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Speciali

Giocare a Elden Ring è come avere un’afta in bocca | #SaveAGame

Di tanto in tanto capita, giocando a un titolo piuttosto che a un altro, di riconoscere una certa somiglianza con lo spaventoso mondo reale: d’altronde vi sarà senz’altro capitato di riscontrare nelle meccaniche di gioco, nella trama o in alcuni personaggi, elementi che vi ricordano fortemente certi aspetti di quella spietata dimensione che è la realtà, no?

Ecco, a volte una parte del scrivere di videogiochi sta proprio nel riconoscere queste istanze in cui il virtuale contagia il reale (o viceversa) e raccontarle, costruendo un rapporto di fiducia e complicità con il lettore (un po’ come a dire – non sono completamente impazzito, non è vero?
Ditemi che anche voi vi sentite così!).

Ebbene, uno dei questi paralleli può essere tracciato tra il giocare Elden Ring – o qualsiasi altro titolo inscrivibile nella eterogenea e bistrattata categoria dei soulslike, a dire il vero – e l’avere un’afta in bocca, o ancora più banalmente un dente mancante.

Insomma, crediamo (e allo stesso tempo ci auguriamo, che il contrario sarebbe un pochetto strano) che abbiate una buona idea della sensazione a cui ci stiamo riferendo.
Un’afta, in fondo, altro non è che un piccolo taglietto in uno dei tessuti molli della bocca (come le guance, per intenderci – e pensate un po’: da rivista di videogiochi ci improvvisiamo anche rivista medica) che può essere ricondotto a una miriade di cause; mentre se siete semplicemente abbastanza vecchi da leggere questo articolo, con ogni probabilità, avete già provato l’ebbrezza di perdere un dente per strada.

In altre parole, confidiamo che la sensazione di un corpo doloroso (o la mancanza di un corpo che di conseguenza provoca disagio, come nel caso del dente mancante) in bocca sia decisamente familiare. Ebbene, avrete dunque certamente notato che, nonostante il dolore/disagio, la lingua tende ossessivamente ad andare a battere proprio lì: una ricerca ossessiva, quasi irrazionale, una specie di rituale meccanico e ipnotico, con la lingua che pare inesorabilmente attratta da una sensazione che, a un’analisi squisitamente pratica, è senza ombra di dubbio spiacevole.

Insomma, un po’ come morire una decina di volte con lo stesso boss di Elden Ring senza però mai essere capaci di posare il joystick. 

Di dolore, seduzione e boss di fine livello

Esatto, avete capito bene – il salto logico non è così distante: giocare a Elden Ring è un po’ come avere un’afta in bocca. Entrambe attendono silenziose, il primo nella comoda e ordinata dimensione della libreria di Steam (o nel non sempre ordinato scaffale dei giochi per la vostra console di riferimento) l’altra poggiata su una gengiva o su una guancia; entrambi seducenti e dolorose come una relazione con quella persona che, dopo i primi appuntamenti, ha mostrato evidenti segni di squilibrio mentale (e qui, di nuovo, siamo certi che sulla rete si trovi un’ampia letteratura e produzione video che paragona giocare a un qualsiasi soulslike a una relazione amorosa abusiva, passando naturalmente per la sempre citata – e mai davvero del tutto compresa – Sindrome di Stoccolma).

Seducenti e dolorose, sì: vi ritrovate in queste parole?
Vi tornano alla mente le serate passate a imprimere il vostro fondoschiena sulla poltrona mentre cercate di buttare giù Ornstein & Smough, il Generale Radahn, Midir il Divoratore dell’Oscurità, Gael il Cavaliere Schiavo o quella idea partorita dal demonio (e da una pessima comprensione del game design – l’ho detto, sì l’ho detto!) che sono gli Audaci Gargoyle (che pure la traduzione del nome lascia a desiderare, ma sorvoliamo)?

È innegabile che il tentare, lo sbattere la testa contro meccaniche di gioco spiacevoli, contro movimenti improvvisi della telecamera che ci fanno sfidare l’autorità dei Dieci Comandamenti e contro qualche hitbox un po’ sospetta, ancora e ancora; è una declinazione dotata di un fascino tutto suo.

A Torino, vicino al Museo Egizio, c’è una scritta su di un muro che mi è sempre piaciuta che recita: “La fredda determinazione dell’uomo convinto”.
Non so chi sia l’autore, non so nemmeno se sia effettivamente una citazione: ho provato a cercare su Google, ma ho raccolto magrissimi risultati.

La scritta è esattamente come l’ho riportata io: non ci è fornito un contesto, una eventuale conclusione, un motivo. Ora, trovo che ci sia un po’ della “fredda determinazione dell’uomo convinto” nel giocare a Elden Ring (o in qualsiasi altro titolo soulslike), ma allo stesso tempo mi piace anche pensare che ci sia dell’altro: del fascino, per l’appunto, dell’ipnosi, della seduzione che, come tutte le seduzioni che si rispettano, non obbedisce per forza al concetto di razionalità.

In altre parole, il riferimento è proprio a quella pratica ossessiva che ci porta a cercare con la lingua sempre e costantemente l’afta (o ancora, il dente mancante) in questione. È il dolore che ci seduce o è l’illusoria prospettiva che, questa volta, riusciremo a vincerlo? Difficile dirlo.

Quel che sappiamo è che l’afta è lì e sappiamo che andarla a stuzzicare ci provocherà inevitabilmente una (piccola, per carità) fitta, eppure non possiamo comunque farne a meno – proprio come non possiamo fare a meno di avviare nuovamente Elden Ring dopo essere stati ridotti in poltiglia dall’attacco a cometa di Radahn.

Afte, denti e ossessione: cosa dice la letteratura?

I più parrucconi tra voi potrebbero storcere il naso al mio scomodare il termine “letteratura” per poi andare a parlare – piccolo spoiler, ma inevitabile – delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco del buon vecchio George R. R. Martin.

Penso tuttavia, e qui mi permetto di aprire una piccola parentesi, che sia ad appannaggio del pubblico decidere se un’opera scritta possa effettivamente essere considerata “opera letteraria”, esattamente come sta al pubblico decidere se un gioco è valido o meno.

In altre parole il pubblico è giudice del destino dell’opera artistica, sia questa un testo, un videogioco, un quadro, una scultura o chissà che altro; e in quanto tale deve farsi carico di questa responsabilità tutt’altro che leggera. Per il sottoscritto ASOIAF (A Song of Ice and Fire, per intenderci) non è strettamente letteratura, ma rappresenta tuttavia un esempio concreto ai fini del nostro discorso su di denti mancanti, afte in bocca e l’ossessione legata al cercarli costantemente con la lingua. 

Vogliamo un esempio? Facciamo un esempio.

Scrive Martin in Un Banchetto per i Corvi, Cersei I, edito Mondadori:

La regina si sentiva stranamente calma. Si ricordò di quando, da bambina, aveva perso il primo dente. Non aveva sentito male, il vuoto in bocca le dava una sensazione così strana che non riusciva a impedirsi di cercarlo continuamente con la lingua

E poi ancora, in Uno Scontro di Re, Daenerys V, sempre edito Mondadori (pagina 835):

Aggo la precedette e Jhogo si mise di retroguardia, mentre ser Jorah Mormont le cavalcava al fianco. Accompagnato dal tintinnio della campanella appesa alla treccia, il pensiero di Daenerys tornò nuovamente al Palazzo di Polvere, nello stesso modo insistente in cui la lingua torna allo spazio vuoto lasciato da un dente mancante.

L’espressione in questione torna poi per una terza volta secondo quel meraviglioso e provvidenziale strumento che è A Search of Ice and Fire, in Una Tempesta di Spade, Sansa V, ma per qualche motivo nella edizione in mio possesso (che come ormai avrete intuito è di fatto quella edita da Mondadori) non è stata tradotta in italiano. In inglese, tuttavia, è resa così:

Her thumb rubbed back and forth against the hole where the stone had been. She tried to stop, but her fingers were not her own. Her thumb was drawn to the hole as the tongue is drawn to a missing tooth.

Non stento a credere che, nella storia dell’arte, esistano altri esempi che impiegano un’espressione simile; ma ciò che ci interessa in questo contesto non è il collezionare tali casi (manco fossero le Pietre dell’Infinito) ma comprendere il loro significato: in tutte e tre le istanze citate c’è un evidente sottotesto ossessivo e insistente, con il personaggio principale (Cersei Lannister, Sansa Stark e Daenerys Targaryen) che rimane schiavo e allo stesso tempo “carnefice” di un’azione istintiva ma apparentemente obbligatoria. In altre parole, le nostre protagoniste non possono fare a meno di “cercare il vuoto con la lingua”.

La biplanarità del vuoto: un’analisi delle parole di Martin

Ora, eviterei di sprecare inchiostro e tempo spiegando come la dinamica, così come è spiegata e utilizzata dallo stesso Martin, faccia esattamente al caso nostro: preferirei piuttosto sottolineare come, di fatto, la gestualità del “cercare il vuoto con la lingua” (o l’afta, se preferite) giaccia su una biplanarità ben precisa e davvero particolare.

Da un lato abbiamo infatti il suo essere irresistibile, con il personaggio di turno che di fatto non riesce a opporsi a questa particolare pulsione: una particolarità che inscrive il personaggio in una dimensione di sudditanza, di “schiavitù” se vogliamo – Cersei, Sansa e Dany subiscono questa sensazione in un rapporto narrativo che potremmo dunque definire passivo.

Dall’altro è importante notare che, continuando a riempire il vuoto con la lingua, sono proprio loro tre a concretizzare questo rapporto di dipendenza, a tramutarlo da potenza a realtà: oltre a subirlo gli conferiscono continuità nel tempo, quasi fosse un rituale ipnotico, e nel farlo giocano un ruolo attivo.

Insomma, riassumendo: Cersei, Sansa e Dany subiscono il fascino della sensazione e allo stesso tempo, continuando ad andare lì con la lingua, sono coloro che le permettono di continuare a esistere – esattamente come noi continuiamo a provare a tentare di sconfiggere un boss dopo innumerevoli tentativi falliti. La lingua non può fare a meno di andare a posarsi là dove prova il dolore o il disagio, proprio come noi non riusciamo a liberarci del fascino del pensare “Questo è il tentativo buono: ora gli faccio il culo”. 

This post was published on 25 Novembre 2022 12:30

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