C’è qualcosa, nel modo in cui sono i videogiochi oggi, che non potete fare a meno di odiare e amare al tempo stesso? Qualcosa che vi infastidisce e al tempo stesso vi attira, il cui utilizzo vi crea tanta repulsione e stress quanta attrazione?
Ecco, io ho la mia risposta personale: le mappe.
Solitamente accessibili tramite un menu a scomparsa facilmente attivabile, le mappe devono guidarci da punto A a punto B permettendoci un giusto orientamento all’interno del gioco e delle sue sezioni, a “leggere” il videogioco dandoci delle coordinate per proseguire l’avventura.
Da giocatore mi sento attratto dalle mappe in maniera incredibile: per me perdermi fra i dettagli al neon di Vice City, tra le foreste verdeggianti di Tamriel o tra le ambientazioni westerneggianti di Red Dead Redemption è sempre stata una gioia.
Al contempo, però, per me le mappe diventano spesso pesi, “chiavi” necessarie a orientarsi all’interno di un livello un livello, cose da tenere costantemente sotto controllo per paura di perdermi e non raggiungere un obiettivo: mi sembra quasi di parlare di una zavorra. Fra amore e odio, eppure, a prevalere oggi è proprio il primo sentimento, lo stesso che mi porta a scrivere riflessioni e ragionamenti come un gamer che in mappe e cartine vede dei veri e propri feticci.
L’idea per quest’articolo è nata, ovviamente, da un’esperienza ludica.
Durante il corso delle scorse settimane ho finito per la seconda volta Uncharted 4: Fine di un Ladro e per la prima volta Uncharted: L’Eredità Perduta.
Sono due giochi che hanno un legame molto speciale con le mappe, vuoi perché sono la massima espressione del tema avventura all’interno di un videogioco (e “mappa” è sempre sinonimo di “avventura”, in qualche modo), vuoi perché entrambi presentano dei bellissimi livelli semi-open world in cui siamo chiamati a dover esplorare liberamente un’area armandoci di fuoristrada, cartina senza indicatori e senso dell’orientamento.
Due livelli tutto sommato in linea con altri giochi esplorativi ma che più di altri riescono a meravigliare il giocatore per il senso di scoperta che riescono a trasmettere. Del resto, viaggiare di rovina in rovina fra lande selvagge è un’esperienza coinvolgente e accattivante, che nel mio caso ha fatto risorgere tutto l’amore sopito per le mappe, le cartine, l’esplorazione di un mondo con il solo occhio.
Un’operazione che, soprattutto all’interno di attività con elementi creativi come la lettura e il gioco, riesce a dare tantissimo in termini di “esperienza” e d’immaginazione. Leggendo la mappa di luoghi che non abbiamo ancora visto, siamo portati naturalmente a chiederci come sarà il ponte XY che vedo su quel fiume, o cosa mi troverò davanti arrivato alla vasta pianura che si apre ai piedi delle montagne. Le mappe, in fondo, sono sempre stati strumenti potenti anche dal punto di vista “editoriale” e di “impatto creativo”, fin dall’Età Antica, quando la mappa diventava un modo non solo per descrivere il mondo ma anche per dargli un significato politico e ideologico, un esercizio in cui anche creatività e immaginazione la fanno da padroni.
Nella letteratura fantastica, ma soprattutto nel gioco e nel videogioco questa “manipolazione creativa” della geografia ha una serie di sfaccettature tutte da esplorare, che partono dalla già citata funzione di “aiuto all’esplorazione” a quella di “incentivo alla scoperta” (gioco a The Witcher 3 -> vedo un luogo sulla mappa -> mi nasce la curiosità -> vado).
E non è un caso che già nel campo del gioco di società, la mappa è un elemento essenziale: spessissimo i tabelloni dei giochi da tavolo sono costituiti da mappe che possono essere “modificate” dalle azioni dei giocatori, mentre i giochi di ruolo e in misura minore i librogame mettono a disposizione carte geografiche per dare ai giocatori nuovi spunti d’avventura.
Uno strumento, insomma, in grado di scatenare la nostra voglia di gioco, in un modo o nell’altro.
Alla luce di quanto scritto sopra, appare chiaro come la mappa sia uno dei possibili architrave del videogioco inteso come mezzo di comunicazioni, complice anche la sua trasversalità e la sua presenza in giochi appartenenti a generi diversissimi tra loro.
Possiamo infatti trovare mappe davvero in tantissime tipologie di titoli: dai miei cari action-adventure ai giochi di ruolo alla giapponese fino ad arrivare a generi che solitamente non ne hanno bisogno, per esempio i racing games o i giochi di calcio (nei quli la mappa serve proprio a dare conto della posizione dei vari giocatori sul campo e, pertanto, ha una posizione centrale nella schermata).
Insomma, dato che il gioco digitale è spesso “movimento nello spazio”, l’orientamento diventa una necessità cruciale; anzi, lo è diventato specie con l’affermazione della terza dimensione. Non è un caso che l’inserimento della mappa in-game si possa rintracciare fin dagli anni ‘70 (ricordiamo “Adventure”, avventura testuale del 1976), per poi essere implementate con sempre maggior convinzione negli anni successivi all’interno di titoli come Pac-Man o Donkey Kong e aver colonizzato praticamente ogni categoria di gioco.
Durante il corso della sua crescita nel medium la mappa è maturata sia stilisticamente sia formalmente, passando dall’essere una pura planimetria di una casa infestata (Resident Evil) all’essere una rappresentazione di un mondo intero (la Hyrule di Breath of the Wild). Nel fare questo le mappe sono diventate più precise, più esplorabili, più spezzettabili e ricomponibili: parte del merito lo si deve ai segnalini che il giocatore può posizionare in giro: un’innovazione introdotta almeno a inizio anni 2000 con GTA III (sempre che la memoria non ci venga meno).
Si tratta di processi evolutivi che sono sì tecnologici e mettono in risalto il come il videogioco si sia sviluppato, ma che ancor di più testimoniano quanto lo spazio, in questo medium, abbia costituito anche una delle possibili chiavi sui quali fondare nuovi tipi di gameplay: è il caso dell’open world, per esempio.
Sembra un circolo virtuoso: giochi sempre più ambiziosi creano mappe sempre più grandi, e poco a poco queste diventano la premessa per tipi di giochi sempre più complessi, complice l’introduzione di meccaniche sempre più aggiornate. Queste scintille tra le altre cose portano alla nascita di nuovi generi che aumentano le possibilità per il giocatore, e così via.
La domanda, a questo punto, nasce spontanea: questa capacità e “fame” di esplorazione ha effetti sul modo in cui poi il giocatore “legge” lo spazio e ricorre alle mappe?
Paradossalmente, per quanto oggi i nostri spostamenti “importanti” passino attraverso mezzi che non dobbiamo governare in autonomia (degli esempi possono essere treni, aerei o navi), il nostro rapporto con le mappe nella vita di tutti i giorni non si è arrestato. Anzi, esso è diventato forse molto più presente e concreto complice la presenza nel quotidiano di GPS o app per l’orientamento.
A quanto pare i videogiochi non solo hanno giovato dell’inserimento di queste tecnologie e ne hanno tratto spunti di sviluppo ma, in qualche maniera, sono stati anche occasioni per insegnare alle masse di giocatori come leggere una mappa. A dirlo non siamo noi, ma questo splendido articolo intitolato Inside the intricate world of video game cartography (che trovate qui), una lunga analisi realizzata dal Canadian Geographic Magazine nel 2018 a supporto di Assassin’s Creed: Odissey (sviluppato non a caso da Ubisoft Quebec), ricco di ottimi spunti su come cartografia e videogioco si siano in qualche modo alimentati a vicenda fin dagli albori del nostro medium preferito.
Se siete fan della saga degli Assassini troverete tantissime notizie interessanti sul metodo e sullo “spirito” con cui Ubisoft Quebec ha approcciato la ricostruzione della Grecia antica in digitale, un’opera che è stata in qualche modo resa ancora più “nobile” dall’esistenza di un vero e proprio “virtual tour” della Grecia antica introdotto con i vari DLC successivi al rilascio del gioco.
Quel però interessa davvero dell’articolo della Canadian Geographic è altro: che di fatto, le mappe dei videogiochi ci aiutano a sviluppare un senso di lettura della geografia del territorio nel giocatore, che esplorando un mondo digitale e dovendo leggere costantemente mappe per farlo viene portato a “ricordare” come leggere una mappa. È quanto spiegato da Simon Dor, docente di studi sui videogiochi dell’Université du Québec en Abitibi-Témiscamingue, che afferma:
“Le mappe realizzate per i videogiochi non sono uguali a quelle della vita reale. Ma probabilmente userete le stesse abilità nel leggerle”
e che
“Bisogna saper leggere una mappa per capire meglio uno spazio. Alcuni videogiochi si basano molto sulle mappe e bisogna saperle leggere per giocare. Questo può essere applicato alla vita reale”.
Quindi le mappe dei videogiochi hanno una inconsapevole funzione “formativa”?
A vederla da questo punto di vista esse allenano senza dubbio il giocatore come persona a capire cosa sia un punto si riferimento, a orientare una propria mappa istintiva e a costruire una nostra capacità di lettura.
Un processo che è favorito anche dal fatto che negli ultimi anni gli sviluppatori di videogiochi hanno utilizzato sempre più le tecnologie come quelle di Bing Maps (vero, Microsoft Flight Simulator?) per sviluppare le proprie mappe, un fatto che ha senza dubbio influenzato il loro approccio alla cartografia e in questo modo “avvicinato” il giocatore/la persona alle mappe, anche quelle della vita di tutti i giorni.
Parlavamo, poco più su, di manipolazione delle mappe, di come l’introduzione di segnalini e altre opzioni per fare in modo che il giocatore possa impostare un suo itinerario personale e sviluppare una propria esplorazione del mondo di gioco sia stato uno degli elementi di profondo sviluppo di questa componente ludica. Questo perché ha permesso poi al giocatore medio di navigare in maniera più consapevole all’interno dei mondi virtuali, così da vivere la propria avventura in maniera più matura.
Una pratica, anche questa, che parte da lontano, forse addirittura in età “predigitale” con giochi come Sid Meier’s Pirates!, che davano al giocatore anche mappe cartacee da utilizzare per segnare luoghi e itinerari da seguire poi “in-game” (ma sfido chiunque a dire di non aver mai giocato di titolo Rockstar senza avere di fronte la mappa contenuta nella scatola di gioco).
In realtà però, la mappa esplorabile ha fatto molto di più che dare la possibilità ai giocatori di impostare un loro itinerario, in particolare col già accennato avvento dell’open-world.
Il punto, quando parliamo di questo argomento, è infatti molto sottile: dando al giocatore la possibilità di esplorare mappe sempre più grandi e variegate, e di farlo potendo quasi sempre sviluppare una propria strategia di viaggio mettendo “pausa” e consultando la propria cartina digitale, il videogioco moderno ha creato un processo per il quale davvero nessuna partita a giochi come Red Dead Redemption o The Witcher 3:Wild Hunt risulta davvero uguale alle altre, perché nessun “viaggio virtuale” può esserlo.
Quante volte vi siete persi nell’esplorazione degli angoli delle mappe più lontani dalle main quest, in cerca di informazioni su questa o quell’area che vi incuriosiva? Di quel castello abbandonato intravisto a bordo cartina, o di un villaggio di peones in riva al mare?
Di fatto il viaggio, l’esplorazione, il voler “riempire spazi” all’interno delle nostre mappe ha reso le nostre partite sempre più “personali” e indimenticabili, facendo sì che il nostro peregrinare si trasformasse in un modo per guardarsi attorno, trovare nuovi segreti, persino fantasticare su questo o quel dettaglio comparso su schermo durante il cammino. Il giocatore sa che per concludere il gioco dovrà andare avanti con la main quest o raggiungere l’obiettivo intermedio XY, ma mai come in questo caso ciò che conta è sempre “come” si arriva a quella meta, le esperienze che facciamo durante il cammino, la scelta delle tappe e delle sfide da affrontare.
Ho scelto di terminare questa riflessione con una frase dell’autore di uno dei capolavori della letteratura d’avventura, ovvero L’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson.
A mio parere non poteva esserci modo migliore per concludere un lungo viaggio, ricco di elementi, di incontri, di riflessioni anche abbastanza varie su uno strumento di gioco il cui ruolo, pur così “scontato”, è in realtà molto potente.
Arrivato al termine, la domanda che mi faccio è se il gioco digitale sarebbe lo stesso se per qualche folle ragione la storia del medium si fosse sviluppata in modo da non includere la mappa come “strumento” in mano al giocatore, e se il ruolo centrale dell’esplorazione all’interno del videogioco moderno sarebbe stato lo stesso.
Del resto, parliamo di quella che in un certo senso è una sorta di “chiave” per orientarci in un mezzo di comunicazione fortemente interattivo, nel quale l’utente finale può decidere il metodo di fruizione in più di un aspetto.
Senza dubbio, sarebbe un videogioco più ostico (il che forse per qualcuno non sarebbe neanche un problema), ma, probabilmente, anche più “povero”: se infatti è complesso ipotizzare se e come le mappe si svilupperanno nei giochi a venire, tenendo presente che si tratta di un elemento per sua natura “statico” e tendenzialmente non soggetto a chissà quale stravolgimento, molto più facile è invece guardarci indietro e riconoscere quanto perderci fra i dettagli di una mappa sia capace di spingerci a prendere in mano il pad e lanciarci in gioco.
This post was published on 13 Gennaio 2023 12:30
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