Mascotte e creatività non sembrano essere concetti che vanno d’amore e d’accordo. Una mascotte arriva all’interno del ciclo di vita di una console e genera un’immagine ed un simbolo da rispettare. Una mascotte impianta l’aspettativa all’interno del cervello dei suoi appassionati, finendo però per portare con sé anche in parte una console stessa.
In un recente, lunghissimo e meraviglioso video di Tim Rogers su Boku No Natsuyasumi (dura solo 6 ore, 10/10 would watch again) l’ultima ora è mezza è a passata dal critico americano a ragionare su quanto Bokunatsu in un certo senso anticipi la venuta di Animal Crossing e declini in maniera diversa quanto fatto da Yu Suzuki con la saga di Shenmue.
Si, perché Bokunatsu non è altro che un videogioco in cui poter vivere un mese di vacanze estive di un bambino giapponese all’interno di un preciso contesto socioeconomico e culturale. Questo gioco è stato sviluppato nello stesso periodo di Shenmue ed è stato il frutto di diversi rifiuti pregressi verso il tema del gioco sulle vacanze estive. La sensibilità giapponese è chiaramente diversa da quella Europea e questo lo si può comprendere a pieno guardando le sei lunghe e bellissime ore di cui abbiamo parlato ora.
Questo, però, non è un articolo che tenta di convincervi a sperimentare Bokunatsu o la sua più recente iterazione a tema Shin Chan (i developer sono gli stessi). Questo è un articolo che cerca di parlare di un periodo quando Sony non era il colosso miliardario di oggi che strizzava gli occhi all’universo cinematografico con un paradigma di enorme successo, sia in salsa open world che in salsa streamlined.
C’era una volta, tanto tempo fa, un’azienda giapponese che tentò di entrare nel mercato dei videogiochi dopo aver visto la sua collaborazione con il colosso del settore sfumare miseramente. Manco fosse veramente una vendetta nei confronti di Nintendo, Playstation riuscì nell’impossibile missione di avere un incredibile successo in patria e non.
Questo successo è ampiamente attribuibile a tutta una serie di videogiochi che ancora oggi riempiono le bocche e le pagine di tanti appassionati: i soliti Crash Bandicoot, Spyro The Dragon, i 3 CD di Final Fantasy 7, i 2 CD di Metal Gear Solid, le notti insonni derivanti da Resident Evil, gli incubi eterni di Silent Hill.
Di carne al fuoco ce n’è stata tanta.
Eppure Sony è stata anche molto oltre questo: l’azienda giapponese è stata la casa per una nutritissima serie di videogiochi quantomeno bizzarri per composizione, struttura e natura. Boku No Natsuyasumi con il suo voler far vivere un mesetto nella vita di un bambino immerso nella compagna giapponese non è che un esempio (più dolce che bizzarro) di quanto effettivamente variegate le esperienze videoludiche erano all’epoca.
Quest’oggi, allora, lasciate che vi accompagni da improvvisatissimo ma anche nostalgico cicerone all’interno di tutta una serie di produzioni esclusive in qualche modo a Sony che hanno aiutato a delineare il concetto di creatività applicato al videogioco. Prima degli indie, prima del concetto di videogioco alternativo, prima del concetto di videogioco tripla A ad alto budget.
Prima che il profitto avvelenasse definitivamente con le pretese di ritorni inflessibili una terra di nessuno ancora piena di spazi di manovra.
Un’azienda che è stata strumentale al successo di Playstation è senza dubbio Squaresoft. Final Fantasy VII ha venduto milioni di copie mettendo fine allo strapotere di Nintendo nel settore dei JRPG, Final Fantasy VIII ha venduto bene, Final Fantasy IX pure.
Sakaguchi e compagnia per un periodo hanno veramente navigato nell’oro e questo ha permesso ad un’azienda con un forte curriculum a base di JRPG di potersi permettere ibridi e sperimentazioni.
L’ibrido sicuramente più noto al grande pubblico è quello di Parasite Eve, ibrido tra survival horror e action RPG che riesce nel difficile compito dell’essere il gioco con le supercazzole scientifiche più efficaci di tutto il momento storico, superando T-Virus e BOW di Capcomiana memoria. Anche la saga di Tobal cercava di ibridare il mondo dei picchiaduro tridimensionali con quello dei giochi di ruolo, sebbene in questo caso possiamo parlare di giochi non esattamente riuscitissimi.
L’esperimento più bizzarro è senza dubbio rappresentato da Racing Lagoon, un bizzarro ibrido tra gioco di guida e gioco di ruolo giapponese diretto dallo stesso designer che un lustro prima se ne uscì con lo strategico a turni a tema draghi in mondi volanti. Storicamente non sarà nemmeno l’unico ibrido tra i due generi che Squaresoft farà: qualche anno dopo l’azienda riproverà ad ibridare il gioco di guida con altre cose in maniera molto meno audace con Driving Emotion Type-S, senza però nemmeno sfiorare quel picco estetico e creativo legato a RL.
Per provare a spiegare Racing Lagoon è prima necessario provare ad inquadrare alcune delle figure chiave che ci hanno lavorato dietro: il producer, ad esempio, è Akitoshi Kawazu mentre lo sceneggiatore è Motomu Toriyama. Il primo è universalmente noto per essere la mente dietro diversi dei capitoli del brand SaGa (Romancing Saga: Ministrel Song, SaGa: Scarlet Grace, etc etc) mentre il secondo è lo stesso identico dietro le sceneggiatura farraginose e opinabili di Final Fantasy 13 o Final Fantasy 10-2. A dirigere il tutto ci ha pensato Hitoshi Sasai, game designer dietro Bahamuth Lagoon ed il design è a cura di Tsukasa Fujita, una delle menti dietro Final Fantasy Tactics.
Il payout pubblicitario del gioco tra le altre cose parla chiaro:
high
speed
racing
RPG
Come non farsi conquistare da qualcosa del genere? Come non innamorarsi di un videogioco che prende ispirazione per estetica e tematiche da quella che poi a posteriori si rivelerà essere uno dei manga più influenti per la sottocultura dei petrolheads come Initial D? La ToyoTa Corolla AE86 non compare a caso, così come non è casuale il tema delle corse notturne.
Messa così è senza dubbio una collezione di bizzarie quasi senza precedenti ma continuiamo ad aggiugnere dettagli al nostro quadro. L’ambientazione è la Yokohama del 1999, c’è una mappa del mondo in cui navigare liberamente con la nostra macchinina che riprende stilisticamente quanto fatto con i vari Final Fantasy nella triade PS1, la narrativa viene espletata attraverso didascalie e discorsi fatti da macchine e piloti.
Questi ultimi sono rappresentati con screenshot di modelli poligonali, questi ultimi dotati di uno stile nomuriano senza il tocco di nomura. C’è l’altissimo ed il bassissimo ed è tutto mescolato insieme con la follia che solo il mondo pre-crisi economica sapeva dare ai suoi figli.
Poco importa se poi il core gameplay del gioco un po’ soffriva l’inesperienza della software house in questo specifico genere. Racing Lagoon non è accattivante da giocare come un Gran Turismo 2, né può vantare le finezze grafiche e/o simulative. Continuare a restare un esempio mastodontico di assoluta bizzarria di cui la Playstation giapponese si è resa protagonista prima che le cose scivolassero verso cose più bizzarre.
Zettai Zetsumei Toshi è un nome che mi perseguita fin dalle scuole medie, quando fa capolino tra e pagine di chissà quale rivista di videgiochi. Ancora oggi c’è un Disaster Report nella mia vita, il 4, pronto da giocare installato sullo stesso PC da cui sto scrivendo che mi aspetta da mesi e mesi. Nonostante questi occhioni dolci continuo ad ignorarlo, forte del fatto che un gioco sui terremoti ad uno che si è goduto tutto lo sciame sismico del centro italia del 2016 in pieno petto potrebbe risvegliare brutti ricordi.
Zettai Zetsumei Toshi, almeno il primo, è ancora lì a farsi ricordare come un perfetto esempio di “quando i videogiochi con budget semidecenti erano strani davvero”. Arrivato in occidente (!!!) con il nome Disaster Report (terribile lui e ancora peggio la copertina), il titolo di Irem è una delle cose più bizzarre con cui è possibile interagire nel mondo dei videogiochi al giorno d’oggi. Avete presente tutti i survival che riempiono le pagine di Steam? Ecco: Disaster Report li anticipa tutti all’interno di un contesto tridimensionale ed un’ambientazione realistica, mettendo il giocatore faccia a faccia con qualcosa che il Giappone conosce molto bene: la terra che trema.
Ispirato dal romanzo Japan Sinks di Sakyo Komatsu, in qualche modo figlio del suo adattamento cinematografico Submersion of Japan e senza dubbio amplificato dai ricordi di chi ha potuto raccontare il grande terremoto di Kobe del 1995, il game designer Kazuma Kujo (oggi in forze a Granzella, la stessa a detenere molte delle IP di Irem dopo la devozione di questa al magico mondo dei pachinko e del gioco d’azzardo) dichiarò di aver provato a sfruttare la potenza di calcolo di Playstation 2 per replicare la sensazione di sopravvivere nel mentre accade un disastro incontrollabile.
Provare a spiegare Disaster Report utilizzando il normale lessico che associamo alle descrizioni dei videogiochi non è facilissimo, specie perché è un ibrido di molte cose intraviste prima di lui e meglio sviluppate dopo in direzioni completamente opposte. In Disaster Report c’è spazio per inserire 7 finali differenti, un sistema di gestione dello spazio all’interno dello zaino che porta l’anima di Resident Evil all’interno dello stesso sistema di senso di Death Stranding, una quantità gargantuesca di scelte da compiere ed un sistema morale che molto spesso stupiti per ciò che gli sviluppatori hanno definito buono o cattivo.
Un po’ come per Racing Lagoon anche in questo caso parliamo di un videogioco che pad alla mano si dimostra azzoppato dalle scelte scellerate degli sviluppatori. Le meccaniche di sopravvivenza per quanto originali lasciano il tempo che trovano: di risorse il mondo di gioco è pieno, il contrario invece si può dire per le ricette craftabili che risultano completamente inutili ai fini dell’esperienza. Il risultato finale è comunque quello di una produzione interessante e che stupisce molto più di quanto ci si possa aspettare, specie se si considera che poi la formula di gioco è stata raffinata con il seguito.
Raw Danger (anche qui abbiamo a che fare con nomi e copertine di un trash raro) riesce ad ampliare la proposta del primo titolo sia ludicamente che tecnicamente. Le meccaniche di gioco sono state raffinate in favore di meno parametri da tenere in considerazione ma finalmente effettivi, i sistemi di equipaggiamento e organizzazione del primo titolo sono stati potenziati e migliorati, il comparto narrativo è stato declinato secondo diversi paradigmi grazie alla scelta di utilizzare una struttura a capitoli che si influenzano tra di loro in base al personaggio principale con cui si gioca.
La sua commistione di natura arcade e spirito simulativo, unito ad un gameplay da avventura dinamica non violenta, è ciò che rende il brand Disaster Report così interessante e così creativo ancora oggi. È un peccato che la saga sia virtualmente morta con il quarto capitolo, colpevole di essere quasi uscito (alla fine è stato cancellato) prima del terremoto che interessò la regione del Sendai e portò al disastro naturale di Fukushima.
Non li fanno più i giochi così.
Ah, e giusto per la cronaca: il director dei primi 2 Zettai Zetsumei Toshi è in realtà lo stesso del primo Metal Slug.
Playstation 3 con il suo hardware cervellotico è stato il chiodo finale sulla bara sulla diversità delle piattaforme per come le intendevamo una volta. Il monolite nero, stavolta un po’ più tondeggiante degli spigoli di PS2, poteva vantare un’architettura hardware convoluta e bizzarra: abbastanza da dare i natali a giochi come The Last Of Us o Uncharted 2, non abbastanza per permettere a tutte le software house di effettuare porting di titoli nati altrove in maniera semplice e poco dispendiosa.
Sony, tra le altre cose, in questo periodo ancora poteva raccogliere felici i frutti del dominio dell’epoca Playstation 2. Nonostante uno sviluppo rocambolesco per la sua nuova console la compagnia ha foraggiato la nascita di nuove IP come se non ci fosse un domani, dando modo anche a tanti videogiochi più piccoli di vedere la luce. Questo è anche il caso di Tokyo Jungle, un videogioco sviluppato dalla piccola software house Crispy’s sotto l’egida protettiva di Sony Japan Studios e dei Playstation Studios capitanati da Shuhei Yoshida (quello di a me piacciono i giochi indie).
Provare a riassumere Tokyo Jungle non è esattamente semplicissimo ma è bene partire dal concept. In un futuro non troppo lontano l’umanità si estingue ed il mondo resta agli animali; questi ora imperversano e dominano le città dagli uomini costruite, trasformando il cemento in una giungla vera e propria. Non solo cani e gatti, però, ma anche orsi polari, tigri, galline, gazzelle e chi più ne ha più ne metta si sfidano a sopravvivere.
Perché si, almeno in una delle due modalità proposte dagli sviluppatori il concept centrale è proprio quello della sopravvivenza. Il giocatore nei panni del suo animale deve cercare di sopravvivere quanto più a lungo possibile all’interno di una Tokyo diventata campo di battaglia per la sopravvivenza. Che si interpreti una gallina, un volpino di Pomerania o un orso è bene sapere che esistono strategie migliori di altre per rovesciare la legge di Darwin: sta solo all’intelletto e alla creatività del giocatore capire come fare.
A questo si aggiunge una modalità storia più sopra le righe ma che mantiene l’impostazione ludica da action–rpg open world, come in una specie di folle GTA a misura di animaletti domestici. In questo caso Tokyo diventa un po’ più amichevole e al giocatore spetta il compito di soddisfare le richieste di cani, cerbiatti, leoni, iene e robot dalla forma canina. Durante il corso della partita il giocatore potrà scegliere tra ben 80 tipi diversi di animali, ognuno con le sue caratteristiche le sue unicità.
L’intuizione del trasformare il darwinismo in una meccanica di gameplay non è stata esattamente l’unica nel mondo dei videogiochi. Nelle precedente generazione c’era Cubivore di Atlus che presentava un concept del genere in maniera più stilizzata e hardcore e ancora prima toccò a E.V.O di Almanic ed Enix, stavolta però declinato secondo gli stilemi dell’epoca SNES. Ancora prima di E.V.O, tra le altre cose, è possibile rintracciare 46 Okunen monogatari: The Shinka Ron per PC-9801 ma vedo che vi siete già persi a nomi come Almanic ed Enix.
1800 parole di questo articolo cercano di descrivere 3 brillanti esempi di come Sony sia stata, almeno in passato, la culla di tanta creatività pubblicando e foraggiando videogiochi esclusivi per la sua console.
Un panorama sostanzialmente opposto a quanto invece accade oggi, dove addirittura le produzioni indipendenti o vendute come tali come Stray o Kena non sono altro che ennesime iterazioni di quel paradigma di videogiochi action adventure in terza persona. Naturalmente articoli simili si potrebbero fare anche per Nintendo e Microsoft che, però, possono vantare un presente meno standardizzato all’interno di un singolo macrogenere.
Da una parte c’è Nintendo che per ogni platform tridimensionale riesce comunque a partorire un Nintendo Labo, un Pikmin, un RingFit Adventure o un Mario Kart Live: Home Circuit; dall’altra c’è Microsoft che semplicemente non è mai riuscita a generare un’identità così precisa nella produzione di titoli esclusivi e che anzi, ha semplicemente cercato di acquistare quante più aziende possibili durante il corso degli anni per variare il suo portfolio in maniera anche abbastanza importante.
Resta comunque molto da dire anche soltanto sul passato di Sony e sui videogiochi usciti nelle prime tre console del suo ciclo vitale. Magari ci sarà tempo per altri articoli.
This post was published on 22 Gennaio 2023 12:30
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