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Speciali

5 videogiochi per 5 prospettive diverse sui loop temporali

Ho quasi trent’anni e dalla mia tarda adolescenza in poi una delle cose che ho visto accadere più spesso all’interno della narrativa in cui mi sono imbattuto, fosse essa di carattere filmico, videoludico o semplicemente letterario (meglio dire fumettaro nel mio illetterato caso) prevedeva un concetto reiterato ancora (ed ancora, per rimanere in tema): il loop temporale.

Loop temporali di qua e di là possono servire come mezzi narrativi per raccontare grandi storie, di quelle che travalicano i limiti umani per cercare di mettere sul campo valori e sentimenti altrimenti di difficile comprensione per una persona singola.

C’è da dire che il loro fascino è indiscusso: il loop temporale è un concetto che può essere tracciato a ritroso di decenni e secoli all’interno dello scibile umano, avendo sparso il suo DNA nel teatro e nelle opere più disparate.

Oggi però andiamo a conoscere più da vicino dei videogiochi che vedono i loop temporali come un elemento da sfruttare per la buona riuscita dell’opera. Nel fare questo discorso cercheremo di trattare i loop temporali in maniera generica, magari evitando di considerarli meccaniche di gameplay utili a qualcosa.

L’unico parametro di cui voglio tener conto all’interno di questo articolo è il seguente: si, non ho messo ne Deathloop, ne 12 minutes, ne Returnal non perché io li reputi pessimi, inferiori o inutili ma perché credo sia stato già detto molto (come spesso accade per i “giochi chiacchierati moderni” e perché, tutto sommato, avevo voglia di parlare di altre cose.

Cominciamo subito.

Tesori indu e JRPG

Cominciamo da lontano, anzi, da molto lontano: 1996, Super Nintendo Entertainment System (SNES), Squaresoft.

Prima di litigare pesantemente con Nintendo e di passare a Sony, prima di dare i natali a Final Fantasy VII, mentre il team di sviluppo principale guidato da Hironobu Sakaguchi lavoricchiava con il development kit del N64 per la demo tridimensionale di Final Fantasy VI, un team secondario tirò fuori un videogioco non particolarmente conosciuto: Rudra No Hihou o Treasure of the Rudras.

Allo sviluppo troviamo un manipolo agguerrito di ragazzi e signorotti con gli occhi a mandorla noti per essersi fatti le ossa sugli spin off e sui capitoli secondari di un genere che per quel momento va per la maggiore: dai Romancing Saga ai Final Fantasy Legend, sviluppatori come Jouza Ide o artisti come Keita Amemiya uniscono idee e competenze per realizzare un ultima grande opera per la console che aveva dato tanto alla compagnia.

Treasure Of The Rudras, giocabile al giorno d’oggi soltanto attraverso emulatori e patch fantranslate (a meno di non avere una buona conoscenza del giapponese) è un JRPG abbastanza interessante, con uno dei sistemi magici più matti in circolazione. 

Invece di utilizzare un classico sistema di magie predeterminate, il gioco implementa un sistema di sillabe, radici e desinenze non distantissimo da certe intuizioni della saga di Ultima di Richard Garriot, permettendo al giocatore di creare dei veri e propri mantra. Ad ogni mantra corrisponde una magia e la natura di questa magia dipende dagli elementi linguistici che si inseriscono al loro interno.

Un idea senza dubbio bislacca ma che, comunque, lascia spazio ad un altro e interessante protagonista: il comparto narrativo. Vi ricordate di quando parlavamo di loop temporali? Ecco, Rudra No Hihou ne propone uno basilare ma interessante, forse il primo in assoluto ispirato al mondo della religione all’interno dell’involucro di un gioco di ruolo di stampo nipponico.

La narrativa del gioco, come poi diventerà sostanzialmente prassi per la produzione principale della compagnia, prende in prestito situazioni, nomi e temi legati alle religioni più variegate; in questo caso la religione su cui si appoggiano diversi elementi narrativi è quella dell’induismo.

In Treasure of the Rudras la razza dominante del pianeta si estingue ciclicamente ogni 4000 anni, soltanto per venir poi ricreata e potenziata dalla figura del “Rudra”. Il processo di distruzione del mondo è progressivo e al giocatore viene lasciata la possibilità di vivere gli ultimi quindici giorni di vita del pianeta, quando già alcune razze sono scomparse dagli ecosistemi.

Senza poi impelagarci in spoiler più grandi di noi (anche perché la narrativa è piuttosto interessante, nonostante sia sempre follia proto adolescenziale a là JRPG) TOTR riesce nel portare sul campo una narrativa in grado di aggiungere un pizzico di novità attraverso una felice intuizione. Pur nell’assenza di interazioni dirette tra il loop temporale ed il giocatore, TOTR riesce nel presentare il tema da una prospettiva lontana, di

Il loop temporale, quindi, viene visto da una prospettiva distante ed utilizzato giusto come ispirazione per definire una scenografia dove avvengono le vicende dei nostri eroi. 

Tredicesima fantasia tre

Rimaniamo sempre in casa Square Enix per prendere in esame un videogioco in qualche modo ispirato dallo stesso Treasure Of The Rudras di cui sopra. Lightning Returns: Final Fantasy XIII è il terzo capitolo del capitolo della saga più sfortunato e meno apprezzato tra tutti ed è, rullo di tamburi, un videogioco che in qualche modo prevede la presenza di un loop temporale.

Nei venti anni che separano i due titoli d’innovazioni ce ne sono state tante, specie all’interno del genere dei JRPG ma Lightning Returns sembra non volersene occupare. La prospettiva con il quale Square Enix tratta il concetto di loop temporale non è molto distante da quanto ha fatto con TOTR, dando al giocatore giusto qualche occasione in più per interagire con esso.

Queste interazioni vengono giustificate dalla narrativa, che mai come in questo caso cercano di dare lustro al personaggio di Lightning Farron; un main character maledetto come non mai a non riuscire mai ad ottenere il carisma che gli sviluppatori avevano desiderato per esso.

Lightning Returns: Final Fantasy XIII, infatti, nasce all’interno di un contesto molto particolare, lo stesso di una Square Enix alle prese con crisi produttive a destra e manca. Negli stessi anni Final Fantasy XV era ancora chiamato Final Fantasy Versus XIII e Final Fantasy XIV era in piena fase di ricostruzione dopo il disastro avvenuto con la release 1.0 dell’esperienza. 

Fortunatamente nel suo essere la pecora nera della saga LR:FF13 prova almeno a mettere sul piatto un’impianto narrativo e scenografico interessante, usando il loop temporale come elemento conclusivo di una storia che doveva chiudere una volta per tutte il ciclo di Cocoon e Pulse

Lightning Returns parla chiaro fin da subito: al mondo mancano quindici giorni di vita (ancora?!) e sta al giocatore nei panni di Lightning Farron rendere l’apocalisse quanto più indolore possibile. Se questo non ci dovesse riuscire c’è poco di cui preoccuparsi: c’è un deus ex machina a qualche piano d’esistenza pronto a farci ricominciare dove tutto è iniziato ancora una volta, fino al raggiungimento del nostro obbiettivo.

La storia parte da questo interessante presupposto per cercare di portare il personaggio di Lightning in luoghi mentali inesplorati in precedenza, complice anche un grande numero di nuove ambientazioni e nuovi mostri da affrontare. Nel farlo, però, gli sviluppatori fanno una scelta abbastanza tragica ovvero quello di riutilizzare lo sfortunatissimo cast di personaggi di Final Fantasy XIII e XIII-2, ottenendo così un’effetto posticcio o addirittura fastidioso per chi non ha giocato il titolo.

Il loop che sembra essere l’idea vincente del caso, purtroppo, non viene utilizzato in maniera approfondita. Rispetto al passato il giocatore si trova a vivere il loop in condizioni particolari ma finisce lì, non ci sono maniere esplicite per poter ripetere e sfruttare questi quindici giorni senza metterci in mezzo un NG+ o un Game Over. La situazione viene peggiorata (o resa di per sé unica) dalla scelta di Square Enix di rendere le quest secondarie completabili soltanto entro determinati orari, in maniera non dissimile da quanto fatto negli anni precedenti da Capcom con il suo Dead Rising.

Che maschera ci mettiamo?

Se parliamo di loop temporali e di videogiochi non possiamo fare a meno di citare forse il titolo più famoso sul tema: The Legend Of Zelda: Majora’s Mask.
Il seguito di Ocarina of Time, forse il più titolato videogioco della storia del medium, è il primo grande esempio di videogioco che include il loop temporale come elemento attivo del suo gameplay, costringendo il giocatore a vivere ancora e ancora una situazione cangiante per poter proseguire all’interno della storia.

Come ha fatto quella che all’epoca era l’azienda leader del settore a rilasciare, come seguito di uno dei suoi giochi più importanti di sempre, un titolo imperniato sul concetto di loop temporale?

Ecco: il come lo si può capire avendo ben presenti due presupposti:

  • Necessità: Nintendo aveva la necessità di portare sul mercato il seguito di The Legend Of Zelda in maniera piuttosto celere. Questo punto di partenza ha permesso ad Eiji Aonuma, stavolta a capo del progetto al posto di Miyamoto (che invece si preoccupava più di supervisionare e di dire l’ultima parola), di lavorare più sulla profondità del titolo che sulla sua ampiezza.
  • Serendipità: uno dei collaboratori che Aonuma decise di portare dentro al progetto, Yoshiaki Koizumi (si, lo stesso che presenta la maggioranza dei Nintendo Direct), stava sviluppando internamente a Nintendo un gioco da tavolo in cui il fulcro dell’esperienza era legato dall’ottimizzare ancora ed ancora una serie piuttosto semplice di azioni. Sembra che tale gioco, almeno secondo le interviste raccolte da Polygon all’interno di questo articolo, sia stato ispirato dal film tedesco Run Lola Run, altro perfetto esempio di opera multimediale con loop temporali al centro dell’esperienza.

Si, lo sappiamo che sembra assurdo pensare a Majora’s Mask come figlio di queste due condizioni ma tant’è. Inutile provare a riassumere l’impatto devastante che un’opera così seminale ha avuto all’interno del mercato dei videogiochi, specie perché il titolo riesce per la prima volta a portare al grande pubblico una meccanica come quella del loop temporale in maniera efficiente. Gli action adventure in terza persona, genere fresco di nascita della grafica 3D, stava ancora muovendo i suoi primi passi e già aveva offerto prospettive super interessanti su ciò che si poteva e non poteva fare.

Majora’s Mask invece di utilizzare il loop temporale come espediente narrativo lo trasforma in un compagno di giochi, offrendo una prospettiva fresca ed emozionante sul tema. Questa interattività tra il giocatore e il viaggio nel tempo dando un ritmo da seguire in termini di azioni da fare e tempistiche da rispettare.

La prospettiva giocosa è enfatizzata ancor di più dalla felice scelta di Aonuma di gestire il level design intorno al dover rivivere più e più volte lo stresso tris di giorni. Questo significa che al giocatore viene lasciata la possibilità di sbloccare scorciatoie e strade secondarie che gli permetteranno di risparmiare tempo nelle successive iterazioni del loop, dando più spazio di manovra mantenendo intatto, nel mentre, il grosso dei contenuti.

Link, quindi, è la scheggia impazzita all’interno di un macchinario da ottimizzare: se gli NPC ed i dungeon sono gli ingranaggi di questa città, Termina, giunta alla fine del mondo, Link è l’unico elemento in grado di modellare a suo piacere il funzionamento di questa incredible machine.

Nello spazio nessuno può sentirti piangere per la tristezza

Ecco, è tempo di svelare gli altarini.
A dover ridurre tutto l’articolo ad un singolo titolo, mi dispiace, ma non potrei far altro che cercare di consigliare a chiunque l’acquisto di Outer Wilds; per 22 minuti scarsi eh, per poi finire vittima anche io di un loop finendo per ricominciare da capo la scrittura di questo pezzo.

Il perché è facile: a detta di chi scrive Outer Wilds è un vero e proprio classico moderno ed è un videogioco che prende l’idea alla base di Majora’s Mask e la raffina di molto, rendendola più moderna, più affascinante e semplicemente più grande.

Le dimensioni, nello specifico, permettono di capire il respiro dell’opera: se da una parte abbiamo Termina ed i suoi dintorni, in Outer Wilds abbiamo un intero sistema stellare da esplorare, pur se contenuto all’interno di una ventina di chilometri cubici di spazio. Tra anomalie, mostri astrofisici e piccoli corsi di fisica quantistica, Outer Wilds offre un parco giochi terribilmente crudele con il giocatore che, senza dubbio, si troverà a morire ancora ed ancora alla ricerca di un pizzico di conoscenza in più.

22 sono i minuti che Outer Wilds concede al giocatore per esplorare i suoi meccanismi ed i suoi ingranaggi, raffinati a tal punto da far sembrare il titolo un meraviglioso orologio a cucù. All’interno di questo diorama in perenne movimento il giocatore ha illimitate possibilità esplorative, limitate giusto dall’elemento conoscitivo. L’unico parametro che davvero è in grado di fare la differenza tra un loop andato bene ed uno andato male è la capacità del giocatore di ottenere qualche dato in più su cui ragionare.

Dalla descrizione realizzata fino a questo momento sembrerebbe che Outer Wilds sia un gioco ispirato da Majora’s Mask, che ha costruito tutto il suo animo ed il suo cuore sul concetto di loop temporale sviluppando le sue meccaniche intorno ad esso: niente di più sbagliato.

Basta guardare lo splendido documentario realizzato da NoClip sul tema per capire che il loop temporale lì in mezzo è soltanto un modo per giustificare il cuore pulsante del gioco. Outer Wilds è un videogioco sui sistemi complessi e su come questi sistemi si interfacciano tra loro all’interno di partite della durata massima di 22 minuti.

In Outer Wilds il giocatore è vittima di un loop e non ha modo d’interagire con esso (se non in alcune sparute occasioni ma più per una questione narrativa che altro). Il riavvio manuale del ciclo temporale che in Majora’s Mask era questione di serenate in Ocarina qui non esiste: qui esiste il suicidio, esiste il soffocarsi nello spazio per mancanza di ossigeno o lo schiantarsi un po’ troppo rapidamente su un corpo celeste più inospitale di quello che poteva sembrare.

Il loop narrativo è quindi visto da una prospettiva prevalentemente narrativa come giustificazione per il ripetersi delle azioni del giocatore; fortunatamente le giustificazioni per cui esso è inserito all’interno del worldbuilding lo rendono uno dei più frizzanti in circolazione, specie se si entra in contatto con un certo finale segreto di cui non parleremo ne qui ne altrove per evitare di spoilerarvi cose.

The Forgotten City

The Forgotten City nasce mod di Skyrim e cresce come gioco indipendente, diventando il risultato di incredibili sforzi da parte del suo creatore Nick Pearce e di uno sparuto gruppo di appassionati sviluppatori e creativi sparsi in giro per il mondo. 

Basta guardare lo splendido documentario realizzato da Noclip sul titolo per capire che il gioco in questione è nato da una rara commistione di talento, voglia di mettersi in gioco ed energia, tantissima energia.


La versione embrionale della città dimenticata nasce sul Creation Engine applicato alle mod di Skyrim, come tentativo originale del suo creatore di trasportare la sua passione per la narrazione all’interno di un’opera interattiva (non a caso la software house che ha la paternità del gioco si chiama modern storytellers).

Il loop temporale, per inciso, è stato inserito per cercare di aggiungere elementi originali alla storyline stessa e non è ispirato a Majora’s Mask quanto più a Groundhog Day. A dichiararlo è sempre lo stesso Pearce nel documentario di cui sopra, giusto prima di ammettere candidamente che sviluppare The Forgotten City è stato per lui un salto nel vuoto senza precedenti.

Ok ma cos’è questo videogioco? TFC si presenta come un avventura in prima persona ambientata all’interno di una città non dissimile dall’antica Roma, maledetta a tal punto da vedere tutti i suoi abitanti morire se chiunque di essi finisce per compiere un peccato.

Sta al giocatore, di loop in loop, capire come questa maledizione si sia abbattuta sull’abitato, capendo nel mentre chi è che da inizio all’apocalisse. Nel mezzo c’è tantissima narrativa, tantissimi personaggi ed una pletora infinita di discorsi da fare. Questi, chiaramente, si possono ripetere infinite volte con consapevolezza maggiore grazie al protagonista di questo articolo.

Di tutti i giochi elencati questo è quello che propone la prospettiva più interessante del concetto di loop, dando ad esso un aspetto centrale per l’esperienza finale. Esso è uno strumento narrativo disponibile in qualsiasi momento per il giocatore ed è accompagnato da diverse scelte in termini di game design per innestarsi perfettamente all’interno di un videogioco dalla forte componente narrativa.

Stanco di ripetere le solite azioni per modificare l’andazzo di uno specifica quest? È possibile delegare tali azioni ad un NPC apposito; stanco di aspettare il termine del loop per poter eseguire determinate azioni? È possibile ricominciare a proprio piacimento il loop dirigendosi presso un luogo specifico, senza malus di alcun tipo.

Il bagaglio di conoscenze che il giocatore si porta dietro, tra le altre cose, è perfetto per far uscire fuori un anima giocosa dalla struttura così vicina a quella del librogame. I dialoghi tengono conto di tutto il bagaglio di esperienze del giocatore e pertanto si possono terminare anche in maniere inaspettate, anticipando le risposte degli NPC ottenendo reazioni bizzarre d’altra parte.

Una scelta che può sembrare antitetica con il cuore del gioco ma che rappresenta uno strumento ludico perfetto per smorzare la pesantezza dei temi trattati: dopotutto parliamo sempre di un mondo dove esiste una punizione collettiva mortale per il più piccolo peccato.

This post was published on 30 Novembre 2022 17:30

Graziano Salini

Perennemente alla ricerca di legami tra argomenti distanti tra loro, con una certa predilezione per musica e videogiochi. Faccio il possibile per fare in modo che ci siano meno errori di concetto possibili sugli articoli di Player.it, grande fan degli errori grammaticali invece, quelli fanno sempre ridere. Quando non sto amministrando questo sito lavoro mi occupo di spiegare cose difficili in maniere semplici su altri siti, su tematiche molto meno allegre dei videogiochi.

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