Sin dalla nascita dell’industria videoludica moderna, ognuna delle principali aziende sulla scena ha investito ingenti risorse nella propria identità di marca (o brand identity, per i più anglofoni), creando i personaggi più iconici del gaming.
Se pensassimo a Microsoft, ad esempio, non potrebbero non venirci in mente Master Chief e Marcus Phoenix; se nominassimo SEGA, Sonic farebbe la sua comparsa in un battibaleno; Nintendo, d’altra parte, è indissolubilmente legata a celebrità del calibro di Mario, Link, Donkey Kong, Kirby, solo per citarne alcuni.
Anche Sony, ovviamente, può vantare un roster di mascotte di tutto rispetto, che si è ampliato console dopo console.
Questi personaggi, però, sono risultati essere insensibili allo scorrere del tempo?
La risposta è ovviamente negativa.
Come tutti i giocatori sanno benissimo, ogni nuova iterazione ha (o avrebbe) il dovere di alzare la celeberrima asticella del suo franchise di appartenenza, rinnovandolo da un punto di vista almeno tecnologico e tecnico.
Ma cosa succede se è ad invecchiare non è il personaggio ma la sua saga?
Questo è il momento più pericoloso in cui un’icona dei videogame possa trovarsi: quello in cui i suoi fan storici iniziano ad avvertire quella sensazione di già visto che, di solito, è l’inizio della fine.
In casi del genere le strade possibili diventano due: “squadra che vince non si cambia” e, quindi, continuare con una formula già collaudata finché questa regge o, al contrario, percorrere “la via del cambiamento“: ludico o narrativo che sia.
Come potrete facilmente immaginare la prima opzione è sempre quella più gettonata, poiché consente di rimandare il problema fino a quando questo non diventi effettivamente inevitabile.
Il cambiamento, al contrario, richiede di sfilarsi la corona di alloro dalla testa e di mettersi nuovamente in discussione andando, sopratutto, a rischiare.
In questa sede, ci occuperemo di Kratos, una delle icone della storia dei videogame, e della metamorfosi che ha riguardato sia lui che le sue due “vite”.
Per comprendere la genesi di God of War, non possiamo che partire dal “contesto storico” in cui è nato il primo capitolo della saga. Ci troviamo nei primi anni del 2000, epoca d’oro sia degli hack and slash (Devil May Cry su tutti) che dei platform 3D, ed una giovane software house sta lavorando duramente ad un titolo che unisca le migliori meccaniche di entrambi i generi: azione, combo spettacolari e boss fight memorabili da una parte; salti di voragini, pareti da scalare, funi da afferrare e qualche enigma da risolvere dall’altra.
Nessuno lo sa ancora ma quello sarà l’inizio di una saga che affascinerà milioni di giocatori.
Il setting è quello dei più avvincenti: la mitologia greca, si sa, riesce sempre a catturare l’attenzione; tuttavia, c’è bisogno di un protagonista che buchi lo schermo e, dopo non poco lavoro, il risultato finale è un generale spartano di nome Kratos.
I filmati introduttivi ci fanno subito capire che abbiamo a che fare con un guerriero fatto e finito, una macchina di morte che elargisce più fendenti che parole, capace di distruggere tutto e tutti nella sua strada, la quale sembra avere un’unica destinazione: la vendetta.
L’estetica del protagonista sembra provenire direttamente dalle statue dell’Antica Grecia che raffiguravano le divinità: con una muscolatura perfetta e senza l’ombra di un’armatura a nasconderla. Tuttavia, se gli Dei raffigurati da Mirone, Policleto e Fidia sono immersi in una calma “olimpica”, il volto di Kratos è tutt’altro che tranquillo, segnato da quella rabbia che ci accompagnerà per tutto il tempo, la fiamma inestinguibile che guiderà i nostri passi.
Si scoprirà in seguito che una delle principali fonti di ispirazione del celeberrimo protagonista sia stato il modello 3D del barbaro di Diablo II, con cui condivide il corpse painting (rossa per l’uno, blu per l’altro), ma questo è tutta un’altra storia.
Come comprenderemo subito, l’ex generale spartano ha tutte le ragioni per essere infuriato ma, nonostante tutto, non ci viene presentato come un eroe. Il suo aspetto glabro, la sua mascella volitiva e gli spigoli delle sue sopracciglia della sua barba ce lo fanno quasi associare al più classico dei villain; inoltre, la sua posa incurvata suggerisce una tensione fisica che, inutile dirlo, potrà risolversi solo nel combattimento.
Se finora abbiamo tracciato un identikit fisico del protagonista di God of War, ci siamo spesi poco o nulla sulla sua storia e, in verità, poco ci sarebbe da dire, poiché tutto o quasi ruota attorno ad un solo tema: la vendetta.
Dopo essere scampato a morte certa grazie all’intervento di Ares, lo spartano ne diventa l’araldo, portando morte e distruzione a tutti i nemici del Dio Greco e, nel corso dell’ennesima razzia, finisce per trucidare la sua stessa famiglia. Resosi conto del terribile fato riservatogli dal suo creatore, egli giura di restituirgli il torto subito, sfidando una delle più temibili divinità dell’Olimpo e polverizzando qualsiasi cosa lo ostacoli.
Il Kratos che ci troviamo davanti è un monolite pressoché inscalfibile, con un solo obiettivo in mente: la distruzione di Ares (prima) e di tutti gli Olimpici (poi).
Come ci accorgeremo, nella testa dell’ex generale spartano non c’è spazio per nient’altro.
Nell’arco dei vari capitoli dell’Era Greca, il protagonista non avrà praticamente alcun alleato, non legherà con nessun personaggio (ad eccezione di Pandora) e, di fatto, non mostrerà quasi nessun lato umano. Il nostro (anti)eroe tenderà più ad urlare che a parlare, non facendosi alcuno scrupolo nel sacrificare innocenti per il raggiungimento del suo scopo; non c’è traccia di tristezza neanche quando, a causa di un equivoco, uccide barbaramente uno dei pochi soldati che gli erano rimasti fedeli.
Il personaggio di Kratos presenta le sue uniche evoluzioni nel terzo ed ultimo capitolo della trilogia, dove cercherà a tutti i costi di evitare il sacrificio di Pandora (rivedendo forse in lei l’innocenza e la purezza di sua figlia Calliope) e sacrificandosi dopo aver ottenuto la sua vendetta contro Zeus, interrompendo il circolo di violenza che lui stesso aveva innescato.
Sullo sfondo delle immagini che precedono i titoli di coda possiamo scorgere i frutti delle azioni di Kratos: una Grecia immersa nel caos più totale, priva delle leggi divine che la governavano, forse sull’orlo della distruzione, ma con la possibilità di ripartire priva dei vincoli che la avvincevano.
L’epopea del Fantasma di Sparta si è finalmente conclusa, lasciando una scia di morte e distruzione, ma forse anche un barlume di speranza: la stessa speranza che Pandora aveva lasciato sul fondo del suo vaso, la stessa speranza che alimenterà la seconda vita del nostro protagonista.
Nonostante il finale “aperto” del terzo capitolo della saga principale, erano in moltissimi ad immaginare (e sperare) che quella non sarebbe stata l’ultima volta che ci si sarebbe imbattuti in Kratos. Tuttavia, God of War: Ascension (l’ultima release dell’Era Greca) aveva reso chiara la presenza di qualche scricchiolio.
La vicenda principale si era esaurita (Ascension, come spieghiamo meglio qui, è un prequel), il gameplay ricalcava in maniera pedissequa quanto visto nei capitoli precedenti e l’iconico protagonista sembrava non avere più niente da dire… o almeno non nei panni del Fantasma di Sparta.
Lo stesso filone degli hack and slash era molto meno florido rispetto ai primi anni 2000 e, quindi, Santa Monica comprese che era necessario operare dei cambiamenti, sia per dare nuova linfa alla saga che per evitarne l’invecchiamento.
Da queste premesse nasce il God of War del 2018, da molti ritenuto un reboot della saga, ma che invece ne è il naturale prosieguo.
Se nell’Era Greca il fulcro del gameplay ruotava quasi completamente attorno ai combattimenti ed alle fasi platform (con l’aggiunta di qualche enigma ambientale), l’epopea norrena pone introduce grandi mappe da esplorare, qualche elemento RPG (livelli, equipaggiamento, main e side quest, ecc.), una trama molto più profonda e sfaccettata di quanto si fosse visto in precedenza e, soprattutto, ci presenta un Kratos molto diverso da quello che conoscevamo.
Approfondiremo meglio questo punto nel paragrafo successivo, ma il primo momento in cui si capisce che qualcosa è cambiato è proprio durante l’incipit del videogame, quando siamo chiamati ad abbattere un albero a colpi di ascia. Kratos, il Dio della Guerra dell’Antica Grecia, colui che ha dichiarato guerra a Zeus, il flagello dell’Olimpo: questo guerriero dalla forza impareggiabile ha veramente bisogno di vibrare così tanti colpi quando ha già dato prova di poter distruggere qualsiasi ostacolo a mani nude?
La risposta è si, semplicemente perché quel personaggio non esiste più.
Proseguendo nel gioco, ci rendiamo subito conto di quanto profondi siano stati i cambiamenti che hanno riguardato l’iconico protagonista della saga.
L’albero che stava abbattendo serviva per alimentare la pira funebre di Faye, la nuova compagna di Kratos, nonché madre di suo figlio Atreus, il giovane ragazzo che ci accompagnerà per tutta la durata del nostro viaggio nel profondo Nord.
Nonostante il guerriero greco stia nuovamente affrontando il dolore di una perdita sa di non potersi più abbandonare alla furia; sia perché non c’è qualcuno contro cui scagliarla, sia perché stavolta ha qualcuno da proteggere, qualcuno a cui tiene.
Qualcuno che lo obbliga a diventare un uomo migliore.
L’elemento della vendetta è totalmente assente ed anzi, il nostro (anti)eroe farà di tutto per fuggire dal proprio passato e per nasconderlo agli occhi di Atreus, cercando di trasmettergli quei valori che a lui sono del tutto mancati.
Si dice che l’età ammorbidisca il carattere e, siccome è sono passati molti anni dalla vendetta contro gli Dei olimpici, anche l’indole di Kratos è cambiata.
Il condottiero greco è ora più pacato, non urla quasi più (neanche quando perde le staffe) e, nonostante il destino lo ponga nuovamente in conflitto con un pantheon, sembra aver appreso che il miglior combattimento è sempre quello che si riesce ad evitare.
Chiariamo bene un punto: il Fantasma di Sparta non è sparito del tutto.
Non mancheranno momenti in cui ogni approccio diplomatico sarà vano, o in cui il protagonista si mostrerà in tutta la sua durezza ed autorità, ma questi saranno l’eccezione, non più la regola, per almeno due buoni motivi: da una parte, l’ex generale sa bene che la violenza chiama altra violenza, generando un interminabile vortice di dolore; dall’altra, stavolta egli sa di avere qualcosa da perdere.
In questo secondo arco narrativo non vi è più la vendetta come pietra angolare dello sviluppo narrativo. Tuttp ruoterà attorno a temi più a misura d’uomo: il perdono, la perdita di chi si ama, l’accettazione di sé stessi e del proprio destino, anche quando questo sembra portarci alla rovina, passando per quel rapporto genitore – figlio che sarà il cardine di God of War Ragnarok.
Da quanto finora detto, capiamo di essere davanti a due personaggi completamente diversi, con l’uno che rappresenta l’evoluzione dell’altro.
Scendiamo più nel dettaglio e cerchiamo di enucleare quelel che sono le differenze principali.
Il Kratos della prima era è la personificazione della furia distruttrice, che non arretra davanti ad alcuna minaccia e che, anzi, spesso è colui che sferra il primo colpo, cancellando ogni speranza di pace. Nel secondo arco narrativo, invece, troviamo un protagonista molto più pacato, con lo stesso carattere deciso ma, stavolta, molto più aperto al dialogo, soprattutto se serve ad evitare conflitti.
Come avremo modo di constatare, il guerriero spartano combatterà solo dopo essere stato aggredito, o quando sarà messa a repentaglio la vita di colui (o coloro) che ama.
In secondo luogo, il Fantasma di Sparta che abbiamo conosciuto in terra greca è un monolite pressoché inscalfibile, un uomo solo con la sua vendetta; saranno pochi i momenti in cui lo vedremo esitare, così come saranno pochi i personaggi con cui lo vedremo interagire: il guerriero ellenico è praticamente l’unico attore in scena.
Nel gioco del 2018, invece, il monolite menzionato in precedenza è completamente crollato. Il Kratos “scandinavo” è molto più profondo e sfaccettato, consapevole della propria fragilità, quanto mai desideroso di quella pace che ha sempre sfiorato ma mai realmente raggiunto; inoltre, il guerriero non è più solo, ma interagirà con tantissimi personaggi, arrivando a legare con molti di essi e addirittura a sotterrare l’ascia di guerra con alcuni dei suoi nemici.
Anche dal punto di vista fisico i due protagonisti si presentano in modo radiclamente diverso. Come detto in precedenza, nell’era greca Kratos era un personaggio quasi confondibile con un antagonista, soprattutto a causa della sua espressione facciale rabbiosa e del suo aspetto spigoloso. Nell’era norrena, invece, molti di questi spigoli sono stati smussati: la sua folta barba, insieme alle rughe del viso, conferisce una nuova fisionomia al volto dell’eroe, ammorbidendone i tratti e conferendogli quell’aspetto paterno che ne smorza la collera.
Inoltre, lo spartano indossa delle armature che ne proteggono il corpo ancora scolpito e statuario, ma forse più vulnerabile rispetto al suo glorioso passato.
Queste scelte hanno reso il guerriero greco un personaggio con cui è possibile empatizzare, perché quello che abbiamo davanti non è più un essere collerico, assetato di sangue ed incapace di mostrare la minima emozione: il nuovo Kratos è un uomo che sente tutto il peso degli anni che porta, che sa di essere fragile, che avverte il dolore di tutte le cicatrici che porta addosso e che più volte è sul punto di piangere.
Imboccare la strada del cambiamento, come sottolineato in apertura, si è dimostrata essere una scelta rischiosissima ma necessaria.
Con la seconda era di God of War, Santa Monica Studio ha operato un duplice cambiamento, che ha investito sia la formula ludico-narrativa che il suo iconico protagonista.
Se, da una parte, si è passati da un hack and slash tutto azione e quick time events a un’avventura open map (con una spruzzatina di RPG) con un forte accento sulla trama, dall’altra si ha l’impressione di trovarsi davanti un Kratos totalmente diverso dalla sua precedente incarnazione.
Analizzando il primo aspetto, lo sviluppatore americano ha saputo innovare una formula già vincente (ma che stava iniziando a risultare stantia) rendendola decisamente più fresca, moderna e, soprattutto, aperta anche a coloro che siano alla ricerca di un’esperienza completa ed appagante. Ma tutto questo non poteva non passare per l’evoluzione di una delle icone del gaming contemporaneo.
L’ex generale spartano non è più l’unico attore in scena (e chi ha giocato Ragnarok lo sa benissimo) e, probabilmente, in futuro potrebbe anche non essere più il protagonista indiscusso della saga; tuttavia, l’epopea norrena ha segnato la fine del Fantasma di Sparta. Kratos non è più spietato ed implacabile, ma ci viene presentato come un guerriero vecchio e stanco, che si toglie l’armatura da dosso, mostrando allo spettatore tutte le sue debolezze.
Probabilmente il Dio della Guerra che avevamo ammirato nell’Era Greca non esiste più, ma si è evoluto insieme alla storia che ha da raccontarci, risultando meno forte, più fragile, meno risoluto, quasi contraddittorio, ma molto più vicino al giocatore che lo impersona. E certe volte, evolversi significa abbandonare l’aura divina per abbracciare l’affascinante imperfezione umana.
This post was published on 27 Gennaio 2023 12:30
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