È possibile fare un videogioco su qualsiasi cosa? Se si intende la creatività, la risposta è incontrovertibilmente sì: nella mente videoludica, un simulatore di corse ha una sua coerenza logica tanto quanto un idraulico che spacca mattoni col pugno per sconfiggere una tartaruga sputafuoco. Ma se andiamo oltre l’aspetto ludico, la giocabilità, le cose cambiano. La possibilità si intreccia col senso. Ha senso fare un videogioco su qualsiasi cosa? Siamo già più incerti. Ha senso fare un gioco basato su uno sport? Beh, certo. E su un topos come la lotta tra il bene e il male? Ovvio, la stragrande maggioranza dei titoli sulla Terra è imperniato su questo. E invece, creare un gioco basato su un brand? Le cose cambiano e il perché già lo sappiamo, è una conoscenza acquisita, un dato innato per i terrestri nell’epoca del capitalismo: se il centro è un brand, allora non avremo un gioco, ma una pubblicità. E a noi videogiocatori non servono consigli per gli acquisti, servono ore di gaming per combattere lo spleen del quotidiano.
Sotto questa lente, creare un videogioco per spingere un marchio è la peggiore nefandezza possibile, anche perché dobbiamo ricordarci che un’alta percentuale di gamer è di giovane età e quindi più facilmente preda dei meccanismi dell’advertisement (ad esempio, nel 2022 negli U.S.A. un videogiocatore su cinque aveva meno di 18 anni).
E quindi: ha senso un videogioco su un brand? Per i videogiocatori no, ma per le corporation sì, eccome. E li hanno fatti. Eccovene alcuni da una lista purtroppo molto più lunga.
La guerra gassata
Avrebbe potuto essere Krusciov il testimonial della Pepsi Cola. Nel 1959 Mosca ospitò l’Esposizione nazionale americana, durante la quale ebbe luogo un dibattito appunto tra il Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il vicepresidente statunitense Richard Nixon – il cosiddetto Kitchen Debate. Si narra che dopo la discussione il leader sovietico venne avvicinato da Donald Kendall, manager di Pepsi ivi recatosi come espositore, il quale gli offrì un sorso della bevanda: per Krusciov fu amore al primo sorso, e Pepsi diventò di lì a breve (cioè, negli anni ’70) il primo prodotto USA ad essere commercializzato nell’URSS. Ma la storia è una maestra complessa, e così per pubblicizzare il drink non venne mai impiegato il faccione di Nikita – in compenso l’azienda se ne uscì con Pepsiman, sorta di supereroe delle bevande gassate, protagonista nel 1999 di un omonimo videogioco per PlayStation riservato al mercato nipponico.
Il gioco è introdotto e intramezzato da spezzoni video di un tizio che beve lattine di Pepsi-Cola a profusione, nel probabile tentativo di eseguire un harakiri in the American way. Si tratta di un bislacco racing game nel quale, nei panni attillati e blu elettrico di questo paladino degli zuccheri, dovremo evitare che la povera gente rimanga senza la preziosa bibita, evidentemente vitale per la propria sopravvivenza. Ci troviamo di fronte a una premessa imbarazzante, sublimata dalla minaccia di una rivolta popolare nel caso in cui non dovesse sopraggiungere il rifornimento di lattine. Eppure, il gioco in quanto tale non è malaccio, in quanto ben prodotto dal punto di vista della giocabilità, con un buon feedback dei comandi. Ciò non significa che vi stia dicendo di provarlo, né di bere il marchio che spinge, soprattutto in virtù di una mancanza determinante: non ho mai sentito parlare di whiskey e pepsi.
Poteva quindi mancare la controparte della concorrenza? Ovvio che no, se è vero, come ha scritto il giornaliste inglese Tom Standage, che «la Coca-Cola è la cosa più vicina al capitalismo che si trovi in una bottiglia».
Coca-Cola Kid è un’avventura ignobile del 1994 per Game Gear, anche questa esclusiva per il mercato nipponico (amici del Sol Levante, perché?). L’apertura è già un sogno: prima il logo di SEGA intonato dal celeberrimo coro, subito dopo una bella schermata rossa, il suono a 8-bit della cochina bella fresca che scende giù nel gargarozzo a là Giovanni Storti, e la dicitura Enjoy Coca-Cola. Sono colpito, ammirato, nauseato. Non credo ci sia bisogno di dilungarmi sui dettagli della trama, che vede un cattivo con la cresta e per protagonista la mascotte Cokey, ragazzino che più anni ’90 non si potrebbe con il suo skate e il suo cappello con la visiera all’indietro.
Il collezionista di retrogaming che è in me quasi cede nel dire che la cosa più interessante di tutta la produzione era il Game Gear rosso edizione limitata, ma poi per fortuna rinvengo e mi ricordo chi è il nemico. Il gioco in sé è ovviamente dimenticabile, il classico platform-adventure in 2D dei tempi, completabile in una mezz’ora durante la quale il buon Cokey ci mostra come eccedendo nelle dosi consigliate di Coca-Cola sia possibile effettuare doppi salti e sconfiggere marzialisti, e non sviluppare patologie cardiache o il diabete come insinuano le malelingue della scienza.
Che poi a me la Coca-Cola piace, ma è innegabile che rappresenti anche uno Stige il cui corso conduce verso l’inferno del capitale, una M inquietantissima sparsa come i monumenti di un regime che però per la popolazione del pianeta significa cibo, McDonald’s.
Parappapappà I’m loving my gastroscopy
Qualche mese fa ha catturato la mia attenzione la notizia dell’uscita di un gioco free-to-play per Game Boy Color prodotto dalla catena di fast food, appunto. Un vassallo di Gunpei Yokoi come me ha immediatamente avvertito l’atto conoscitivo di provarlo, e il titolo in questione si intitola Grimace’s Birthday – disponibile anche per PC e smartphone.
Scopro che il portale Fandom dispone anche della sezione dedicata a McDonald’s, e questo oltre a farmi capire che la fine del mondo è ormai imminente mi porta ad apprendere che “Grimace è un essere di specie indefinita”, praticamente il contenuto di uno qualsiasi dei panini del “ristorante”, come lo chiamano gli statunitensi [c’ho li brividi, c’ho].
La giocabilità – platform a due dimensioni, anche qui di durata insulsa, più o meno un quarto per portarlo a termine – non è neanche malvagia, a differenza dell’obiettivo ludico di spararsi più milkshake possibili, e non so quale Dio permetterebbe una cosa del genere. E la scelta del Game Boy Color non è casuale, ma va anzi a inserirsi in un trend di mercato che vede nell’oggetto analogico di qualche decennio fa un manufatto di culto che attraverso i social diventa cool. Immagino che più o meno chiunque possa prima o poi agire a caso, ma mai un pubblicitario.
Amo l’odore di uomo sudato al mattino
Ma non pensiate che siano usciti solo giochini 2D in una manciata di sprites, c’è chi si s’è spinto oltre, purtroppo. Ad esempio Axe, il brand di prodotti per l’igiene maschile famoso per i testosteronici deodoranti, parte della tentacolare Unilever. Nel 2005 l’azienda rilasciò Mojo Master, titolo nel quale veniva richiesto al giocatore di aiutare il protagonista nella delicata arte della seduzione, verosimilmente spruzzando quantità di deodorante sufficienti ad acuire i vari problemi di inquinamento globale.
La stessa compagnia ha provato più avanti a lanciare Axeman, gioco musicale in cui affrontare nemici e ovviamente conquistare ragazze – in un video ho scorto la didascalia “Collecting girls encreases your health“, se mai dovessero servirvi altri elementi di discussione contro il patriarcato. Il titolo venne cancellato per console e pubblicato solo su mobile. Io invece voglio chiudere questo paragrafo ricordandovi della linea di prodotti per il corpo prodotta da Axe per Microsoft.
Punta e clicca e allaccia la cintura
Mi avvio a chiudere questo terribile approfondimento con un gioco nostrano e in qualche misura diverso da quelli mostrati finora. Intanto vi chiedo: qual è il più incredibile autoveicolo mai realizzato da Fiat, e perché proprio la Multipla?
Quando la macchinona a sei posti raggiunse le concessionarie nel 1998, l’azienda torinese pensò di distribuire un cd per computer intitolato Multispy, che per qualche motivo arrivò nelle mie mani di bambino delle elementari. Un punta e clicca dal taglio ironico, ricco di riferimenti ad altri media, che presentava sezioni di gaming differenti, dai puzzle ai combattimenti – un lavoro palesemente diverso da quelli descritti finora. Lo scopo era sempre quello di promuovere un prodotto, ma con un piglio diverso, più conoscitivo-attivo che induttivo-passivo, attraverso uno sviluppo improntato a creatività, che è proprio ciò che fa la differenza.
Non vorrei però a questo punto essere frainteso, e quindi concludo ricordandovi che il capitalismo etico non esiste, ma le pubblicità sì, e sono pure troppe – di certo non le vogliamo a contaminare le nostre preziose ore di gaming.