Nella letteratura, nel cinema, nell’arte e (andando avanti nel tempo) negli infiniti ruscelli della cultura pop, troviamo figure mitiche del folklore e dell’immaginario che tornano di opera in opera.
Spesso questi miti sono parte di culture millenarie, nati nella stretta terra di mezzo tra Storia e Leggenda e divenuti figure comuni a diversi popoli.
Tra queste figura Re Artù di Camelot, lo stesso di cui oggi raccontiamo la storia videoludica. Il buon Artù, celebrato dalle leggende britanniche e cantato dal Ciclo Bretone, è stato protagonista di infiniti romanzi, film e cartoni animati, diventando una figura ben conosciuta da grandi e piccini.
Il nostro non sarà tuttavia un cammino fine a sé stesso, non sarà un “dieci videogiochi con protagonista Re Artù”, ma servirà per porci una domanda: quanto spazio hanno miti di questa importanza nel nostro medium preferito? E, laddove questo spazio non ci sia, in che modo finiscono per influenzare le trame e il gameplay dei videogiochi?
Vediamo di capirci qualcosa.
Prima di iniziare, un po’ di sano racconto.
La scelta del racconto videoludico di Re Artù di quest’oggi è dovuta a una conversazione avuta col buon Pietro Falzone (altra firma di Player) all’annuncio di King Arthur: Legend Rise (un RPG a turni per PC e mobile), partita con una domanda chiara: “Esistono altri giochi ispirati al ciclo Arturiano?”.
Come spesso accade quando ci domandiamo se esistono giochi tratti da figure letterarie e storiche, la risposta è “Non immagini quanti”.
Artù, Robin Hood, Sherlock Holmes, Poirot, Batman (e il partire da un passato remoto per arrivare all’oggi non è stata una scelta casuale), sono stati portati nel mondo del videogioco tantissime volte e con valori produttivi di varia scala, soprattutto per motivi “di comodità”: per il mercato dei giochi a medio budget, costruire un gioco su una licenza letteraria forte permette senza dubbio di “risparmiare” sul versante creativo puntando tutto sulla realizzazione di un gioco godibile e tecnicamente interessante.
Inoltre, dobbiamo pensare che i personaggi letterari più antichi, come appunto Artù o i miti greci, non sono certo sotto “diritto d’autore”, ma fanno parte del cosiddetto dominio pubblico, il che permette ai creativi di poterli utilizzare senza spendere un soldo (a meno che non si riferiscano a opere “moderne” e sotto diritto d’autore che utilizzano gli stessi personaggi).
Già soltanto questo ci permetterebbe di farci molte domande circa il modo in cui queste storie, spesso legate a miti di più di mille anni fa, vengono prese, rielaborate, riportate alla luce dagli sviluppatori.
Ma, prima di ragionare di questo, dobbiamo partire da come il mito inizia e da come può arrivare a influenzare un’intera industria dell’intrattenimento.
La storia del personaggio Artù è la classica storia di una figura leggendaria diffusa nelle storie popolari che poi, lentamente e seguendo una sorta di evoluzione letteraria, diventa un personaggio della cultura pop.
L’origine è ovviamente antichissima: siamo tra V e VI secolo d.C., le isole dell’arcipelago britannico sono contese tra popolazioni romano celtiche (i “nativi”) e anglosassoni (che stanno invadendo l’Inghilterra), epoca nella quale i Romani ritiravano le loro truppe dall’isola principale per tornare sul continente europeo a difendere la penisola italica e gli altri domini continentali dalle popolazioni germaniche.
Il crogiolo di leggende dedicate ad Artù nasce in questo contesto e si sviluppa all’interno di varie tradizioni folkloriche britanniche e del nord della Francia, tutte costruite sull’idea che Artù e il regno di Camelot fossero una sorta di leggendario bastione difensivo della cultura inglese “nativa” (usiamo le virgolette giusto perché la situazione etnica dell’Inghilterra dell’epoca era piuttosto “variegata”) contro le incursioni straniere.
Più in là nel tempo, revisioni storiche hanno portato Artù a essere identificato con figure “storicamente più attendibili” come quelle di un condottiero romano che avrebbe continuato a portare alta la civiltà romana anche dopo la caduta dell’Impero, ma la verità è che la celebrità di Artù è legata totalmente al suo valore di “leggenda fondativa” dell’identità inglese: Artù di Camelot e tutte le sue vicissitudini (il “rapporto” con Ginevra, la lotta con Morgana e Mordred, la ricerca del Graal), sono state dipinte nei secoli anche come una sorta di “precognizione” della grandezza della corona britannica contemporanea.
Calandoci “a bomba” nel discorso videoludico, ricordate The Order: 1886 (ne parlavamo in questo articolo)?
Non è un caso che nello sfortunato videogioco di Ready at Dawn l’Ordine posto a protezione della Corona Inglese fosse una sorta di “prosecuzione” dell’originale Tavola Rotonda, i cui membri possono contare su una vita molto più lunga del normale grazie alla Linfa Nera e, al momento della loro morte, passano il loro “nome di battaglia” (Galaad, Percival, Lancelot…) a un successore.
Sarebbe a questo punto abbastanza superfluo rimarcare come la figura leggendaria di Artù sia stata “letta” in modo diverso da tantissime opere letterarie e cinematografiche all’interno delle quali il canone arturiano è stato poi ampliato a dismisura.
Citiamo solo qualche titolo di peso, tra letteratura e cinema: La Morte di Artù di Thomas Mallory (poema del XV secolo), Il Re che Fu, il Re che Sarà di T.H. White, i romanzi di Bernard Cornwell e Jack White, il film Excalibur di John Boorman, La Spada nella Roccia, persino un anime…
Artù è “il re”, il condottiero medievale per antonomasia, il mito del sovrano medievale in grado di portare giustizia e pace con la forza della spada e con la saggezza.
Uno status che ha portato a un storia “editoriale” di peso e per questo davvero ingombrante.
Il risultato, quando si parla del suo sfruttamento nella storia videoludica? Molto, molto, molto peculiare.
E dunque, cos’abbiamo in mano quando parliamo di “videogiochi arturiani”, intesi come prodotti ispirati al ciclo letterario?
La risposta è “di tutto e di più”, a livello di generi e di sistemi di gameplay: troviamo infatti giochi strategici come King Arthur: The Roleplaying Wargame (dalle meccaniche molto vicine a quelle dei Total War), per arrivare a platform come Young Merlin (1994, incentrato appunto sulle avventure del giovane mago), o al terzo capitolo della serie punta e clicca Broken Sword, The Sleeping Dragon (2003).
L’ultimo progetto arturiano in ordine di tempo è King Arthur: Knight’s Tale, trpg a turni del 2022 incentrato su una versione alternativa del ciclo in cui Artù è divenuto una sorta di crudele sovrano non-morto e Mordred, suo figlio, deve distruggerlo. E nell’elenco troviamo anche giochi ancor più nicchiosi o riconducibili a wave videoludiche ben precise, come Knights of the Tiny Table (un puzzle game basato sul tiro di dadi, estremamente minimalista) e Knights of the Round, un picchiaduro a scorrimento made in Capcom del lontano 1991.
Una bella macedonia, che conferma l’impressione che l’Artù videoludico sia per lo più un “ingrediente magico” da mettere nel calderone per creare una pozione ben dosata (tanto per usare una metafora che sarebbe piaciuta a Merlino), piuttosto che il protagonista di grandi brand. L’Artù videoludico sembra essere quel “qualcosa in più” che va aggiunto al gioco XY per dargli sapore ed “elevarlo”, più che il protagonista assoluto.
Una cosa molto diversa da quella accaduta per esempio a Sherlock Holmes e Batman (per esempio), divenuti protagonisti di brand videoludici più o meno di successo, con giochi in grado di esaltare le caratteristiche peculiari dei personaggi.
Prendendo per esempio Sherlock Holmes, tutte le avventure della Frogwares dedicate al detective di Arthur Conan Doyle sono praticamente “episodi apocrifi” della serie di romanzi, nei quali Holmes è tratteggiato nei minimi particolari seguendo tutte le “indicazioni” date dallo scrittore scozzese. Per quel che riguarda Batman, i giochi di Rocksteady (massimo apice della carriera videoludica del Pipistrello) sono pienissimi di riferimenti ai fumetti e alle graphic novel del personaggio DC, non solo al livello di caratterizzazione del gameplay, ma anche di setting. Idem per Spider-Man, e ovviamente, allargando il focus all’oceano di prodotti derivati dalla cinematografia, per 007 (spremuto come un limone in virtù della vastità di spunti che può offrire).
E pensare che Artù e i suoi cavalieri potrebbero dare tantissime di idee di concept per giochi.
Solo per fare un paio di esempi, pur avendo a disposizione un setting già ben definito (l’Inghilterra tra età romana e alto medioevo), nessuno sviluppatore ha mai trovato interessante l’idea di ripercorrere le gesta di Artù attraverso un open-world in stile Ghost of Tsushima, nel quale potremmo muoverci di villaggio in villaggio in cerca del modo per riconquistare il regno di Camelot tenuto in pugno da qualche tiranno. Sarebbe un’idea logica, dopotutto: varie versioni del mito di Artù, soprattutto pop, mettono in scena una quest in cui il giovane sovrano, dopo la morte violenta del padre Uther, deve impegnarsi per provare di essere il legittimo re dei britanni.
Passando il focus su altri personaggi, anche la cerca del Graal da parte di Galaad sarebbe un ottimo spunto per un action in terza persona in cui attraversare mezza Europa, magari con meccaniche esplorative in stile Uncharted e con un sistema di risoluzione di enigmi simile a classici come Broken Sword.
Perché giochi del genere non esistono?
La risposta è forse nella natura del mito arturiano, soprattutto se messo a confronto con quello di altri eroi “pop”.
Anzitutto, Artù un eroe pop non lo è di certo: anche se possiede una spada magica, Excalibur, e anche se in teoria ha molti elementi di caratterizzazione che potrebbero aiutare i game designer a cucirgli addosso uno stile di gioco da applicare a un action, non ha quel “grip” che per esempio potrebbe avere Robin Hood.
Prima di tutto, di Artù sappiamo già troppo poiché è stato sviscerato da almeno mille anni di produzione culturale. Inoltre, al di là di esempi come King Arthur di Guy Ritchie o Excalibur, il sovrano di Camelot è via via entrato nell’immaginario collettivo più come il saggio e anziano capo di stato pronto a guidare le sue truppe in battaglia, più che come eroe con la spada in mano.
E discorso analogo vale anche per i Cavalieri della Tavola Rotonda: al di là di qualche esperimento sempre dal sapore curioso (come la saga di Bradwen) o bizzarri punta-e-clicca come Chronicles of the Sword (stroncato già all’uscita), neanche i paladini di Camelot sono riusciti a sbarcare nel campo del videogioco come avrebbero meritato.
Cos’avrebbe potuto ancora raccontare un eroe tragico come Lancillotto, ormai elevato a mito della cultura occidentale? O Galaad, che da più di mille anni va alla ricerca del Graal ispirando ricercatori e archeologi a fare altrettanto? La verità è che, paradossalmente, nessuno di questi miti (come anche larga parte dei miti greci o romani) ha qualcosa di veramente spendibile come base per un gioco di larga diffusione.
Al tempo stesso, però, queste storie forniscono ancora oggi una perfetta base per tanti creativi del settore, desiderosi di creare nuove IP.
Se prendessimo la vicenda videoludica di Artù come paradigma del destino che mitologie così antiche sembrerebbero avere all’interno del videogioco, l’impressione è che quella di uno sfruttamento molto esiguo, spesso rivolto più a tribù di gamer “chiuse”.
Tuttavia, alcuni giochi recenti dimostrano che la situazione non è affatto questa.
Pensiamo a God of War e a tutta la sua enorme fortuna: è il perfetto esempio di come certe storie possano ancora essere traslate all’interno del medium, e questo vale sia per le sue incarnazioni classiche su PlayStation 2 e 3, sia per il “semi-reboot” del 2018. L’esempio di God of War è tuttavia molto particolare, perché in quel caso i creativi di Santa Monica e Sony hanno operato costruendo da zero e con estrema perizia un protagonista in grado di far viaggiare il giocatore nella Grecia classica e nell’epopea norrena in modo originale e potente.
Questo, con altre mitologie, semplicemente non sembra essere accaduto, o forse è accaduto in maniera meno manifesta. Nel caso di Artù, forse il suo lascito alle storie che giochiamo e abbiamo giocato nel corso degli anni è stato come spesso accade molto più sotterraneo, ma proprio per questo più importante. Anzitutto, tantissimi sono i videogiochi che hanno preso concetti archetipici dal mondo di Artù: il regno sacro e nobile ordine cavalleresco al servizio di esso, il re saggio ma che deve essere protetto, il mago potente e in grado di proteggere il regno, sono ormai archetipi ricorrenti in qualsiasi ambientazione di videogioco di stampo fantasy (e, ovviamente, di ogni epica pseudomedievale).
Ma, anche dando per scontata quest’ovvietà e concentrandoci sui videogiochi ai quali abbiamo accennato oggi, il dato che emerge è che figure come i cavalieri, Morgana, Mordred, Merlino, lo stesso Artù, potranno anche non essere diventati protagonisti di chissà quale gioco popolare, ma rimangono elementi centrali ai quali ispirarsi e attorno alle quale costruire storie su storie.
Vogliamo parlare del concept del Paladino di Dungeons & Dragons, costruito totalmente sull’archetipo dei cavalieri medievali e del rigido sistema ideologico che ne era alla base? Pensate davvero che per esempio l’impatto delle Guardie Imperiali di Oblivion sarebbe stato lo stesso senza un raffronto con i cavalieri della Tavola Rotonda?
E ancora, spaziando all’intera cultura pop, persino personaggi “orientaleggianti” come i Jedi di Star Wars (tornati alla ribalta videoludica con Fallen Order e Survivor) hanno in loro molteplici caratteristiche dei paladini di Re Artù, a cominciare dal fatto che ogni cavaliere (Luke Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Anakin) una sua identità peculiare.
Tutte storie, figure, eroi, con al centro il valore del cavaliere contrapposto al mondo corrotto, in pericolo, desideroso di redenzione.
E siamo certi che l’elenco è ancora lungo, anzi lunghissimo.
Nota: l’immagine di copertina è stata creata utilizzando come base questa stampa.
This post was published on 19 Ottobre 2023 16:30
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