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Speciali

Di perdersi in città, la notte, con gli spettri: GhostWire: Tokyo

Venti ore di Ghostwire Tokyo sono quelle che sono servite per farmi capire tre cose:

  • Il Giappone di notte deve essere proprio una figata da vedere
  • Gli open world invecchiano molto più rapidamente del resto dei generi videoludici
  • Avrei tanto voluto una modalità dove poter girare per la città senza visitatori a scocciare il mio peregrinare.

Ok, fermi tutti: visitatori?
Di che stiamo parlando?

Ghostwire Tokyo è un action-horror game in prima persona sviluppato da Tango Gameworks, una software house nipponica fondata da Shinji Mikami (una delle figure più influenti della storia videoludica tutta), in cui al giocatore viene dato il compito di salvare la propria sorella e la città di Tokyo da una situazione piuttosto particolare: la completa scomparsa della popolazione a causa di una nebbia malefica.

Senza addentrarci troppo all’interno della narrativa (che non è manco sto granché), basti sapere che il gioco è ambientato a Shibuya, in pieno centro a Tokyo, e che al giocatore viene lasciata la possibilità di esplorare il tessuto urbano con la massima libertà possibile, sia in verticale che in orizzontale. Nel fare questo

Gli interni della città non sono sempre accessibili, chiaro, ma viene il gioco fa un grande sforzo nel rappresentare una versione realistica del fulcro di tanta vita all’interno di quella che è una delle città più popolose del mondo.

Quello che salta subito al cuore del giocatore, più che all’occhio, è la cura e l’amore posto nella ricostruzione di un frammento di Tokyo profondamente plausibile se non direttamente iper-realistico. Durante il corso degli ultimi dieci anni non sono mancate le riproduzioni “realistiche” della città nipponica, basti pensare a Persona 5 o ai vari capitoli della serie Yakuza ma nessuno di questi ha mai messo sul piatto un comparto tecnico potente abbastanza da permettere alla capitale del Giappone di comparire con quella potenza.

Turismo videoludico orientale per orientali arrivato anche in occidente

Come confermato dagli sviluppatori stessi in questa interessante intervista rilasciata per la nostra Gazzetta dello Sport, Tango Gameworks ha cercato di traslare all’interno dei modelli poligonali, della loro composizione all’interno degli ambienti e all’interno delle atmosfere, la bellezza di Tokyo. Nel farlo, però, ha cercato di rendere il tutto quanto più normale possibile, senza strafare in maniera pirotecnica con scelte cromatiche o stilistiche.

Il fascino che questa città esercita sui giocatori è fatto di quotidianità che viene percepita come tale anche da chi a Tokyo non c’è mai stato. Kenji Kimura, il director del gioco, nelle interviste parla di come la città è stata modellata cercando di lasciare intatte tutte quelle caratteristiche che per un giapponese sono normali e che per gli occidentali invece possono sembrare strane: dal numero infinito di ombrelli sparsi a terra (perché per i giapponesi è normale uscire con un ombrello anche se non piove) ai piccoli templi Shinto posti di fianco a grattacieli ultra-tecnologici.

Al netto di tutti i discorsi che si possono fare sul turismo virtuale videoludico, sul come questo viene declinato da sviluppatori occidentali o orientali, su come esista un vero e proprio turismo culturale che però per alcuni manca di rispetto alle fonti (vedasi il caso Sifu), quello che Ghostwire Tokyo è riuscito a fare con la sua rappresentazione della città è altro ancora.

Con una delicatezza onestamente imprevista, Ghostwire Tokyo riesce nel difficile compito di mostrare la forza del lavoro di terraformazione umano veicolato dall’architettura.

Quando non si stanno abbattendo visitatori (i mob del gioco) con antiche tecniche magiche, il protagonista Akito ed il suo passeggero spirituale KK non fanno altro che passeggiare.

Escapismo digitale episodio: passeggiate

Passeggiare virtualmente per la città di notte è una pratica più popolare di quanto si possa pensare. Basta andare su Youtube e cercare keyword come night walk tokyo per entrare in un universo da diversi milioni di visite. L’opinione principalmente condivisa vede la crescita di questi video come la diretta conseguenza dell’isolamento da pandemia, dove ansia e impossibilità di uscire di casa hanno evidenziato un naturale desiderio: quello dell’esplorazione.

All’interno dell’universo videoludico il concetto di esplorazione è stato declinato in maniere diverse sin dall’inizio degli anni ottanta, quando (forse) il primo The Legend Of Zelda ha cristallizzato il punto di partenza delle avventure all’interno di spazi rappresentati visivamente, questo perché esperimenti seminali come Zork o Colossal Cave Adventures ci provavano una manciata di anni prima con interfacce testuali. 

Da TLOZ ad oggi le declinazioni sono state molteplici e concetti come linearità o apertura hanno creato trend o sono morti con loro; al giorno d’oggi è inutile scrivere in maniera approfondita di quanto il mercato si sia concentrato sulla creazione di esperienze “aperte” più per una questione di player retention che per velleità comunicative.

Da questo punto di vista è improbabile che lo sviluppo di Ghostwire Tokyo abbia seguito un tragitto diverso dalvogliamo fare abbastanza soldi da rientrare e moltiplicare l’investimento fatto”, ma è super piacevole vedere che, passeggiando un poco per le deserte strade di una Shibuya dove la pioggia cade all’incontrario, è proprio tale atto ad essere strumentale tanto alla fruizione dell’esperienza quanto al suo stesso funzionamento. 

A differenza di quanto capita in moltissimi altri videogiochi open world, dove la costruzione del mondo di gioco è subordinata al game design e al gioco stesso, Ghostwire Tokyo da la palese impressione di essere un titolo il cui mondo di gioco è Shibuya solo per una questione di vicinanza geografica con la software house responsabile.

Camminare per l’open world quindi non è piacevole tanto perché è il game design a renderlo tale, è piacevole perché… plausibile da vivere.

Rendere reale il paranormale

Gran parte del merito si deve al comparto tecnico, che fa uso di una grafica iperrealistica figlia del lavoro fatto in videogiochi come Mirror’s Edge o P.T, ottimi esempi di questo stile durante il corso degli ultimi dieci anni.
Il sistema di illuminazione utilizzato da Tango Gameworks per il titolo flette continuamente i muscoli grazie ad un utilizzo saggio e costante dei neon che, come un po’ tutti sanno, rappresentano il cuore pulsante dell’atmosfera nipponica (a tal proposito mi sento di consigliare spassionatamente i lavori di Liam Wong, capaci di mostrare il cyberpunk nascosto tra le pieghe della vita quotidiana di milioni di Giapponesi)


Doppia parentesi soltanto per dire che durante le ricerche eseguite per approfondire fonti, richiami e citazioni, ho scoperto che Wong ha lavorato in Ubisoft come art director ad alcuni dei titoli meno interessanti del brand (vedi alla voce: Far Cry 5) e che, recentissimamente, è entrato come Art Director dentro UNSEEN.inc, ovvero la compagnia specializzata in IP multimediali di Ikumi Nakamura.
Per quanto questo nome possa sembrare campato per aria, in realtà è importantissimo poiché è l’ex game director di Ghostwire Tokyo, al momento al lavoro su “nuove proprietà intellettuali” capaci di funzionare contemporaneamente su più mezzi di intrattenimento.
Non è da escludere che qualsiasi nuovo prodotto uscirà fuori vedrà il suo aspetto estetico condiviso con il gioco di cui stiamo parlando oggi.


La plausibilità delle scenografie scelte dai developer nipponici diventa tangibile in molteplici contesti: diverse delle missioni secondarie vedono il protagonista Akito entrare in case di sconosciuti per gettarsi all’esorcismo di questo o quello Yokai (i demoni del folklore nipponico).

Quando non sono le case degli sconosciuti a fare da sfondo alle nostri azioni, tocca agli uffici dove i salaryman passano la stragrande maggioranza del loro tempo, tocca ai parcheggi dove le poche macchine (rispetto al numero complessivo di cittadini) riposano, tocca ai tunnel della metropolitana mostrare che nella realtà alterata di Ghostwire Tokyo la paura possa derivare anche dall’architettura quotidiana.

Questo articolo, nello specifico, nasce da un’estetica che ultimamente imperversa molto sul web e che nessuno ha (ancora) collegato in maniera diretta a Ghostwire Tokyo.
La Shibuya del titolo di Tango Gameworks è il luogo perfetto per chiunque voglia assaporare da vicino degli spazi liminali senza dover per forza cadere all’interno delle backrooms.

Ok, facciamo un passo indietro che vi vedo confusi.

Transitare in un incubo

Colonna sonora gentilmente offerta da una delle migliori playlist che vi potrà capitare di trovare su Spotify

Il mondo dei videogiochi horror indipendenti dell’ultimo paio di anni va particolarmente d’accordo con un estetica precisa: quella delle backrooms.

Le backrooms non sono altro che un meme (nel senso sociale del termine), nato da una specifica immagine comparsa su /x/, la board di 4chan dedicata al mondo del paranormale durante l’Aprile del 2018.

L’immagine in questione compare come risposta ad un thread titolato post disquieting images that just feel ‘off ed è soltanto una tra moltissime immagini caratterizzate dalla coesistenza di diversi fattori: illuminazione imprecisa, senso di generico mistero, atmosfera onirica e completa assenza di vita. Quest’ultima cosa teniamola a mente per dopo.

Autori come Mark Fisher e John Koening avevano già provato a dare una descrizione accurata delle atmosfere e delle sensazioni che immagini del genere potevano tirare fuori.
A dare vita a un cortocircuito mentale è la discrepanza tra le funzionalità delle ambientazioni proposte e la completa assenza di ogni forma di presenza da essi.

Le backrooms originali non sono altro che uffici vuoti, completi di carta da parati, moquette e divisori senza però gli officianti. Le altre immagini del thread parlano di luoghi come parcheggi, centri commerciali, corridoi, tunnel, piscine e chi più ne ha più ne metta: tutte immagini caratterizzate dalla completa e innaturale assenza di umani al loro interno (altre informazioni sul tema all’interno di questo bellissimo articolo di Not).

Se avete cliccato sul link messo poco sopra riguardante l’estetica, avrete già capito che le backrooms fanno parte di un immaginario visivo un po’ più ampio conosciuto con il termine di spazio liminale

Spazio liminale”, andando velocissimi perché vorrei tornare a parlare di Ghostwire Tokyo, è la definizione che cerca di racchiudere tutti quei luoghi che, a causa della loro natura, sono soltanto di transizione. I corridoi della scuola superiore che portano da una classe all’altra sono spazi liminali, così come lo sono i sottopassaggi di una stazione ferroviaria, le scale anti incendio di un palazzo o il tetto di un condomino.

I luoghi dove non si ci ferma volontariamente sono ascrivibili agli spazi liminali.

Una caratteristica degli spazi liminali, specie se inquadrati all’interno dell’estetica delle backrooms, è il non assolvere più ad alcuna funzione. Nei mondi descritti dalle backrooms non ci sono più esseri umani (se non quelli che scattano la foto e che, dopo essersi glitchati fuori dalla realtà vagano eternamente in questi luoghi misteriosi) e pertanto non c’è più bisogno di oggetti per questi. 

Le sedie non assolvono più al loro compito, così come le direzioni, così le piscine o i parchi divertimenti: le cose che prima sembravano riconoscibili ora non lo sembrano più perché mancano i punti di riferimento umani a cui facciamo appiglio durante la vita di tutti i giorni. 
Il mondo diventa non più descritto dalla geografia determinata dall’architettura, ma dalla psicogeografia da essa derivata: sono gli occhi del giocatore, ammaliati dalle suggestioni delle atmosfere e dei dettagli, a viaggiare attraverso possibilità parallele di vita all’interno di date ambientazioni.

Questo rovesciamento di ruoli delle ambientazioni da sfondi a protagonisti, spesso del terrore, è palese in tutta una serie di videogiochi a tinte horror.
Le infinite strade prive di vita ma colme di nebbia di Silent Hill 1 e 2 ne sono perfetti esempi così come lo sono i tunnel ed i corridoi che fanno ancor più capolino nel terzo capitolo della saga Konami; lo sono i corridoi delle basi di ricerca antartiche in Penumbra Black Plague (dagli stessi Frictional Games che poi raggiungeranno il successo con gli Amnesia), lo sono le ambientazioni oniriche di Killer7 o addirittura (sfuggendo dall’universo horror) le intuizioni architettoniche di Mirror’s Edge.

Ecco qui allora che arrivano alla mente le immagini delle passeggiate notturne in Ghostwire Tokyo, i suoi silenziosi quartieri residenziali, le gallerie commerciali che pullulano di suoni umani anche se d’umano non è rimasto niente nel raggio di chissà quanti chilometri. Le radio continuano a far suonare canzoni come se nulla fosse successo e invece ora è tutto liminale, ora è tutto di passaggio, ora è quasi tutta una backroom perché è la città stessa ad aver perso la sua funzione.

È sempre Kimura ai microfoni di The Verge a parlare di come le varie anime del titolo, quella collectathon, quella spooky e quella da walking Simulator sono venute a fondersi soltanto grazie alla natura colossale della città.

A Tokio ci sono sempre uffici in costruzione ma ti basta girare un angolo per trovare un tempietto dove fermarti. Basta varcare la soglia del tempio per respirare un’aria diversa, per trovare sapori diversi nelle azioni di tutti i giorni; è facile fare un passo e ritrovarsi in una dimensione diversa. A volte basta camminare per Shibuya e svoltare un vicolo per ritrovarsi circondati da case normali o da un ambiente completamente diverso. Volevamo riprendere l’idea di entrare in un altro mondo in una maniera molto naturale.

Kenji Kimura

Manco a volerlo fare apposta, questa idea rassomiglia molto a quella che è la cifra stilistica di Haruki Murakami, uno che di mondi paralleli e realtà alternative se ne intende. Libri come “1Q84” o “L’uccello che girava le viti del mondo“, vedono personaggi attraversare spazi quotidiani visti sotto luci particolari (le scale di una tangenziale / un pozzo) per passare dalla propria realtà ad un’altra.

Ecco, Ghostwire Tokyo fa questo lasciandoci però incastrati nello spazio liminale a forma di città, a cavallo tra la realtà degli umani e l’oltretomba a cui tanto anela l’antagonista della storia. Nel raccontare questo Tango Gameworks non smette mai di illuminare l’abitato, ultimo vero segnale della presenza umana all’interno dello spazio condiviso, facendole vivere il ruolo della protagonista e dandole tutto il necessario per farla risultare soltanto quasi ostile, incentivando comunque il giocare ad esplorarla in lungo ed in largo (per i suoi collezionabili di scarso valore, ma questo è un altro discorso).

Non è da escludere, comunque, la possibilità che la fascinazione verso questa versione del mondo all’interno della sensibilità globale sia anche legata all’aver vissuto sulla propria pelle una pandemia globale.

Ecco, se a qualcuno è piaciuta l’idea di passeggiare per i luoghi che conosce entro quei termini, Ghostwire Tokyo è forse la maniera migliore per farlo senza sperare nell’avvento di altre malattie potenzialmente mortali. 

Non credo di aver scritto un consiglio per gli acquisti più bizzarro di questo, ma tant’è.

This post was published on 24 Novembre 2022 12:30

Graziano Salini

Perennemente alla ricerca di legami tra argomenti distanti tra loro, con una certa predilezione per musica e videogiochi. Faccio il possibile per fare in modo che ci siano meno errori di concetto possibili sugli articoli di Player.it, grande fan degli errori grammaticali invece, quelli fanno sempre ridere. Quando non sto amministrando questo sito lavoro mi occupo di spiegare cose difficili in maniere semplici su altri siti, su tematiche molto meno allegre dei videogiochi.

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