La storia del videogioco a tema horror è una storia fatta di profondi legami tra quell’industria e la letteratura del terrore: dal sempreverde HP Lovecraft a Edgar Allan Poe (come ricordavamo in quest’articolo), per finire con Bram Stoker (ricordate i giochi tratti dal suo Dracula?) e Stephen King (ecco a voi una retrospettiva), sceneggiatori e creativi hanno saccheggiato i classici in cerca di ispirazione, talvolta andando a creare veri e propri gioielli dal gusto letterario.
C’è però un caso che oggi, in pieno clima da Halloween, ci sentiamo di raccontarvi il caso di un grande autore di horror contemporaneo che per varie volte si è cimentato nella creazione di un gioco digitale, curandone un comparto centrale come quello dello storytelling.
Conosciuto come il padre di Hellraiser e del suo protagonista/antagonista Pinhead, autore di numerose raccolte di racconti horror e splatter intitolate Libri di Sangue (che abbiamo voluto omaggiare nel titolo dello speciale) Clive Barker è a oggi autore di ben 2 videogiochi, Undying e Jericho, che hanno dimostrato ai videogiocatori di che pasta sono fatti i suoi incubi.
Pronti a entrare nell’incubo?
Serve davvero uno stomaco forte, ma ne vale la pena: buona lettura.
Clive Barker, il gran signore dell’orrido
C’è un vecchio adagio, nel panorama della letteratura horror contemporanea, che vuole Clive Barker (Liverpool 1952) come una sorta di “Stephen King al negativo”: se l’autore di Shining, Carrie e Le Notti di Salem viene definito una sorta di Spielberg dell’horror, in grado di costruire grandi storie dell’orrore condite dai temi della narrativa americana “mainstream” (famiglia, rapporto con le proprie radici e con l’autorità), Barker è l’incarnazione dell’anima più estrema, nichilista e rivoluzionaria del genere.
Dove King usa le storie del soprannaturale per raccontare come in fondo l’essere umano sia ancora degno di redenzione, il buon Clive racconta storie davvero nere in cui ancor prima dell’orrore ultraterreno emerge quello della violenza, un orrore descritto con tanta ironia e gusto del macabro da attrarre.
Schiavi dell’Inferno, il romanzo alla base di tutto l’universo narrativo di Hellraiser, è per esempio una tetra ballata su pulsioni e istinti umani come il piacere, la ricerca di sfogo, l’attrazione per la violenza. In essa tutti i personaggi principali sono coinvolti dal tentativo di scoprire cosa c’è in altri piani di esistenza (od “oltre la soglia”, giusto per citare il buon Lovecraft) attraverso la leggendaria Scatola di Lemarchand, un congegno che promette di trasportare chi lo usa in una dimensione di dolore talmente forte da rasentare quella del piacere. E’ usandola che vengono richiamati i Cenobiti (primo tra tutti l’iconico Pinhead), demoni di altre dimensioni che hanno il compito di sottoporre coloro che usano il Cubo a indicibili sofferenze.
Questo nichilismo esasperato rende lo stile di Barker feroce, barocco, quasi incline a beffare il lettore attraverso una costante esaltazione della violenza e delle sue conseguenze, e non si risparmia nessuno, né donne né anziani e neanche bambini. Un’assoluta goduria per tutti coloro che credono che l’orrore debba essere assoluto e senza speranza di redenzione, con buona pace di Stephen King.
Le conseguenze di questa poetica sono tante, sia nella scelta dei temi che si rincorrono nelle varie storie di Barker che nell’estetica dei prodotti visivi tratti da esse.
Per quel che riguarda i primi, tanto nei prodotti legati a Hellraiser quanto nelle opere “minori” troviamo per esempio uno sconfinamento costante nel fantastico, attraverso l’uso di tanti archetipi narrativi che potrebbero non sfigurare in un qualsiasi dark fantasy. Lo stesso artificio della Scatola di Lemarchand e tutta la lore attorno a essa fa andare con la mente più ai mix tra horror e fantastico di HP Lovecraft che all’horror “quotidiano” di Edgar Allan Poe, e testimonia l’amore di Barker per l’esplorazione di altri mondi o i riferimenti a culture precedenti o perdute.
In Barker, vedremo, il male è qualcosa che travalica i secoli e li attraversa come una maledizione, come accade anche in Testacruda Rex, gustoso racconto lungo incentrato sulla distruttiva resurrezione di uno spietato guerriero celta e sulla sua devastante visitina a un quieto villaggio della campagna inglese.
All’interno di quasi tutti i prodotti audiovisivi ispirati al mondo di Barker, tutto questo si tramuta in una sorta di tour de force splatter, con corpi deformati dal Male, arti mutilati, sangue a palate, degradazione, e questo è vero sia al cinema che nei due videogiochi di cui è stato sceneggiatore.
Undying e Jericho: orrori digitali
Come accennato più su, Barker è un ottimo esempio di scrittore in grado di “invadere con autoritalità” anche altri media: è pittore e illustratore dei suoi stessi lavori e ha adattato di sua mano Schiavi dell’Inferno nel primo Hellraiser, definendo di fatto l’aspetto di Pinhead, uno dei più importanti villain dell’horror contemporaneo.
Nel corso degli anni, questa propensione verso il “visivo” ha dato vita a due videogiochi, due action in prima persona conditi con alcune “peculiarità” di gameplay: Clive Barker’s Undying (2001) di EA Los Angeles e Dreamworks Interactive e Clive Barker’s Jericho, della spagnola MercurySteam (2007), ai quali Barker ha lavorato in prima persona sviluppando script originali.
Nota bene: il rapporto di Barker con i videogiochi è in realtà un po’ più antico: nel 1990 collaborò infatti anche a due giochi tratti dal film suo film Cabal, Nightbreed e Nightbreed: The Interactive Movie, che però sono vere e proprie trasposizioni.
Si tratta di due giochi molto simili, sia per temi che per impostazione, per quanto abbiano differenze fondamentali.
Undying è la classica storia di demoni e spettri ambientata nel secolo scorso, in cui dovremo guidare il veterano di guerra Patrick Galloway nella tormentata esplorazione della tenuta dei fratelli Covenant. Questi baldi ragazzi, infatti, sono divenuti non-morti dopo aver evocato una pericolosa entità, e ora si preparano a conquistare il mondo. Si tratta di un’avventura FPS in cui il giocatore alterna attacchi “naturali” con fucili e pistole ad altri “magici” grazie ai poteri dati da un leggendario artefatto conosciuto come la Pietra di Gel’Ziabar.
Jericho, di qualche anno dopo, è di nuovo un FPS, ma con elementi tattici, nel quale il giocatore può manovrare la piccola squadra di assaltatori delle forze speciali che lo accompagna: siamo infatti in una storyline in cui il soprannaturale esiste ed è riconosciuto, e il governo statunitense ha costituito la classica unità d’assalto segreta per contrastare demoni e altre cose poco raccomandabili, in perfetto stile Hellboy. Quando Arnold Leach, ex-commilitone della squadra, parte per la remota città mediorientale di Al Khali per compiere un rituale in grado di far risorgere una potente entità soprannaturale conosciuta come il Primogenito, il team Jericho deve accorrere per impedire che avvenga l’irreparabile e la civiltà venga dilaniata dal Male.
Si tratta di due giochi in cui emergono, in modo preponderante, tutti i temi principali di Barker (che in Undying venne chiamato da Dreamworks a “completare la lore” in una fase più avanzata, mentre in Jericho figura come producer).
In entrambi i plot, come in Hellraiser e Testacruda Rex torna il tema fondamentale del male attraverso i secoli, incarnato dalle antiche divinità pagane che ci troviamo a combattere (il che fa molto Lovecraft, ovviamente), e curiosamente in entrambi i giochi troviamo sezioni in cui il personaggio deve viaggiare nel tempo per combattere incarnazioni passate del male; in Undying dovevamo viaggiare fino all’irlanda del medioevo per attraversare un monastero corrotto dal male, mentre in Jericho l’esplorazione di Al Khali ci faceva imbattere in personaggi di epoche diverse rimaste intrappolate nella rete del Primogenito.
Venendo al lato “estetico”, se in Undying le atmosfere sono più da classico horror post-vittoriano, quasi ghost story, nel character design di Jericho ritroviamo il tema dello splatter e della sofferenza di chiara derivazione barkeriana, con una schiera di avversari dal design fortemente aggressivo che sembrano voler mettere alla prova il nostro stomaco e buongusto, un vero e proprio marchio di fabbrica dell’autore.
Non è un caso che tra i due giochi sia Jericho quello ad aver goduto di un maggior coinvolgimento del buon Clive, riconoscibile anche in alcuni lati kitsch della sceneggiatura (come la stessa composizione della squadra, praticamente un campionario da fumetto americano anni ‘40-’50).
Quello che emerge è la capacità di un autore di narrativa di reinventare sé stesso, di aprirsi a nuovi campi e soprattutto di entrare all’interno di processi creativi innovativi per uno scrittore che ha avuto il suo apice in un contesto precedente a quello in cui il videogioco si è imposto come media di largo consumo, il tutto per costruire un nuovo tassello della sua visione.
Purtroppo, gli esiti di Undying e Jericho sono stati abbastanza diversi.
Se il videogioco di EA Los Angeles, uscito la bellezza di ventidue anni fa, venne promosso già all’epoca (Metascore tra i 70 e i 90, inclusi i punteggi di testate come IGN e PC Gamer, qui la pagina ufficiale) e ancor oggi viene ricordato come un gioiello, Clive Barker’s Jericho ha una media molto più varia, con voti che toccano anche l’insufficienza a causa di banalità strutturali e di povertà di contenuti.
Un esito che al momento sembra aver portato a una fase di stallo, se non di interruzione totale, nel rapporto Barker e il videogioco: dopo Jericho, il bardo del terrore non ha più partorito nessun altro gioco digitale.
Abbiamo bisogno di più Barker nell’industria del videogioco?
Ora, non so voi, ma il fatto che Barker non abbia più scritto videogiochi o abbia intenzione di farlo (e va detto che anche la sua vera e propria produzione letteraria è ferma da qualche anno) ci sembra un gran peccato. Come questa breve e compressa retrospettiva ha tentato di raccontare, quello di Barker è il classico caso di un talento poliedrico e in grado di adattarsi alle varie forme di storytelling in modo convincente, piegandole alla sua poetica e ai suoi obiettivi, ma soprattutto alla sua estetica. Al di là del meriti o demeriti oggettivi di Undying e Jericho, basta leggere o vedere qualsiasi cosa Barker abbia partorito nel corso degli anni per rendersi conto di come rappresenti una perfetta incarnazione dell’horror fantasy più estremo, in grado di fondere con successo l’orrore e la creazione di storie immaginifiche e piene di contenuti, nonché di renderli tangibili.
I setting di Barker sono vivi, carichi di riferimenti e di invenzioni sia visive che narrative, i suoi mostri riescono ad andare oltre l’estetica tradizionale e a tradurre in realtà incubi, deliri e persino i concetti sessuali più oscuri, avvicinandosi tantissimo, per esempio, all’opera fatta da Masahiro Ito con i primi Silent Hill.
Dove vogliamo arrivare?
Semplice: al survival horror contemporaneo, ricchissimo ma sempre alla ricerca di originalità, manca davvero tanto una figura come Barker, in grado di incarnare il lato più, perverso, estremo, conturbante del genere e di costruirci attorno un progetto autoriale.
L’ideale, il desiderata, sarebbe quello di vedere il papà di Pinhead tornare a scrivere, magari stringendo collaborazioni con software house come Bloober Team (o magari un suo erede); ma, in caso ciò non sia possibile, basterebbe anche soltanto qualcuno in grado di imporre una visione e che sia in grado di renderci vittime dei suoi incubi in modo tanto vivo.
Un’impresa difficile.
Forse impossibile.