Dead Space è tornato e lo ha fatto in maniera del tutto imprevista fino a un anno fa.
Il gioco del 2008, forse uno dei più famosi e compiuti del survival horror “made-in-USA” delle ultime generazioni, è ricomparso all’orizzonte per spaventarci con le sue creature d’incubo dopo quindici anni dall’uscita originaria, con un remake nuovo di zecca.
Col suo ritorno, Dead Space non riporta in auge solo una serie amatissima, ma soprattutto un genere centrale nel campo delle storie dell’orrore di oggi e, soprattutto, di ieri: quello delle navi fantasma, che da secoli raccontano, con l’arma della paura, aspetti incredibili della natura umana.
Vi invitiamo quindi a veleggiare con noi fra onde minacciose e relitti inquietanti, sulle tracce di un vero e proprio mito.
Dead Space è una delle più riuscite incarnazioni delle storie dell’orrore di questo tipo: ambientato in un futuro molto distante, in cui l’umanità si è spinta nello spazio profondo, il gioco di Visceral permette al giocatore di sperimentare sulla propria pelle la storia del classico poveraccio (Isaac Clarke, in questo caso) che si ritrova a dover esplorare una nave data per dispersa nello spazio profondo e tornata dal nulla dopo essere incappata in una minaccia soprannaturale. Il risultato, per i giocatori di vecchia scuola, è più che noto: Clarke e i suoi colleghi si ritrovano a dover sopravvivere ai minacciosi Necromorfi e a far luce su ciò che è accaduto sulla nave Ishimura, andando incontro a un tripudio di orrore e follia.
Ora, la cosa interessante è che in questo incipit c’è praticamente l’innesco narrativo di una miriade di storie di fantascienza-horror e, ancor prima, di “storie di paura” nate attorno al tema del viaggio nell’ignoto che va a finire malissimo. Ecco una lista in ordine sparso, andando a memoria: in questa famiglia troviamo il film Event Horizon (conosciuto in Italia come Punto di Non Ritorno), incentrato sull’allucinata esplorazione di un’astronave perduta e tornata nel nostro universo dopo essere stata-forse-all’inferno, la novella breve Nightflyers di George R.R. Martin, che parte da premesse simili al film precedenti, il re della horror science-fiction Alien (qui il nostro speciale sulla storia videoludica del brand), e ancora tanti sotto prodotti di questo genere quali Pandorum, Life, High Life, Europa Report, Sunshine, tutti quanti costruiti sullo stesso identico assunto.
Infine, tornando in modo quasi circolare al videogioco, troviamo il recentissimo The Callisto Protocol, che pur non avendo fatto breccia nel cuore dei giocatori ha il merito di aver riportato nelle case di molti le atmosfere di oppressione e paura di cui parleremo oggi.
Si tratta, com’è possibile vedere, di un filone che può contare su una lista di esponenti lunghissima e anche di qualità abbastanza alta, incarnazione di un modo di raccontare storie di paura particolarmente apprezzato dal pubblico. Tuttavia tutto questo insieme di narrazioni è a ben vedere soltanto un’evoluzione, aggiornata all’immaginario novecentesco del viaggio nello spazio, di un genere antichissimo.
Partiamo da un esperimento. Se cerchiamo su IMDB la parola chiave “Ghost Ship”, infatti, troviamo una ricchissima filmografia di pellicole con questo titolo, prodotte lungo tutta la storia del cinema, e tutte basate sullo stesso assunto, ovvero navi perdute da tempo fra gli oceani che, una volta tornate sui radar dei “viventi” (letteralmente!) riversando su di essi il loro carico di terribili orrori.
Qualche titolo che viene in mente è il terribile Nave Fantasma (2001), ma anche The Fog-Nebbia Assassina di John Carpenter (1980) che, pur non essendo ambientato propriamente in mare, ruota attorno al misterioso ritorno di una nave fantasma nella ridente cittadina di Antonio Bay dopo un centinaio d’anni dalla sua partenza, fatto che porta con sé una vera e propria invasione di orrori soprannaturali.
Spingendoci alla commedia d’azione, potremmo far entrare nel genere anche La Maledizione della Prima Luna, primo e più riuscito film del ciclo dei Pirati dei Caraibi e addirittura potremmo spingerci, in nome di alcune sue caratteristiche, a 1899, serie Netflix balzata agli onori della cronaca per la sua cancellazione.
Persino il videogioco ha da poco affrontato l’argomento con Man of Medan, primo episodio del ciclo di Supermassive Games The Dark Pictures, un gioco horror narrativo basato interamente sulla vicenda della Ourang Medan, nave scomparsa nelle acque del sudest asiatico a fine Seconda Guerra Mondiale e al centro di leggende e misteri. Andando più indietro nel tempo, l’archetipo è poi comparso in svariati giochi sia mainstream che non, da Final Fantasy V (dove a comparire è addirittura un “cimitero di navi fantasma”), a Layers of Fear 2 fino a Return of the Obra Dinn. Infine, la nave fantasma appare anche in Resident Evil, in particolare nella sezione conclusiva del settimo episodio, quando Ethan deve sfidare le tenebre di un oscuro tanker della Umbrella che si allontana dalla costa della Louisiana col suo carico di morte.
La confusa lista che abbiamo proposto poco sopra è lunga, e persino lungi dall’essere esaustiva: scommettiamo di aver dimenticato qualcosa, fra racconti, libri, film che di era in era (e attenzione: si tratta di un vocabolo scelto non a caso) hanno raccontato questa storia, l’infinita storia della nave maledetta che ritorna e porta morte.
Una figura leggendaria talmente forte da far pensare che, più che di “sottogenere”, forse dovremmo parlare di “archetipo narrativo”, potente ed elementare, che fa capolino di continuo nell’arte, ma soprattutto nella leggenda.
Quand’è che l’uomo ha iniziato a parlare di navi portatrici di male?
Se parliamo di folklore e fantasia, va anzitutto ricordato come il mito si innesti su leggende e miti marinareschi ancora più antichi e tramandati in primis dall’oralità, che una volta diventate parte del corpus “che conta” della cultura occidentale gettano “premesse importanti” per miti più moderni. Pensiamo al viaggio di Ulisse, con tutte le sfide angoscianti che deve superare (in primis le temute sirene), o alla leggendaria Nave delle Unghie (o Dei Morti, o ancora Nagflar) di origine norrena, che provenendo da Múspellsheimr porterebbe creature di caos e darebbe origine al Ragnarok.
Avete presente la nave della Caccia Selvaggia di The Witcher III o quella su cui veleggia Kratos in God of War alla volta di Midgard? Ecco, sono entrambe figlie dell’archetipo di Naglfar (giusto a ricordarci come tutto, in mitologia e narratologia, sia sempre intrecciato).
E’ però con le Grandi Esplorazioni (1500-quasi prima metà dell’800) che le storie di vascelli fantasma si intensificano, fatto dovuto a tanti elementi contingenti: i tanti viaggi transoceanici (che possono durare mesi, se non anni), l’inizio del mercantilismo, la diffusione di merci, storie e racconti da una parte e l’altra del globo. Tutti elementi che portano alla costruzione di un folklore tutto nuovo che si nutre di miti e leggende tramandati di equipaggio in equipaggio.
In questo quadro dobbiamo citare ovviamente l’Olandese Volante, che secondo la tradizione- generata da un insieme praticamente indistinto di racconti, romanzi e ovviamente opere liriche (vedi l’omonima opera di Wagner) diffuse a partire dal ‘600-solcherebbe i Sette Mari portando sventura.
Ma, uscendo fuori dal campo semantico del mito e del fiction, ci accorgiamo che in realtà le navi fantasma esistono e sono presenti all’interno dell’intera storia della navigazione.
Nel gergo marinaresco, “nave fantasma” è la denominazione di un naviglio recuperato in mare senza il suo equipaggio a bordo o con i suoi membri morti per cause inconsuete, come accaduto nel caso della già citata Ourang Medan, che nel 1947 venne ritrovata in acque indonesiane con sopra una vera e propria ecatombe di uomini dell’equipaggio (lascio qui la pagina Wikipedia).
Il primissimo caso di questo tipo registrato dagli annali moderni fu tuttavia quello della Mary Celeste (1872), brigantino ritrovato fra la costa portoghese e le Azzorre. In questo caso, il brigantino venne ritrovato senza nessuno a bordo, e ridotta quindi a una sorta di simulacro deserto di un viaggio che, partito dagli U.S.A., non ebbe mai fine (qui la vicenda, grazie mente alveare di Wikipedia).
Insomma, vuoi perché alimentata da episodi inquietanti ritrovati sugli annali, vuoi perché ramificata all’interno di scenari mitici e narrativi, la nave fantasma è qualcosa che da molto tempo, praticamente dall’alba dei tempi, risiede in un piccolo angolo nell’immaginario umano. Di fatto, essa è un sintomo di una paura ancestrale dell’essere umano, ovvero quella del mare, elemento tanto “naturale” quanto “ostile”, specie per le comunità basate su attività che costringevano a viaggi in acqua spesso fatali (ricordate Moby Dick, no?).
Il viaggio in acque aperte, verso l’ignoto, è quindi sempre inteso una sorta di “viaggio della speranza”, in cui l’uomo abbandona le certezze della terraferma, entra in un territorio sconosciuto e deve affrontare tutti i suoi orrori, comprese le navi uscite da chissà dove e cariche di mostruosità.
Ma, oltre che ad affrontare l’ignoto esterno, l’equipaggio deve affrontare anche un’altra grossa sfida: sopravvivere agli orrori insiti in loro stessi.
Dopo questo lungo tornare indietro nel tempo, torniamo a Dead Space.
Di fatto, l’orrore affrontato da Isaac, pur se fra porte automatizzate, potenti intelligenze artificiali e ovviamente viaggi in cielo, si basa sugli stessi identici ingredienti sul quale poteva basarsi una storia di fantasmi ambientata su un vascello del 1600: in entrambi i casi, si tratta di storie che parlano di piccoli “avamposti della società” che si ritrovano davanti qualcosa che non possono conoscere e che li minaccia.
Il meccanismo di queste storie è tutto qui. Gente sparata verso l’ignoto che incontra qualcosa di orribile e che soprattutto è lo specchio di sé. La Kellion incontra la Ishimura, come la Nostromo di Alien si imbatte nel pianeta-fantasma da cui inizia la sfortunata vicenda: in entrambi i casi, i “mondi perduti” riemersi dall’oscurità dello spazio sono versioni letteralmente capovolte delle navi dei protagonisti, in cui lo spettatore/giocatore può ritrovare elementi della nave “dei buoni”, ma riflessi “in negativo” nell’altra. Su quest’architettura narrativa si innesta, nel caso del videogioco, un modello che funziona alla perfezione nel gameplay di survival-horror, perché in questi giochi, molto più che in un Resident Evil o in un Silent Hill, siamo costretti a seguire un path preordinato senza neanche poter immaginare che il nostro alter-ego possa cambiare strada, perché letteralmente infilato dentro bare di metallo sospese nello spazio “in cui nessuno può sentirti urlare”.
Non serve poi aggiungere come questo modello di racconto, declinato alla sfera videoludica, dia la possibilità di tante divagazioni divertenti e di occasioni di sfida per il giocatore: dal dover affrontare miriadi di zombie al superamento di trappole infami partorite da computer di bordo impazziti, fino al dover sopravvivere a danneggiamenti dello scafo che possono portare alla morte per mancanza di ossigeno. Tutte sfide perfette per un survival horror ansiogeno, e spesso ancor più senza speranza di titoli dello stesso genere ma ben più “terrestri”.
Un modello di narrazione tesa molto efficace da un punto di vista psicologico, in primis per le sensazioni stranianti che dà. Ricordate infatti quando dicevamo che la nave “dei cattivi” è lo specchio al negativo di quella “dei buoni”? Ho usato quelle parole non a caso, ma perché in giochi come Dead Space buona parte della tensione è data dal fatto di doverci muovere per forza muoverci in territori che sembrano innocui o familiari ma che invece sono ostili, e per questo ingannevoli.
Non è un caso che questo genere di storie, spesso, sia stato utilizzato anche per veicolare contenuti politici o filosofici: Alien era una riflessione per sommi capi su come la nostra società ed economia possa generare una tecnocrazia spietata (simboleggiata dal computer di bordo Mother e dagli esperimenti genetici della Weyland-Yutani), come in Fog la nave che torna verso la terraferma col suo carico di spiriti era l’ennesima grande metafora della cattiva coscienza americana.
C’è un “significato culturale” interessante, in quello che sembra soltanto un riutilizzo di una “figura retorica” dell’horror in diversi giochi contemporanei.
Pensiamoci: la Ishimura, la Nostromo, come la Event Horizon (protagonista di Punto di Non Ritorno), sono come detto eredi di un mito millenario che rappresenta una paura davvero ancestrale dell’uomo, che si manifesta in modo sempre diverso ma mantenendo più o meno le stesse caratteristiche.
Si tratta di incarnazioni in veste nuova di leggende che albergano nella mente dell’uomo, di racconti che passano dall’oralità alla scrittura e arrivano al cinema e poi nel gioco digitale con una pervasività e una capacità di adattarsi allo spirito del tempo che passa sopra anche alle ovvie necessità “commerciali” di chi scrive e produce prodotti di largo intrattenimento, e riescono a testimoniare come certe storie non hanno un inizio e una fine, ma diventano vere e proprie epopee arricchite da nuovi frammenti, esponenti, modi di raccontare.
Storie ancora più universali di quelle della semplice casa di fantasmi sulla collina, o del vampiro, o ancora del licantropo, perché legati a doppio filo a un bisogno necessario dell’uomo-l’andar per mare, l’esplorare, il pescare (banalmente, ma non troppo).
E forse sono questi i casi che fanno capire quanto i videogiochi hanno potuto, possono e potranno sempre più rappresentare un frammento importante della nostra cultura, digitale e non.
This post was published on 2 Febbraio 2023 12:30
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