Correva l’anno 2005, su PlayStation 2 usciva God of War, il primo originale videogioco con protagonista il fantasma di Sparta, Kratos. Ne è passata di acqua sotto i ponti. Diciassette anni sono davvero tanti nell’industria dei videogiochi che nel frattempo è mutata, ha cercato nuove strade, altre le ha riprese e declinate in modo diverso, insomma, in diciassette anni i videogiochi sono cambiati tanto e l’esempio lampante ce lo fornisce proprio God of War e gli eventi più recenti. E no, non c’entra il suo combat system completamente stravolto, non c’entrano gli elementi ruolistici aggiunti all’esperienza.
Correva l’anno 2005, eravamo felici di fare a fettine orde di nemici schiacciando forsennatamente un singolo tasto, la storia era intrigante, la storia di un omone che sfida gli Dei della mitologia ellenica per vendicarsi di ciò che lui stesso ha in realtà compiuto. L’uccisione delle due persone a lui più care, spinto dalla brama di vittoria in un’epoca in cui la guerra era tutto, aizzato dalla furia che è cresciuta dentro di lui dopo aver invocato l’aiuto del dio della guerra, Ares. Una premessa affascinante sviluppata in modo interessante, ma alzi la mano chi credeva che un giorno un capitolo di God of War avrebbe vinto il premio per la miglior narrativa.
È successo ai Game Awards di quest’anno, Elden Ring vince il GOTY, God of War: Ragnarok fa incetta di premi, tra cui quello per la ‘best narrative’. Potrebbe non sorprendere i giocatori moderni, coloro che hanno iniziato a vivere le avventure di Kratos solo dal 2018, e invece la sua vittoria proprio in quella categoria deve spingerci a una riflessione che riguarda i profondi cambiamenti dell’industria dei videogiochi e soprattutto il modo in cui vengono visti dal pubblico.
Correva l’anno 2018, il primo capitolo del nuovo corso di God of War veniva candidato ai Game Awards per la miglior narrativa. E la categoria era così composta:
Vinse Red Dead Redemption 2, ma ciò che va sottolineato è che God of War concorreva per la miglior narrativa insieme a Detroit Become Human e Life Is Strange 2, due videogiochi prettamente narrativi, in cui il gameplay era solo un pretesto per raccontare una storia, come da tradizione per i titoli di Quantic Dream e Dontnod (ora Don’t Nod).
2022, il seguito di quel God of War non viene solo candidato, ma vince. Non è tutto. L’attore che interpreta Kratos, Christopher Judge, viene premiato per la ‘best performance’. È stata un’escalation che ha portato un gioco riconosciuto in modo unanime come un titolo improntato specificamente su un gameplay brutale e, per taluni, tamarro e senza fronzoli, a competere e trionfare per la sua storia. Non è un evento banale, Ragnarok rappresenta un vero e proprio punto di svolta da questo punto di vista perché certifica che i videogiochi sono cambiati radicalmente adottando soluzioni più vicine alle altre espressioni artistiche anche in titoli che sono nati sotto tutta un’altra prospettiva e direzione creativa.
Con ciò non si vuole affermare che i videogiochi narrativi non esistessero anche prima. E possiamo andare indietro di tante generazioni per trovare facilmente opere che presentavano una narrativa importante, se non addirittura predominante e alla base dell’esperienza. Nel 1986 uscì The Legend of Zelda, su PS1 avevamo Final Fantasy VII, Metal Gear Solid, Silent Hill, nello stesso anno in cui fu rilasciato God of War per PS2 uscirono anche Shadow of the Colossus e Kingdom Hearts II. Insomma, non eravamo poveri di giochi con una bella storia. Quei titoli, però, nacquero in quel modo, con una direzione creativa ben precisa che puntava a creare un matrimonio perfetto tra gameplay e narrativa.
God of War non ebbe la stessa gestazione, i suoi intenti erano palesemente incentrati sull’offrire al giocatore una bel contesto scenico e artistico (per l’epoca aveva una grafica da paura), un gameplay immediato e una storia che, perlomeno, giustificasse ciò che accedeva su schermo. Un esempio che può sembrare banale, ma in realtà abbastanza dimostrativo della situazione, sta nei QTE che, come abbiamo descritto nell’articolo dedicato alle meccaniche che hanno rivoluzionato il medium, sono stati introdotti in modo massiccio proprio nel titolo di Santa Monica Studio. In GoW, i QTE venivano utilizzati perlopiù durante le boss fight, avevano dunque un riscontro ludico, invece oggi questa meccanica è segno che ci troviamo di fronte a un’avventura narrativa.
Le avventure di Kratos, pertanto, hanno subito una trasformazione che dimostrano il cambio di direzione dell’industria, soprattutto di quella che si occupa dei giochi AAA. Infatti, la struttura alla base delle opere come Ragnarok, Horizon, The Last of Us, viene definita spesso “modello Sony”. Questa terminologia, tuttavia, viene utilizzata abbastanza frequentemente a mo’ di sfottò, per evidenziare come nei videogiochi AAA non si giochi, ma si guardi un bel film e che ormai, se si vuole davvero giocare bisogna guardare agli indie. Tutto ciò è un insieme di sciocchezze. La riflessione che va fatta a seguito della vittoria di GoW: Ragnarok per la miglior narrativa verte proprio su questo: come può passare per distruttivo questo modo di concepire il videogioco? È proprio il contrario, è grazie alla maturità narrativa che il medium è cresciuto.
Una trama di spessore non svilisce il gameplay, anzi, lo esalta e riesce addirittura a migliorare il prodotto finale laddove l’offerta ludica non è nulla di che. Tanto si parla di industria indie che invece glorificherebbe il gameplay, quando in realtà la narrativa che “annienta” la giocabilità arriva proprio da lì. Il fenomeno dei walking simulator ve lo ricordate? In quei giochi non esiste il gameplay. E chi li produce? L’industria indie che può sperimentare e rischiare (fino a un certo punto), perché appena ci prova un AAA a fare qualcosa di lontanamente simile (Death Stranding), il pubblico, lo stesso che osanna gli indie, lo distrugge.
I walking sim sono solo l’esempio più riconoscibile, ma basti pensare a giochi come Somerville e al “filone” a cui appartiene, cioè di avventure a scorrimento in 2.5D con elementi puzzle e platform, in cui la narrativa, spesso volutamente criptica, è palesemente predominante. Non ci sono solo i rogue-like alla Hades e i metroidvania alla Hollow Knight. E lo stesso avviene con i giochi AAA. Un maggior numero di opere che finalmente danno un grosso peso alla narrativa non toglie nulla a chi cerca un solido gameplay.
Come possiamo solo pensare poi che titoli come Ragnarok, Horizon: Forbidden West e TLOU non abbiano il gameplay? Solo chi si è fermato ai cinematic trailer può crederlo. La giocabilità è altissima sia qualitativamente sia per l’oggettivo numero di cose da fare, di meccaniche che compongono l’offerta ludica di opere che vengono tacciate di essere narrative, parola a cui viene data un’accezione negativa. Ma mettiamo caso che sia effettivamente così. Che non abbiano un gameplay. Il mondo dei videogiochi finisce qui? Chi cerca un gameplay ancora più solido e surclassante ha comunque l’imbarazzo della scelta.
From Software che ci sta a fare? Returnal non mi sembra proprio un gioco che segue il “modello Sony”, eppure l’esclusiva sviluppata da Housemarque ha anche una bella storia. Volete giocare a Doom Eternal? Fatelo. E no, non preoccupatevi, non pensiamo che Doom potrà diventare un titolo narrativo con il protagonista intento a riflettere sugli errori della sua vita passata. Anche Final Fantasy XVI adesso “sembra Devil May Cry”, ma non va comunque bene per i puristi. Il gameplay va bene solo quando lo decidono certuni bravi solo a lamentarsi.
God of War è cambiato? Sì, e per questo ha ricevuto un giusto riconoscimento. I videogiochi sono cambiati, si sono evoluti, ed è un bene, non riuscire a vederlo è una grave mancanza di rispetto non solo verso il medium, ma anche verso se stessi. I giocatori non sono solo schiacciatori di tasti, possono anche emozionarsi con una bella storia.
Leggi anche: Resident Evil e The Last of Us: due modi differenti di raccontare un’infezione.
This post was published on 10 Dicembre 2022 13:11
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