor.
Dai ragazzi, cosa c’è di più new weird di muoversi in labirinti subacquei in cerca di bambine geniticamente modificate o di fuggire da strambi uccelli di metallo su un arcipelago di isole volanti?
E che dire di Dishonored? Anche qui, l’immersive sim di Arkane sembrerebbe l’ennesima ripetizione dello steampunk, ma ad avvicinarlo al new weird ci pensa ancora una volta la combinazione tra un setting molto più goticheggiante e arcano rispetto ad altri giochi con questo tema, e soprattutto la complessità di un gameplay totalmente basato sulla possibilità del giocatore di manipolare tempo e spazio attraverso i suoi poteri.
Insomma, due saghe fondative del gaming contemporaneo sono composte da giochi che rompono le barriere tematiche classiche, scegliendo oltretutto di parlare di temi politici e sociali come sviluppo tecnologico e sue conseguenze, temi filosofici di vario livello di complessità e molto altro (altra caratteristica del NW, tra l’altro).
Tuttavia, non si può parlare di “new weird” videoludico senza andare a sfrugugliare tutta una galassia di indie o comunque prodotti di nicchia il cui gameplay riescono davvero a rompere gli schemi e a imbastire un legame col giocatore davvero strambo, post-moderno, peculiare.
Un titolo che salta in testa è Kentucky Route Zero, gioco narrativo uscito prima a episodi nel corso degli anni 2010 e poi uscito in una complete edition nel 2020. Strutturato come un’avventura grafica, in realtà il gioco di Cardboard Computer è una bizzarra storia di viaggio che porta il suo protagonista Conway a vivere una serie di incontri ai confini della realtà lungo l’Interstatale 65.
Assurdo, bizzarro, onirico, costruito come un insieme di slice of life allucinato, Kentucky Route Zero spezzetta l’immaginario della provincia americana più profonda inserendo al suo interno elementi di realismo magico, dando vita a un’esperienza dai molteplici significati e in grado di mostrare il lato più insolito della realtà.
Ancor più significativo appare però The Stanley Parable, gioco-piccolo-fenomeno indie nato da una mod per Half-Life 2 e poi nel 2013 divenuto stand-alone.
Tematicamente, il gioco sembra legato da un esilissimo laccio alle atmosfere che abbiamo delineato finora: nei panni di Stanley, un impiegato di una grande azienda, ci ritroviamo nella situazione kafkiana di dover fuggire da un freddo ufficio dopo esservi rimasti intrappolati misteriosamente. Il fattore davvero “new weird” è tuttavia la sua impostazione, che ci vede quasi in un dialogo diretto con l’autore del gioco: costui, con una irritante voce narrante, guida passo-passo commentando le nostre azioni e suggerendoci quali compiere per completare con successo l’avventura. Di nostro, potremo decidere di seguire o meno le indicazioni del narratore, raggiungendo tuttavia esiti dei livelli e finali completamente diversi.
Una struttura di gioco che “destruttura” (scusate il gioco di parole) l’impianto classico di un racconto del mistero, mettendoci sì al centro di una situazione inquietante, ma in un contesto ancora una volta grottesco e assurdo che sfocia nel sarcasmo e nell’umorismo.
Un altro esempio potrebbe essere un gioco del 2023, Dredge: a livello di gameplay, altro non è che una sorta di simulatore di pesca in cui dobbiamo guidare la nostra barca tra spedizioni in mare aperto e il commercio di pesce nei singoli porti, con un’impostazione a più tratti quasi gestionale.
Cosa lo rende “weird”? Semplice: il fatto che presto ci renderemo conto che il mare è popolato da mostroni giganti che ricordano i mostri del caro e vecchio HP Lovecraft, come fossimo allegri pescatori di Innsmouth. Anche in questo caso, il weird non agisce tanto sul “tema”, quanto sull’unione strana tra tema e impostazione, tra “usuale” e “inusuale”.
Se quindi negli esponenti ludici più “mainstream” l’utilizzo del “tema” sembra essere piuttosto “cosmetico”, quando ci spostiamo in territori più “indie” il “weird” diventa strutturale, elemento di gioco, anomalia originale.
E tuttavia, questa dicotomia entra in crisi quando pensiamo a tripla A che a loro volta hanno “rotto” schemi propri del gioco d’avventura classico per farne esperienze più particolari; è il caso, forse, dei Souls.
Avete mai pensato a un classico Souls (che sia il capostipite del genere, Demon’s Souls o l’ultimo Elden Ring) come a un esempio di action-rpg fantasy classico che però gioca a variare le sue regole interne in modo da rendere l’esperienza più complessa, non solo in termini di difficoltà? Un’esperienza di gioco sì in grado di farci affrontare draghi, cavalieri-zombie, spiriti maligni e chi più ne ha più ne metta, ma ancora una volta attraverso una prospettiva diversa.
C’è qualcosa di più weird di questo, qualcosa più in grado di rileggere un genere e di creare nuovi spunti di analisi su di esso rispetto a questo?
È incredibile come un singolo concetto, tratto da un suo esempio specifico (in questo caso, i giochi di Remedy), possa averci spinto così “al largo” nel corso della nostra indagine su cosa possano voler dire “weird” e “new weird” oggi, all’interno del videogioco e dell’intrattenimento moderno.
Eppure, alcuni degli esempi fatti finora hanno sottolineato come di fatto l’anima “stramba” di questi giochi (da Alan Wake 2 ai Souls) non sia dovuta tanto all’utilizzo di tematiche orrorifiche od oscure, quanto nel voler operare una sorta di capovolgimento della prospettiva, attraverso cui giocare alcune avventure altrimenti “classiche” da un altro punto di vista, più insolito, inusuale, ma soprattutto di rapportarsi con la narrativa videoludica in maniera più matura e consapevole.
Alan Wake 2 è quindi sì una grande storia dell’orrore, ma è soprattutto una rilettura dei topoi di quel genere, destrutturati e rielaborati per celebrarlo e adorarlo, così come in fondo Control era una celebrazione divertita delle storie sulla teoria della cospirazione, e The Stanley Parable una parodia del concetto stesso di libero arbitrio all’interno di un videogioco.
Riscrivere le atmosfere (non parliamo di storie: in fondo stiamo parlando di prodotti ludici!), rimasticarle, trattarle attraverso escamotage che ne esaltino i lati più bizzarri e assurdi, sembra quasi un modo, per una coraggiosa fetta di game designers, di mettere in discussione gli stilemi classici del videogioco e riflettervi sopra.
Un’operazione non nuova all’interno della storia dell’intrattenimento contemporaneo, se pensiamo per esempio alla Hollywood degli anni ‘70 e ‘80, quando nuovi generi come la fantascienza pop rielaboravano gli stilemi di generi della golden age come western o war-movie per creare nuovi successi commerciali, mettere in discussione elementi della retorica di quei generi o i rivoluzionare i loro stilemi formali.
In un certo senso, quello che ha fatto il new weird con l’immaginario fantastico, non pensate?
È un approccio senza dubbio “di nicchia” rispetto al mainstream, al grande kolossal tripla A che racconta spesso una storia “antica” in maniera classica (spesso anche in maniera un po’ svogliata), e ha anche fette di mercato tutto sommato esigue rispetto ai blockbuster (lo stesso Alan Wake 2 ha purtroppo venduto meno di quel che si sperava), eppure l’esempio dei Souls porta a pensare che questa riscrittura, questa ricerca di rottura delle regole del racconto, sia a livello di storytelling che di regole ludiche.
Allora, cos’è “new weird”, oggi, nel videogioco?
Forse, un’ottica molto più diffusa di quello che pensiamo, ma viva in più forme, tutte diverse e gustosamente assurde.
This post was published on 27 Gennaio 2024 14:00
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