All’interno di questo sito c’è un bell’articolo scritto dal buon Pasquale che chiede, cortesemente, di smettere di dare generi a caso ai videogiochi. L’articolo, che vi consiglio caldamente di leggere, parte da un assunto: nel corso degli ultimi quindici anni si è iniziato a classificare i videogiochi in maniera sempre più bizzarra dando del gioco di ruolo a qualsiasi cosa che preveda parametri e numerini visibili a schermo, senza effettivamente tenere conto della player agency che invece dovrebbe essere l’elemento di riconoscimento del genere.
Questo concetto si può applicare ad un grande numero di altri esempi ed elementi, sempre in ambito videoludico, e ci porta ad una conclusione semplice: il processo di categorizzazione è insito proprio nella natura umana perché ci aiuta a far lavorare meno il cervello.
Per cercare di evitare l’insorgere di ulteriore confusione, almeno da un punto di vista commerciale, allora perché non lavorare attraverso l’uso di tag ed etichette? Ecco che arrivano sul campo i descrittori.
C’è un descrittore, in tal senso, che più di altri nel corso degli ultimi forse dieci anni ha fatto capolino all’interno del mondo dei videogiochi incarnando un mood ed un genere.
Decine di giochi, meccaniche molto semplici ed un semplice obbiettivo: creare degli FPS diversi.
La parte plausibilmente divertente è che il nome di questa etichetta, il nome di questo descrittore, utilizza in maniera consapevole il termine boomer.
Boomer Shooter.
Secondo New Blood Interactive, il collettivo di sviluppatori che ha partorito alcuni dei titoli più interessanti di questo microgenere, la definizione si può riassumere semplicemente in a shooter that goes boom.
Una spiegazione un po’ più pratica invece vede sviluppatori creare sparatutto in prima persona ispirati ai primi dieci anni di vita del genere, lasciando da parte le grandi innovazioni ed il generale rallentamento del ritmo di gioco coinciso con la release di Doom 3 e con la saga di Call Of Duty. In entrambi i casi, infatti, parliamo di videogiochi che sul piatto mettevano un maggior quantitativo di spettacolarità nel tentativo di assorbire e declinare a loro maniera la crasi perfetta tra il realismo di Half Life e l’esplosività di Doom 2.
Il punto di riferimento generale, quindi, è la produzione di ID Software prima e la produzione di 3D Realms poi; tutto questo riferito al lasso di tempo che va dalla nascita del primo Wolfenstein 3D agli sparatutto in prima persona meno famosi usciti all’inizio degli anni duemila. I brand di riferimento, quindi, sono quelli di Doom, Quake, Duke Nukem, Blood, Unreal, Hexen ma anche videogiochi misconosciuti come Powerslave, Chasm e altro ancora. Approcciare a questi videogiochi al giorno d’oggi permette di capire quali sono i semi da cui poi è nata tutta la creatività utilizzata per produzioni odierne come quelle che troverete entro la fine dell’articolo.
Tra le altre cose quello dei boomer shooter non è un genere con un punto d’inizio ben definito. Potenzialmente è possibile iniziare a guardare alle mappe amatoriali del primo Doom, le cosidette wad, come perfetto esempio di promo boomer shooter. I riferimenti sono quelli giusti (John Romero, American McGee e Sandy Petersen), l’estetica è quella giusta, le meccaniche sono quelle ma era pur sempre un qualcosa confinato alla scena del modding.
Sicuramente la ripartenza si può collegare alla release di un singolo videogioco: Dusk, rilasciato da New Blood Interactive durante il 2018 e sviluppato da David Szymanski. Gli ingredienti sul tavolo, come sottolineato dalla tagline pubblicitaria del titolo, erano semplici: un pizzico di Doom, uno di Quake, uno di Blood, uno di Heretic, una grattata di Hexen, un po’ di Half Life e quel Redneck Rampage che basta, senza poi dimenticare tutti gli altri sparatutto anni novanta dimenticati dal tempo.
Fast Forward al 2023: il mercato dei videogiochi è più florido che mai, The Legend Of Zelda: Tears Of The Kingdom è uscito da poco e sembra essere una delle migliori cose mai accadute al mercato e magari qualcuno può avere bisogno di una valangata di violenza e crudeltà sotto forma di sparatutto in prima persona.
Ecco perché oggi andiamo a scoprire insieme una lista di interessanti boomer shooter a cui regalare i propri soldi, tra titoli debitori del passato, titoli che guardano al futuro e capolavori assoluti che plausibilmente hanno il rischio di influenzare il futuro del genere (non stiamo scherzando).
Il progenitore della specie, se così vogliamo chiamarlo, è un gioco che pesca a piene mani dallo stile grafico e dal gameplay del primo Quake per raccontare una storia fatta di fuciloni che sparano, cultisti, incubi escheriani e bizzarrie di ogni genere.
Dusk comincia in maniera abbastanza tradizionale per impazzire poi progressivamente durante il corso di di dieci ore di gioco, partendo da tranquille case infestate per finire poi chissà dove, in luoghi dove la geometria non rispetta le regole che abbiamo ben imparato a conoscere all’interno del mondo reale.
Di per sé il titolo non presenta particolari elementi di originalità, bensì riapplica all’interno di un contesto contenutistico “moderno”, con un motore di gioco che non teme rallentamenti o problemi di fluidità, le meccaniche di movimento tipiche di quegli anni e i ritmi forsennati
Correndo in diagonale, ad esempio, è possibile muoversi ad una velocità maggiore del normale, così come è possibile saltare estremamente in alto utilizzando a proprio vantaggio il rivettatore (che in questo gioco funziona come un lanciarazzi) o la balestra.
Saltando in maniera ripetuta durante lo strafing, tra le altre cose, è possibile mantenere la propria velocità muovendosi: questo ha permesso ai giocatori più esperti di muoversi a velocità incredibili all’interno delle mappe di gioco, registrando record su record e dando vita ad una frizzante scena di speedrunning che ancora oggi si difende bene.
Di rilievo notevolissimo anche la colonna sonora ad opera di Andrew Hulshult, lo stesso compositore dietro Quake Champions e Brutal Doom che verrà poi assunto da Id Software stessa per sostituire Mick Gordon per la realizzazione dei DLC di Doom Eternal. Parliamo di chitarroni ribassati, di sintetizzatori pesanti e di atmosfere plumbee. I momenti migliori vedono questi suoni mescolarsi con atmosfere psichedeliche o con abbassamenti di tono degni dei Meshuggah pre-Obzen; siamo sicuri che certi metallari apprezzeranno.
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Inizialmente gli sparatutto erano chiamati doom-clones perché nei videogiochi è così che funziona: qualcuno inventa una nuova meccanica, un nuovo modo per intendere il gameplay e tutti gli altri gli vanno dietro cercando di imitare questo o quel prodotto.
È successo con Doom (anche se prima c’erano tanto Ultima Underworld, Wolvenstein 3D e i maze game degli anni ottanta), è successo ancora prima con i roguelike (giochi di ruolo con il permadeath e generazione procedurale, ad oggi sulla cresta dell’onda con i fratellini minori roguelite) e sta succedendo tutt’ora con i soulslike. Amid Evil si fa ad un doom clone molto particolare, ovvero dello con il protagonista spellcaster.
Invece che utilizzare fucili, pistole, mitragliatori, lanciarazzi e compagnia, Amid Evil da al giocatore l’accesso ad un comparto magico vario abbastanza da generare morte e distruzioni in maniere sempre nuove. Il lanciagranate di questo gioco, per capirci, non fa altro che comprimere pianeti per poi lanciarli a tutta velocità verso il nemico. L’ispirazione, in questo caso, è abbastanza chiara: Heretic, Hexen, Hexen 2 e parzialmente anche Heretic 2: niente armi tradizionali ma soltanto magie, magie e altre magie.
La parte più ruolistica di tutti i precedenti videogiochi che iniziano per H è stata sacrifcata sull’altare del divertimento, così come vale per l’aspetto grafico. Di tutti i titoli presenti all’interno di questa lista, Amid Evil è quello con la grafica più associabile ai videogiochi moderni: modelli poligonali dettagliati, illuminazione realistica, ambientazione fantasyeggiante e tanta atmosfera di qualità.
Rispetto agli altri titoli presenti all’interno di questa lista, Amid Evil soffre un po’ del complesso del labirinto, prendendo a piene mani dal design dei suoi progenitori fantasy e proponendo mappe su mappe convolute e ingarbugliate assai. In alcuni livelli la situazione diventa un vero e proprio pasticcio difficile da leggere e ci si ritrova spesso persi all’interno di questo o quell’altro angolo, senza aver capito di preciso cosa è necessario fare per portare a casa la pagnotta.
Se ritorniamo al discorso dei generi e delle etichette c’è un nuovo termine che possiamo tirare fuori per l’occasione ovvero eurojank. Questo termine solitamente si utilizza per identificare tutta quella serie di produzioni videoludiche di carattere est europeo o mitteleuropeo che hanno popolato il mercato dei videogiochi per computer durante gli anni duemila. I videogiochi Piranha Bytes, i videogiochi provenienti dalla Polonia prima dell’esplosione della stessa con CD Projekt Red, i videogiochi Ucraini e Russi: tutto questo poteva essere definito eurojank.
Bisognerebbe scrivere un articolo ad hoc sul termine e su come esso portì con sé tutta una serie di considerazioni estetiche da fare. Parliamo di videogiochi solitamente poco puliti dal punto di vista dell’esperienza di gioco, con bug e glitch che infestano il codice, ma che solitamente sono caratterizzati da meccaniche profonde, storyline interessanti e ambientazioni realizzate con cura e attenzione. C’è una sotto-etichetta che si trova molto meno in giro chiamata slavjunk ma che cerca di inquadrare tutti quei titoli con tematiche e ambientazioni molto vicine al mondo sovietico: dal primo incredibile Pathologic alla saga di S.T.A.L.K.E.R, passando poi per Cryostasis e tantissimi altri videogiochi dimenticati dal tempo.
HROT si piazza esattamente all’interno di questo contesto, portando l’immaginario slavjunk all’interno dei boomer shooter. L’ambientazione è la Cecoslovacchia post apocalittica in un ucronia che vede la nazione passare un bruttissimo periodo dopo un non specificato disastro ambientale (e non) avvenuto durante il corso del 1986.
Parliamo quindi di un ambientazione dove la speranza è completamente accessoria, dove l’atmosfera che si respira è oppressiva e tossica, dove i casermoni dell’architettura popolare sovietica vengono controbilanciati dalla bizzarria del mondo, tra cavalli con maschere antigas e piccoli tocchi di classe come i diorama con i modelli ferroviari o le rotative di qualche fabbrica per la produzione di munizioni.
HROT meccanicamente non ha niente di nuovo o particolarmente interessante, bensì è un videogioco che sfrutta in maniera sapiente l’atmosfera slavjunk e la riporta sugli schermi moderni con tutti i crismi estetici degli anni novanta. Il merito lo si deve anche al motore grafico custom, realizzato dallo sviluppatore Spytihnev in pascal con texture non filtrate ed il famoso polygon jitter.
Ion Fury è un gioco molto interessante di cui abbiamo parlato in una recensione dedicata che, al giorno d’oggi, è rappresentativo dello stato di salute del genere dei boomer shooter. Punto primo: parliamo di un videogioco interamente realizzato con il build engine, ovvero il motore grafico utilizzato da 3D Realms per videogiochi come Duke Nukem 3D, Shadow Warrior e Blood, ovvero sparatutto in prima persona usciti negli anni novanta con un cult following come direbbero gli anglofoni.
Il titolo, edito da 3D Realms stessa e sviluppato da Voidpoint, mette le basi per una nuova IP con ambientazione cyberpunk permettendo al giocatore di vestire i panni di Shelly Harrison, un artificiere della forza di difesa globale. In mezzo c’è il solito culto che vuole distruggere il mondo, con stavolta uno scienziato transumanista a fare da cattivona e Washington DC a fare da ambientazione.
Oltre a essere un perfetto esempio della forza della build engine, che anche nel 2023 riesce a mostrare a schermo un grandissimo numero di elementi all’interno di un contesto estetico stupendamente caratterizzato.
Tra le altre cose Ion Fury può vantare anche delle mappe aperte particolarmente interessanti, piene di segreti e che ricompensano il giocatore che vuole esplorare con nuovi approcci ai nemici, oggetti, easter egg. L’aspetto esplorativo, tra le altre cose, ha un livello di varietà tale da instillare alcuni approcci più simili a quanto solitamente si vede negli immersive sim (l’ennesimo microgenere / tag descrittore).
A volte il troppo stroppia e in alcune mappe l’eccessiva distanza da percorrere tra un punto A ed un punto B rende confusionario il senso di progressione; non tutte le mappe hanno la stessa qualità, di conseguenza, ma questo è un problema su cui si può tranquillamente passare sopra. Molto interessante anche l’approccio alle armi del titolo, con modalità di fuoco secondario, meccaniche esclusive per determinati tipi di esplosivi e armi e altro ancora.
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L’ultimo titolo di cui parliamo oggi è quello che senza dubbio ha più potenziale anche nel futuro. ULTRAKILL, sempre di New Blood, è un videogioco a dir poco incredibile, anche ancora deve concludersi (il titolo è parzialmente completo, con 2 atti su 3 giocabili e solo i primi sei livelli del titolo realizzati secondo gli standard di qualità desiderati dagli sviluppatori). Parliamo di uno sparatutto in prima persona dalla grafica low poly, che si rifà allo stile visivo un po’ blocky di Quake.
Le ispirazioni per il passato, però, finiscono qui: l’estetica, in primis, è estremamente più colorata e viaggia moltissimo su un binario tutto suo, declinando ambientazioni di carattere egizio o medievale ad un mondo folle, dove robot killer e divinità carnose si sfidano a colpi di pistole. La parte forte, al netto di tutto questo, è un gameplay a dir poco incredibile che mette sul piatto una pletora di meccaniche diverse da altri generi per fonderle all’interno di un unico pacchetto, con tanto di valutazione in tempo reale delle proprie mosse manco fossimo in Devil May Cry.
Al giocatore vengono date contemporaneamente massima libertà di movimento (doppi salti, scatti aerei, schiacciate) e massima libertà di azione, con fast swapping delle armi, parry dei proiettili e un arsenale personalizzabile. Questo significa che ogni scontro a fuoco, finemente cesellato dal punto di vista del level e dell’encounter design, è una gioia per il cuore e per il cervello.
A questo, inoltre, è necessario aggiungere in generale un’animo molto arcade che oltre a premiare il punteggio ottenuto dal giocatore, lo ricompensa attraverso livelli segreti e altre gioie per il cuore. I livelli hanno passaggi nascosti, percorsi secondari, sorprese dietro ad ogni angolo. Con la sua fusione di stile, la sua varietà di approcci agli scontri e le sue bossfight incredibili ULTRAKILL ha tutte le carte in tavola per essere uno dei migliori sparatutto di sempre quando uscirà, che già nella sua versione embrionale ha superato ampiamente produzioni molto più blasonate e semplicemente costose.
Decisamente da non lasciarselo scappare.
This post was published on 24 Maggio 2023 18:00
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