Resident Evil 4 Remake (qui la nostra recensione) sta facendo scoppiare di gioia i cuori dei fan della serie, vuoi per il gameplay in stato di grazia, vuoi per la sapiente opera di modernizzazione, vuoi perché si tratta del ritorno in scena di uno dei videogiochi più amati nella storia dei third-person-shooter e non solo.
Appassionante, ricco di chicche, vario, (ri)scritto con una cura in grado di coniugare gusto “moderno” e omaggio al kitsch tipico della serie Capcom, il gioco è arrivato nei negozi il 24 marzo e si è conquistato automaticamente un biglietto di sola andata per l’Olimpo dei migliori remake degli ultimi anni.
Oggi per ve lo raccontiamo in modo un po’ diverso, anzi vi raccontiamo Resident Evil 4 nella sua interezza (ovvero partendo dall’originale del 2004) tentando di indagare sul suo setting, la sua lore e il suo tone of voice, con riferimento a tutto quell’immaginario horror al quale si è ispirato.
E attenzione: non è una storia di banale ispirazione, bensì un’operazione fatta di omaggi e rielaborazione tanto interessante quanto incredibilmente folle.
Partiamo col dire che quella di Resident Evil non è certo una saga lontana dall’omaggio al cinema horror, scifi e via discorrendo, come abbiamo ricordato tante volte su Player.it: oltre a essere un tributo centrale a tutta l’opera di George A. Romero (che addirittura avrebbe dovuto dirigerne il film), di episodio in episodio Resident Evil ha di fatto decostruito e reimmaginato buona parte del bagaglio filmico occidentale.
Resident Evil 1 non era altro che una variazione sul tema della casa infestata, il 2 e il 3 omaggiavano Carpenter, ancora Romero e in qualche modo classici sci-fi come Alien o Terminator mettendo a confronto eroine pronte a tutto con mostri su due piedi come Tyrant e Nemesis. Ancora, Resident Evil 7 rielabora Non Aprite Quella Porta, mentre Village è un gigantesco luna park all’interno tanti elementi del genere (come ci ricordava qualche anno fa Michele Longobardi con questo bell’articolo).
In questa dinamica, Resident Evil 4 è forse il titolo che ha portato a risultati diversi, specie se teniamo in considerazione del fatto che si trattò del primo gioco della serie ad allontanarsi dal formato ludonarrativo dei primi episodi -incentrati e concentrati in un’unica location spesso claustrofobica- per mettere in scena un’avventura molto più sfaccettata e ricca di situazioni, ambienti e personaggi.
Quello che RE4 mette in scena non è altro che la spassosa scampagnata del caro vecchio Leon S. Kennedy alla ricerca di Ashley Graham in un vero e proprio villaggio di bifolchi irretiti da cose davvero terribili. Un’impresa in grado di farlo incappare in “temi” molto ricorrenti all’interno dell’horror e del weird: c’è il villaggio preda di un culto dannato (visto poi anche in Village), una pseudo religione autoctona che ha prodotto eventi terrificanti (praticamente l’architrave di tutto il folk-horror contemporaneo), e ancora il castello tenebroso.
Se i giochi precedenti sembravano volerci calare in paesaggi urbani post-apocalittici come la stazione di polizia di Racoon City, RE 4 aveva tutta la sua forza nell’evocare canovacci da golden age del cinema horror. Pensiamo alla sequenza nel cimitero del villaggio, a inizio avventura sia nell’originale che nel remake: è praticamente la perfetta digitalizzazione del classico luogo da incubo che potremmo trovare in un film gotico di serie Z, riconvertito per funzionare da setting di un action. O ancora, pensiamo alla sequenza nel castello, trionfo di kitsch e di “draculate” (termine mio, perdonate la fantasia) degne del miglior episodio di Castlevania.
Tocchi di “nero” che nel lontano 2004 funzionavano bene anche in termini di inquietudine, soprattutto per i suoi desolati boschi autunnali, e che ancora meglio funzionano nel remake grazie all’inserimento di tocchi ancora più dark come i feticci lasciati dal culto degli Iluminados in giro per il villaggio, i tocchi gore piazzati qua e là o ancora un sistema di illuminazione che rende le sequenze al chiuso più tenebrose.
Il tema di fondo è, come accennato, quello del folk horror, con una piccola comunità di fanatici in grado di compiere le efferatezze più indicibili. I più addentro al genere potrebbero addirittura trovarci rimandi a certe atmosfere dell’horror spagnolo, con una strana e strisciante “religiosità fanatica e assillante” che permea tutta l’avventura.
Insomma, già a una prima occhiata da appassionati sia Resident Evil 4 che il suo remake sembrano un bell’omaggione vivente a tre quarti della cinematografia mondiale, e tanto basterebbe per cantare le sue lodi in termini di “horror culture”.
Ma non è tutto gente: c’è ancora un motivo che può portare un certo tipo di fan a cacciare fuori un gigantesco “ooooooooooh”.
Ora voglio che osserviate, e lo facciate davvero bene.
Voglio che guardiate questa pic e che traete le vostre conclusioni SENZA guardare oltre, okay? Pronti? Voilà!
Cos’è? Come dite? Un cosplayer del Mercante di RE4 al Comicon di quest’anno?
Nah!
Un fan-film low budget quasi dello stesso periodo?
NoEHM quasi.
E’ lo screen di un film, sì, e un film passato anche in circuiti cinematografici di tutto rispetto e a suo modo degno di un posticino (per quanto ino-ino) nella storia dell’horror contemporaneo: Dagon: la mutazione del Terrore di Stuart Gordon, uscito nel lontanissimo 2001 (e quindi circa un paio d’anni prima di Resident Evil 4).
Il film, come i più lovecraftiani sapranno o hanno già intuito, è uno degli omaggi più coraggiosi e al contempo più meh al Solitario di Providence che il cinema horror abbia potuto realizzare. Parliamo quindi di una pazza somma dei racconti “Dagon” e “La Maschera di Innsmouth” riletta con gusto moderno che, guarda un po’, riambienta il canone lovecraftiano in una remota isoletta della Spagna settentrionale popolata da una simpatica setta di fanatici dei Grandi Antichi.
Una setta che, come gli abitanti di Innsmouth, è stata resa feconda dal Pantheon del buon HPL e per questo lo venerano con molteplici sacrifici umani (o almeno, così è stato prima che cadessero in disgrazia a causa di vari fattori).
Ora, cos’ha Resident Evil 4 di questo film, a parte l’assurdo pescatore mutuato nel caro e vecchio Dagon e tramutato nel Mercante?
Tanto, anzi tantissimo.
C’è per esempio un’intera location di gioco -ovvero il villaggio sull’isola, verso la fine- che è a tratti molto simile a Imboca (il nome del paesino del film spagnolo… qualcuno ha detto ancora una volta Innsmouth?), che sembra tratta in modo quasi pedissequo dal film, al di là delle strutture post-industriali dell’impianto di creazione dei mutanti.
Ma c’è anche il tema narrativo di fondo, ovvero quello della ricerca di una donna scomparsa, nel gioco Ashley, nel film Barbara, nonché quello già accennato della città maledetta a causa di un male antico che ha corrotto un’intera comunità.
Vale la pena, a questo proposito, ricordare il mirabile lavoro di “costruzione” del culto e della sua storia in RE 4 Remake, in cui foto d’epoca, diari, libri di filastrocche o di culto sparsi nel gioco ci restituiscono un quadro frammentato ma appassionante della storia della cittadina, delle sue vicende interne e delle sue figure principali.
I suoi punti in comune con quella di Innsmouth/Imboca sono molti: in entrambi i casi si tratta della vicenda di una comunità isolata che dopo un periodo di difficoltà si ritrova a fare un patto blasfemo con forze o culti che la salvano al costo della sua anima. Gli abitanti di Innsmouth, convinti dal capitano Marsh (Cambarro in Dagon: La Mutazione del Terrore), abbracciano il culto degli Abitatori del Profondo e diventano immondi meticci destinati a portare il male dal mare alla terra. Gli abitanti del remoto villaggio di Valdelobos, convinti dalla famiglia Salazar (plagiata a sua volta dal malvagio Saddler), si fanno corrompere dal culto delle Plagas e ne diventano schiavi.
Da qualcosa di “positivo” (un beneficio) si passa a qualcosa di estremamente “negativo” e distruttivo.
È qui che troviamo il tema fondamentale del nostro discorso, che potrebbe partire da una domanda assurda: ma allora Resident Evil 4 è il più stratificato e complesso omaggio videoludico a Lovecraft mai fatto?
A suo modo, il capolavoro Capcom conferma per l’ennesima volta una grande verità della narrativa di ogni tempo: nessuna storia nasce dal nulla, e alcune storie ritornano in modi che non possiamo prevedere (ne parlavamo in qualche modo anche in quest’articolo sull’archetipo delle navi fantasma).
In questo caso, la storia che abbiamo davanti è come detto La maschera di Innsmouth, uno dei romanzi horror weird più lunghi e “profondi” della carriera di Howard Philips Lovecraft, che diventa un survival horror solo in apparenza differente dall’originale per contenuti e poetica. Certo questo avviene attraverso un tramite, il film Dagon, ma questo non fa che rafforzare ancora di più la teoria: “viaggiando” nella comoda stiva del film di Stuart Gordon, rimasticati ma con “stile” (per quanto il film sia lungi dall’essere perfetto), in Resident Evil 4 arrivano tantissimi topoi de La Maschera di Innsmouth, da quelli che abbiamo già visto (setting e tema) ad altri meno in vista come la dinamica “straniero che si ritrova di fronte a una realtà ostile”.
Proprio per questo, l’operazione RE4 fa riflettere su come spesso gli archetipi scavino in maniera sotterranea mutando il loro DNA, ma rimanendo spesso abbastanza attinenti alla sua “struttura”.
Si tratta di rielaborazione, certo, ma di una rielaborazione che si avvicina molto all’idea di trasposizione non detta, poiché sviluppa più o meno gli stessi temi narrativi con una libertà maggiore nelle modalità.
La storia della letteratura, ma soprattutto del cinema e più tardi del videogioco è piena di operazioni di questo tipo, più o meno famose e più o meno riuscite.
In materia cinematografica, non tutti sanno per esempio che I Guerrieri della Notte di Walter Hill (1979) nasceva come sorta di rielaborazione/trasposizione dell’Anabasi di Senofonte (qui per approfondire), adattando l’epica dei greci in fuga nel territorio persiano vero il mare nella New York di fine anni ‘70 e facendo dei due eserciti bande di quartiere rivali: più o meno stesso tema, diverso modo di raccontare quella storia.
In campo videoludico, un esempio piuttosto particolare di questo retelling è Spec Ops: The Line, che nel 2012 ha trasposto Cuore di Tenebra/Apocalypse Now in un crudo videogioco di guerra con molte allegorie psicologiche per riflettere sugli effetti della violenza. Anche in quel caso avevamo un tema in comune (in RE4 l’horror, lì la guerra) declinato però in un altro modo e con un setting completamente diverso, ma con più o meno il medesimo schema narrativo.
Viene da chiedersi se questo tipo di miracoli narrativi siano parte di un preciso piano di omaggio di questo o quel team di programmazione, o se invece la spinta in casi come questi venga dopo l’intuizione che in effetti una determinata storia possa essere piegata e rivista da altri punti di vista.
In fondo, però, la verità sta in mezzo: fu in effetti l’oggettiva grandezza de La Maschera di Innsmouth e di Lovecraft a portare Gordon a rifarlo in salsa pop, e a portare volontariamente o no il team di RE4 a portare nella saga così tanti elementi “d’ispirazione lovecraftiana”.
Che fosse voluto o meno, poco importa: il risultato, in ogni caso, è stato maestoso.
This post was published on 6 Maggio 2023 17:30
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