Dite subito la verità: almeno uno di voi ha giocato perso ore del proprio prezioso tempo esplorando le vallate di Hogwarts in cerca di segreti, creature magiche, bracconieri, goblin e maghi oscuri in quel pozzo senza fondo che si chiama Hogwarts Legacy, uscito qualche mese fa su current-gen (qui la nostra recensione, curata dal sottoscritto).
E, parliamoci chiaro, nella vostra incursione nel Mondo Magico molto deve avervi attratto il fatto di potervi finalmente cimentare in prima persona con la magia letta e vista in Harry Potter, quel complesso e divertente set di incantesimi dai nomi bizzarri che fin da bambini vi ha affascinati e sul quale non vedevate l’ora di mettere le mani.
Ciò è valso anche per me, che tutt’ora scorrazzo fra le lande attorno Hogsmeade sparando a destra e manca e divertendomi a spostare oggetti con la forza della magia. Anzi: più ho giocato e più ho visto domande crescere in me; domande sul “come” Hogwarts Legacy sia diventato, a oggi, uno dei migliori “simulatori di mago” nel gioco digitale.
Domanda dopo domanda, quindi, è poi sorta un’idea ed una storia da raccontare: quella della magia tra narrativa fantastica, gioco e videogioco.
Prima di addentrarci, permettetemi di consigliare un libro, che insieme alle mie run di Hogwarts Legacy e a infinite sessioni di gioco di ruolo mi ha fatto venir voglia di scrivere quest’articolo.
Si tratta di Incanto: Storie di Draghi, Stregoni e Scienziati di Michele Bellone (Codice Edizioni 2019), un agile saggio di circa 250 pagine che si pone il curioso obiettivo di trattare una serie di elementi appartenenti agli universi del fantastico (dalla magia agli zombie, per arrivare all’alchimia) tracciandone una curiosa storia che va a ricercarne e raccontarne i fondamenti “reali”.
Si tratta di un libro dal quale ho preso spunto per alcune riflessioni “tra le righe”, ma partendo da aneddoti e suggestioni esposti nel libro e molto interessanti.
Fateci un pensiero: se siete appassionati di questi temi è davvero un must-have.
Quella di Harry Potter è senza dubbio la miglior ambientazione nella quale far calare un giocatore in cerca dell’ebrezza di poter impersonare un potente mago, capace di sviluppare poteri legati alla manipolazione della realtà.
Per quanto la saga del “maghetto” non sia un fantasy estremamente impegnato, il fatto che si dipani lungo ben sette anni di vita e che sia ambientato all’interno di un’accademia magica ha permesso a J.K Rowling e poi a tutti i creativi che hanno preso in mano la sua opera di sviscerare le arti magiche di Harry & co. in maniera abbastanza profonda, restituendo al lettore/spettatore/videogiocatore un bell’arsenale di incantesimi, escamotage magici e segreti arcani.
Prima ancora di essere maghi, Harry, Ron, Hermione e compagnia cantante sono anzitutto degli studiosi di magia, in grado di funzionare da punto di vista privilegiato per chi, fruendo delle loro storie, ha voglia di scoprire un sistema magico fatto e finito; quest’ultimo pur non essendo sempre al massimo della coerenza rimane complessivamente piuttosto convincente.
Questo approccio alla magia è riportato in Hogwarts Legacy anzitutto attraverso un gameplay che come ovvio è totalmente basato sull’uso di una serie di magie, necessario per risolvere la maggior parte delle situazioni del gioco.
Dobbiamo combattere? Spariamo un dardo incantato (non ho scelto questo termine a caso); dobbiamo esplorare un luogo rivelandone i segreti? Lanciamo Revelio e vediamo cosa nasconde. Dobbiamo spostarci? Ci sono ovviamente a nostra disposizione la nostra scopa magica o un simpatico Ippogrifo.
A differenza di altri rpg fantasy, dunque, Hogwarts Legacy è un gioco in cui tutta la nostra interazione col mondo esterno è mediata dalla magia e, per certi versi, diventa un modo per manipolare la realtà (vedi l’utilizzo dell’incantesimo Reparo, che ci permette di ricostruire addirittura ponti o passerelle distrutti), per quanto ciò accada solo in determinate occasioni pianificate dai designer.
Da questo punto di vista, la scommessa di Avalanche di immergerci nelle atmosfere di un mondo basato totalmente sulla magia arcana e su diverse sue declinazioni è vinta al 100%, anche solo grazie a un’ambientazione davvero fascinosa. E secondo chi scrive si tratta di un risultato solo in apparenza da poco, perché come vedremo più avanti i sistemi di gioco basati sulla magia sono complessi e molto strutturati, e l’atto immediato del “lancio incantesimo-vediamo che succede” è solo il risultato finale di una riflessione in merito a come funziona la magia in un determinato mondo.
Le domande che forse si pongono allora è se questa possa dirsi davvero la versione definitiva del “mago giocato”, m soprattutto se esistano e quali siano le “origini ludiche” di questo archetipo.
Prima di procedere a tutte le domande/i ragionamenti accennati sopra, tuttavia, è bene porsene un’altra, centrale: perché costruire un gioco su un mago sembra così problematico?
Il motivo sta nel fatto che è necessario definire con attenzione il modo in cui questo tipo di PG utilizza le fonti arcane per manipolare la realtà? Anche, ma questa semmai è una conseguenza di un fatto ancora più centrale! Tanto nel folklore quanto nella mitologia, passando poi anche per la letteratura, il mago è la figura sovraumana per eccellenza, più di quanto non lo sia già il cavaliere senza macchia o più del guerriero stesso.
La capacità di manipolazione della realtà del mago è un elemento straordinario, talmente grande da farlo diventare spesso e volentieri, una pedina centrale all’interno dei rapporti di potere.
Pensate a Merlino stesso, che diventa il fidato consigliere di un re, o a Gandalf il Bianco, che ha addirittura origini semidivine e col suo “farsi uomo” diventa uno dei “kingmaker” nella lotta del bene contro il male nella Terra di Mezzo: il mago è protagonista assoluto del suo mondo, quasi il suo demiurgo.
Va da sé, quindi, che nel momento in cui un game designer è chiamato a inventare delle regole per giocarlo, la sfida diventi quella di creare un “meccanismo” in grado di porre dei limiti credibili al suo strapotere, avvicinandolo alla dimensione “umana”.
Il secondo problema, che è estremamente legato alla dimensione ludica (oltre che legato mani-e-piedi al primo elemento), è appunto quello di dare al giocatore un mago “coerente con sé stesso”, il cui sistema di incantesimi risulti sì potente, ma soprattutto utile alla definizione del personaggio e al tempo stesso alla risoluzione dell’avventura.
Per chiarirci, e tornare a Hogwarts Legacy, il suo obiettivo finale è senza daubbio quello di portarci a diventare un grande mago, in grado di fare cose straordinarie, ma questo passaggio deve essere estremamente graduale e andare di pari passo con l’avanzamento nell’avventura.
Per quanto questa sia la base di qualsiasi “game system” (nel senso di quella serie di elementi che governano il gameplay), nel caso di un personaggio magico la prudenza è estremamente necessaria, pena il ritrovarsi fra le mani un PG davvero fuori misura.
Chiarito questo, vediamo come queste problematiche sono state affrontate nel corso della storia del gioco, partendo dai cari e vecchi pen-&-paper.
Partiamo da un dato di fatto: la storia del gioco di ruolo e, quasi per estensione, del librogame contemporaneo è legato a doppio filo con il fantasy, inteso propriamente come genere che fa della presenza di magia un elemento fondamentale.
Il motivo è stato accennato prima: si tratta di un’ambientazione (o meglio, “ambiente narrativo”, dato lo sterminato insieme di sottogeneri che il fantasy ha generato) che fa del “mago” e della sua abilità di modificare il reale una sua caratteristica principale.
Per questo motivo, potremmo partire dal re assoluto del gioco da tavolo di ruolo: ovviamente Dungeons & Dragons e la sua nota classe, introdotta già nelle primissime edizioni di D&D. In questa fase il mago è una sorta di “lanciarazzi magico” in grado di farsi valere in combattimento solo andando avanti con i livelli.
L’intuizione di creare “scuole di magia” per questo archetipo di gioco si ha infatti con la seconda edizione di Advanced Dungeons & Dragons (1989), quando tutte le capacità magiche vengono racchiuse in “sottoclassi”: alterazione, illusione, incanto, divinazione, evocazione, invocazione, necromanzia, abiurazione.
Andando a ritroso a guardare la cronologia e la storia del gioco, però, notiamo che questa intuizione (che, vedremo fra un po’, è abbastanza importante) sembra essere stata introdotta per prima da un mezzo di gioco contemporaneo del gioco di ruolo e suo coevo, ovvero il librogame. Questa, per di più, la si deve ad una delle serie più importanti del medium: Oberon: Il Giovane Mago di Ian Page, uscita a partire dal 1984.
In Oberon troviamo otto classi di incantesimi caratterizzate dall’uso di nomi piuttosto “arcaici”: sortilegio, incantesimo, controllo sulla materia, alchimia, profezia, psicomanzia, evocazione e anche una classe di magie legate all’… asta magica (non fate battute), il potente artefatto arcano del nostro eroe. Insomma, giocando il mago Oberon giocavamo un mago con un intero set di incantesimi in grado di plasmare la realtà, ma soprattutto di farlo avendo dalla nostra una certa versatilità.
Le magie, una volta arrivate alla seconda edizione di D&D, si sofisticano ancor di più, ma ciò non scalfisce in alcun modo l’importanza che ha avuto Oberon all’interno di questo ambito.
Perché mettiamo l’accento sulla creazione delle scuole di magia? Una domanda dalla risposta banale: questa è, di fatto, una scelta che ha portato poi alla nascita di due diverse intuizioni, diventate successivamente archetipiche per l’utilizzo delle magie all’interno del mezzo ludico e poi, per influsso, all’interno della letteratura fantastica.
La prima intuizione è semplice: in un mondo verosimile i maghi probabilmente studierebbero specifiche pratiche magiche, andando progressivamente a specializzarsi sulle singole scuole. La seconda intuizione, invece, è che attraverso una variazione degli archetipi in cui si dividono le modificazioni della realtà è possibile espandere le proprie opportunità sia narrative che di gioco in maniera enorme, creando ancora più occasioni per il divertimento.
La cosa che sorprende di questo fatto è come su questa tendenza costante alla specializzazione, all’evoluzione, alla costruzione di un’identità “magica” si basi anche una delle ragion d’essere del gioco di ruolo in sé, ovvero la progressione del personaggio. Un concetto che, non serve dirlo, nel corso della storia del game design contemporaneo ha assunto un ruolo essenziale.
Anche e soprattutto nel videogioco, dove progressione e specializzazione sono concetti che ben si adattano al game design e che in generale si utilizzano, queste intuizioni hanno trovato terreno fertile.
L’introduzione delle stesse è avvenuta con tutta una serie di prodotti ampiamente ispirati al mondo del gdr pen&paper, partendo da Eye of the beholder fino ad arrivare ai più recenti Baldur’s Gate o Neverwinter Nights.
La lista dei figli di questa filosofia, dentro e fuori dal fantastico, è praticamente sterminata, e tocca alcuni dei giochi più adorati di del videogioco contemporaneo, tanto che elencarli sarebbe un esercizio noioso (almeno in un semplice contesto di cronistoria).
Fatto sta che c’è un fil rouge che lega tutte queste esperienze ludiche e videoludiche, e che ha partorito il modo contemporaneo in cui intendiamo il gdr e l’action rpg, sia su carta che digitale. E si tratta di una questione di DNA.
Oggi, per esempio, non potremmo mai concepire un mago che lancia soltanto un insignificante dardo incantato; i nostri maghi digitali devono avere la possibilità di agire sulla realtà e manipolarla nel modo più efficace possibile, attraverso un vero e proprio arsenale in grado di abbattere i nemici come di giocare a riparare cose (vedi anche solo un gioco “normie” come Hogwarts Legacy).
Se parlare dell’idea di “mago” all’interno di un sistema di gioco complesso ci dà una buona idea di ciò che stiamo descrivendo, farlo senza provare ad analizzare la fonte del potere arcano usata dall’incantatore il discorso potrebbe apparire come monco.
In molti videogiochi basati sul’utilizzo delle magie, la fonte energetica di queste ultime non è quasi mai connaturata alla forza del protagonista, quanto più legata ad una risorsa quasi naturale.
Quando parliamo di elementi, ad esempio, citiamo in esame classificazioni del reale (ad esempio acqua, aria, fuoco, terra, che in certi universi fantasy sono alla base di vere e proprie scuole di magia) le cui combinazioni muovono e governano il mondo. Il mago, di fatto, ottiene le risorse necessarie alla creazione della magia attraverso un dialogo con la realtà.
Qual è il problema in tutto questo?
Semplice: l’utilizzo di queste fonti di energia dà vita a una sorta di contrappasso, perché più il mago usa un elemento della realtà per fare magia, questa può diminuire, consumarsi, estinguersi, un concetto che forse sta a riflettere la presa di coscienza che le risorse naturali non sono rinnovabili ed eterne.
Come nel caso della specializzazione e ramificazione, anche questo concetto è comune a tantissimi videogiochi a tema fantasy-ruolistico, come i The Elder Scrolls (solo per fare un esempio gigantesco), spesso caratterizzato dalla presenza di possibilità di ristorare le energie perse con pozioni o venerando santuari sparsi per la mappa di gioco. E, anche nel caso dell’uso delle risorse, si tratta di un elemento quasi fondativo del tema, così tanto da aver influenzato anche altre caratteristiche della “scheda del personaggio”, come la forza o l’agilità. In tutti questi casi, lo sforzo del giocatore durante una partita non è solo di dover schivare colpi o trovare la strada giusta per superare un’area di gioco, ma anche dover gestire al meglio le proprie risorse in modo da massimizzare i risultati.
Un vero e proprio livello di gioco “gestionale”, che se ci pensiamo ha il suo fondamento, ancora una volta, nel gioco analogico.
In questo caso, tuttavia, il nostro paradigma non deve essere tanto un gioco di ruolo, ma forse il caro e vecchio Magic: L’Adunanza, in cui i giocatori impersonano potenti maghi impegnati a battersi in duelli all’ultimo incantesimo. In questa dinamica, la possibilità di lanciare un incantesimo (o giocare una carta, che dir si voglia) è legata a doppio filo alla gestione delle proprie terre, risorse elementali che servono ad “alimentare” gli incantesimi. Non abbiamo le terre necessarie per lanciare quella magia? Possiamo scordarci il suo lancio: dovremo pescare nuove terre e trovare le giuste combinazioni di risorse per rendere ciò possibile.
Insomma, per un vero mago gestire il suo potere non è una passeggiata; richiede studio, abnegazione, gestione oculata delle proprie forze e risorse, capacità di dosarle con costanza. Non è un caso che, in molti giochi (incluso D&D), il ruolo del mago sia in effetti tanto soddisfacente come esiti quanto profondamente impegnativo.
Se è vero che tracciare una “storia della magia videoludica” è un compito arduo, esistono tuttavia alcuni esempi di giochi che hanno sviluppato al meglio e con più dovizia di particolari molti dei concetti che abbiamo sviscerato fino a qui (e con maggiore complessità di quanto fatto da Hogwarts Legacy).
Esempi che chi scrive ha scelto non solo perché inseriscono in maniera elementi magici nel loro gameplay, ma soprattutto perché lo fanno con una logica che riesce restituire tutta la complessità dell’utilizzo della magia, nonché il suo significato “culturale”.
Il primo esempio che ci sentiamo di fare è Arx Fatalis (2002), primissimo gioco di Arkane Studios che ci metteva nei panni di un misterioso guerriero magico alle prese con l’oscura minaccia di un dio della distruzione che grava sul suo mondo, Arx appunto. Nel farlo dovevamo ovviamente lanciare attacchi magici, ma non era una passeggiata: la procedura di lancio di ogni incantesimo è infatti legata a una runa, la cui forma deve essere tracciata con il mouse.
Nel gioco di Arkane non dovevamo quindi soltanto imparare nuovi incantesimi, né comprendere quando è adeguato utilizzarne uno piuttosto che l’altro, ma ancor di più quale figura arcana riprodurre su schermo per farlo. Questo è forse uno dei modi migliori per rendere la magia su schermo, poiché intimamente legato a uno dei suoi concetti, ovvero il suo legame con il simbolo.
Senza scendere troppo nei particolari (fidatevi, ci vorrebbe davvero tanto e il rischio di scrivere inesattezze è davvero troppo), un principio fondamentale del “pensiero dietro la magia” è che ogni elemento magico può essere simbolizzato, e reso in modo “astratto”.
Un altro esempio videoludico in cui le regole della magia sono state applicate in maniera originale e particolarmente compiuto è la serie Magicka, che con la sua ramificazione di incantesimi, basata sulla combinazione di elementi magici, presenta uno dei sistemi di magia più approfonditi di sempre.
In questo caso, l’abilità magica del giocatore si basa sulla sua capacità di mixare in maniera congrua gli elementi naturali attraverso delle combo di tasti, dando vita a effetti sempre più ricchi, profondi e complessi che hanno effetti tutti diversi e molto profondi sulla realtà.
Se ci pensiamo, il principio è più o meno lo stesso di quello di Arx Fatalis, ma con maggior profondità da un punto di vista gestionale.
Esempio finale è infine quello di Ultima Underworld, in cui a farla da padrone è la magia runica, attraverso la combinazione di tavolette con sopra impresse le famose lettere dell’alfabeto nordico.
In tutti e tre i casi, a farla da padrone nel gameplay non è tanto il lancio dell’incantesimo in sé, quanto il fatto che per farlo il giocatore è costretto a studiare le armi che ha a disposizione e a gestire con accortezza le risorse, dando alla magia non il ruolo di “superpotere”, quanto di arte da utilizzare con molta accortezza.
Questo è un concetto che scava molto in profondità all’interno del pensiero contemporaneo (non solo ludico), perché implicitamente va a comunicare l’idea che anche il più grande dei poteri rappresenta comunque una grande responsabilità (ogni riferimento alla Marvel è purtroppo necessario per spiegare il ragionamento).
Laddove l’action classico è un genere che fa dell’abilità fisica (e dunque dei riflessi) la chiave di volta del gioco, quando a entrare in scena è la magia la sfida più grande diventa la nostra capacità di fare i conti con la nostra straordinarietà.
Qual è il lascito di tutto ciò nel videogioco, o meglio sulle strutture portanti del gaming moderno?
Abbiamo già detto che la progressione (in particolare quella del mago) ha dato il la a una sorta di piccola rivoluzione nel modo di concepire un certo tipo di videogioco, di fatto facendo nascere persino un genere come l’rpg digitale (e la sua derivazione in tempo reale nota come action rpg). Ma parlando di maghi, magia e nello specifico videogiochi c’è tutto un altro livello di ragionamento da esplorare, più profondo e interessante.
Partiamo da una domanda: c’è un medium più adatto a mettere in scena il “magico” del videogioco, in grado di fare dell’interattività e del processo di azione-reazione con un ambiente la parte fondamentale di un’esperienza?
Se partiamo da uno dei ragionamenti fatti più sopra, ossia che il mago è affascinante soprattutto perché incarna la massima aspirazione dell’uomo di manipolare la realtà e farla sua, facendo un po’ di facile retorica potremmo dire che il videogioco come medium è quello che più di tutti riesce a darci l’illusione di poter incidere sul mondo in maniera totale.
Spingiamo un tasto, e automaticamente abbiamo una reazione, una parte dello scenario che muta, una manipolazione. Ciò vale ovviamente per qualsiasi tema videoludico, dall’action all’investigativo, ma è quando prendiamo il controllo di un personaggio in un mondo fantastico (non solo fantasy), in grado di poter creare portali dimensionali o far levitare elementi del paesaggio, che il videogioco può raggiungere picchi di interattività assoluta.
Pensiamo a Portal, un costante insieme di rompicapi sci-fi in cui la nostra capacità di calcolo spaziale, unita alle abilità uniche del protagonista, ci permette di creare tragitti e movimenti assolutamente “non tradizionali” all’interno di un livello.
Magia.
Pensiamo invece di nuovo ai giochi di Arkane, soprattutto Dishonored (non a caso un immersive sim, in un certo senso “figlio” dell’rpg classico), in cui il concetto di magico permea l’intera esperienza e dà al giocatore gli strumenti per personalizzare al massimo il suo stile di gioco, creando una bella differenza tra due run di gioco; o ancora, perché non citare in giudizio i primi due BioShock?
In tutti questi casi, pur non parlando strettamente di videogiochi a tema fantasy, ciò che emerge è come la “mentalità magica” sia riuscita a permeare una serie di giochi coevi e confinanti fino a contaminarli.
La chiave di lettura è sempre quella, dare al PG il controllo assoluto, come un Merlino o un Gandalf il Bianco.
Forse, la realizzazione finale di un desiderio che l’uomo si porta dietro da molto tempo.
This post was published on 22 Aprile 2023 18:30
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