Nel 1958, quando i mainframe erano prevalentemente macchine misteriose per pochi eletti e studiosi, si iniziò già a ragionare su eventuali utilizzi alternativi: in questo contesto nacque Tennis For Two, un semplice simulatore di tennis noto per essere il primissimo esempio di videogioco.
Venti anni dopo, nel 1976, arrivò sul mercato Artillery: un gioco in cui bisognava calcolare la traiettoria balistica di un proiettile per colpire un nemico dall’altro lato dello schermo.
Uno dei primi giochi mai creati, quindi, era già “violento” ed era già basato sul concetto di guerra e di lotta. Lo scontro, da allora, è sempre rimasto una costante del medium: dai primi picchiaduro a scorrimento ai platform storici come Super Mario. I nemici da sconfiggere, sia a cazzotti che col piombo o con delicati traumi cranici, sono sempre rimasti presenti.
Nei primi tempi esulavano dalla violenza giusto i titoli basati sullo sport, dove però lo scontro era di per sé insito nella competizione o quelli sulle corse automobilistiche
Anche in quest’ultimo caso il sinonimo di validità del gioco stesso, per decenni, era associato alla distruttibilità delle vetture, quasi a dirla lunga sulle effettive pulsioni dei giocatori.
Basti pensare a serie come Carmageddon, dove lo scopo del giocatore durante la corsa era legato quasi più all’annientamento dell’avversario che al suo soverchiamento tecnico durante il tragitto. Persino in The Sims, famosissimo simulatore di vita reale, nulla era più soddisfacente di segregare l’alter ego in quattro mura e lasciarlo morire di stenti (più o meno, dai).
Oggi la situazione è cambiata, fortunatamente.
Esistono avventure assolutamente pacifiche come Journey, titoli basati su puzzle ed enigmi, giochi di cucina o titoli solamente narrativi; tutti prodotti che fanno parte di un qualche tipo di nicchia.
Rimane comunque in pole position in termini di popolarità e successo il videogioco come medium dove la violenza è presente; è sostanzialmente normale per qualsiasi giocatore esaltarsi alla comparsa del cosidetto gore all’interno di un videogioco, tra mutilazioni e decapitazioni.
I videogiochi, dunque, incitano alla violenza, come molte testata affermano periodicamente?
I videogiocatori sono persone sadiche prive di empatia?
Forse, i moralisti della penna, prima di esprimere giudizi, dovrebbero fare un ripasso di cultura generale soffermandosi in particolar modo sul più classico degli argomenti: la tragedia greca.
Le tragedie erano l’intrattenimento principale degli antichi greci.
Miti e leggende venivano interpretati dai tragediografi, veri e propri sceneggiatori ante litteram, e messi in scena in anfiteatri aperti a tutti, ricchi e poveri, politici e popolani. Tutti, senza distinzione alcuna, si sedevano sulle scalinate marmoree e venivano trasportati da quelle storie.
Il comune denominatore di ogni tragedia era proprio la violenza nascosta in ogni singolo essere umano, gli istinti bestiali che si scatenano quando qualunque uomo viene schiacciato dagli eventi e dal destino. Tutti i protagonisti cercano di combattere il proprio fato avverso finendo, però, sempre per scontrarsi con un finale quantomeno tragico.
Così, Edipo, malgrado tutte le sfide affrontate uccide suo padre, sposa sua madre e, quando scopre tutto, si acceca con uno spuntone; così Eracle impazzisce e massacra a mani nude moglie e figli come un odierno Kratos; così Oreste strangola sua madre mentre lei gli mostra il seno nudo che l’ha nutrito.
Le scene sono quasi sempre raccapriccianti ed oggi non sfigurerebbero in qualche film splatter. Non si cercava solo il dramma, l’apice della tragedia doveva essere un momento di estrema violenza, uno spargimento di sangue estremo e, spesso, gratuito, ottimo per chiudere il ciclo della narrazione.
Sul finale, dopo l’ordalia mostrata, appariva chiara la morale della vicenda, veniva spiegato il contrasto che aveva portato l’eroe a divenire carnefice, che aveva corrotto il suo animo scatenando il triste epilogo.
Si potrebbe pensare che i greci amassero queste rappresentazioni proprio perché estreme, che le guardassero come noi potremmo vedere un horror di serie B per il semplice gusto di dello splatter.
Eppure, per loro era un rito intimo e profondo.
“Tragedia è dunque imitazione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento delle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni”.
Così, il grande filosofo Aristotele descriveva la tragedia nella “Poetica”, definendola anche come la maggior espressione dell’arte umana.
Per il filosofo la tragedia non riguarda vicende che sono accadute ma che, invece, possono accadere; gli spettatori vi si possono identificare, ritrovare in essa la propria visione di morale. Essa suscita timore e pietà nello spettatore e nel lettore: pietà per il protagonista e per quello che sta affrontando e timore di ritrovarsi nei suoi panni.
Gli spettatori non erano un pubblico distaccato, ma riuscivano a restare coinvolti da quanto avveniva sulla scena. Il dramma dei personaggi non era visto come distante ma come una possibilità: qualcosa che può accadere ad ogni uomo, in qualunque momento.
Il protagonista soccombe non perché, malvagio ma perché inconsapevole delle conseguenze del proprio agire in relazione a quello degli altri uomini, incapace di comprendere le trame del destino. Una sensazione che qualunque essere umano con un minimo di consapevolezza ha provato e sente come un dramma.
Gli errori commessi dai personaggi sono quelli che ogni persona potrebbe commettere nello stesso contesto e situazione. Chiunque reagirebbe tragicamente una volta che tutto gli è chiaro, una volta compresa l’entità di simili errori.
Per citare una serie moderna:
“Chiunque è un assassino, bastano un buon motivo ed una brutta giornata”.
Inside Man
Il pubblico condivideva empaticamente il male vissuto dal protagonista, lo immagazzinava, lo viveva e lo faceva proprio. La violenza estrema era il punto di rottura, ciò che vomitava fuori il male accumulato, il mezzo attraverso il quale il protagonista esplodeva e lo spettatore assisteva alla diretta conseguenza di quelle azioni. Alla fine il pubblico era libero, aveva espiato quella colpa che ogni essere umano porta dentro, quella violenza che accompagna chiunque era emersa in tutta la tua forsa.
Questa purificazione era chiamata catarsi.
Friedrich Nietzsche dedicò un’intera opera al fenomeno: “L’origine della tragedia”.
Il grande filosofo tedesco utilizzò la forma d’arte classica per analizzare la storia del genere umano, della morale e per scandagliare ciò che ogni persona ha nell’anima. Per Nietzsche esistono due contrapposte visioni, dell’arte come della vita: l’apollineo, legato al dio Apollo, e rappresentazione dell’ordine, della forma, della creazione; il dionisiaco, legato a Dioniso, che racchiude in sé il caos, la bestialità, gli istinti.
Gli esseri umani contengono entrambi gli antipodi. Come esseri razionali cerchiamo l’ordine, sia nella società che nel nostro animo, abbiamo bisogno di una morale che dica cosa è giusto e cosa è sbagliato, sentiamo la necessità di dettare regole ad un mondo vivibile.
Non dobbiamo dimenticare, però, di essere anche degli animali.
Esiste una parte in ciascuno di noi distruttiva, caotica, che desidera costantemente prevaricare e guadagnare la forza necessaria per imporsi sugli altri, il potere per sfruttare altri esseri umani e diventare immuni dalle regole del mondo. Un essere irrazionale e dionisiaco che non segue la morale, anzi, la vede come un limite.
Il mondo, per progredire, ha bisogno dell’apollineo, delle regole e dell’ordine, altrimenti si finirebbe alla legge naturale del più forte. Eppure, la bestia ha bisogno di nutrimento, le pulsioni naturali non possono vivere costantemente frenate con il rischio di esplodere improvvisamente e violentemente.
La tragedia, per Nietzsche, nasce con lo scopo di sfamare quella parte ferale.
Allo stesso modo in cui avveniva la catarsi per Aristotele, per il tedesco la violenza messa in scena dagli attori era un modo per liberare la violenza presente in ogni spettatore. I più bassi istinti venivano messi a disposizione del pubblico, lasciati sfogare in un rito comune in grado di incanalare la parte caotica e limitarla allo spettacolo in scena.
Applausi al sipario, la bestia dell’anima è sfamata e può accettare di nuovo le catene della morale.
Interpretare un personaggio, vivere la sua avventura, seguire le sue missioni ed i suoi obiettivi, combattere i suoi nemici non è, forse, il modo migliore per provare empatia?
Anche davanti ad un protagonista che non ci rappresenta per nulla, con cui non riusciamo in alcun modo a provare feeling, la sua vittoria è comunque la nostra vittoria. Possiamo non ritenere giuste le sue azioni, possiamo trovarlo scritto male o antitetico ad un nostro ideale, ma il progresso nel videogioco ci spinge sempre e comunque ad agire dalla sua parte.
Non esiste morale mentre si gioca, non esiste ciò che vuole il giocatore. Esiste la storia del titolo, la vita e le difficoltà del personaggio interpretato e, nel bene o nel male, va portato al successo. Se Kratos ha bisogno di fare a pezzi un uomo per aprire una porta il giocatore lo farà perché la progressione di Kratos è il bene superiore di quel mondo, se Geralt vuole entrare in intimità con Yennefer il giocatore lo accontenterà perché comprende i sentimenti del witcher (oltre che per voyeurismo).
Ovviamente sono fuori dal discorso i giochi che offrono continue scelte morali e che, spesso, basano proprio su queste gran parte della narrativa. Anche in questo caso, però, il giocatore non è in prima persona con la sua morale, ma sta ruolando comunque un personaggio. La persona è catapultata in un universo diverso, con regole nuove e con conseguenze limitate al videogioco. In Dragon Age il giocatore può scegliere di diventare un eroe sacrificandosi per salvare il regno, certo, ma probabilmente, nella vita reale, scapperebbe il più lontano possibile da uno scontro.
Tutto questo per mostrare come, nell’universo videoludico, il giocatore si unisce indissolubilmente al personaggio giocato diventando, a tutti gli effetti, un unico corpo.
Noi decidiamo di muoverci, di colpire o di fuggire, abbiamo il controllo e, allo stesso tempo, siamo guidati dalla storia del titolo.
Non è, forse, lo stesso tipo di legame empatico che sviluppavano gli antichi greci osservando i protagonisti di una tragedia? Anzi, decuplicato visto che gli spettatori non hanno controllo sugli attori, mentre i videogiocatori hanno una simbiosi totale.
Allora, se questa immedesimazione è reale e concreta, la violenza scatenata dal personaggio controllato ha lo stesso effetto liberatorio e catartico che poteva avere la conclusione violenta di una tragedia.
Mentre vede il sangue dei nemici scorrere il giocatore può sfogare gli istinti che chiunque sopprime, lasciarsi andare, esagerare, sfogare rabbia e frustrazione senza alcuna conseguenza, consapevole che il male lo sta facendo solo a migliaia di pixel.
Tante persone ammetto che dopo una stressante giornata di lavoro non c’è nulla di meglio che sfogarsi un po’ con qualche videogioco, magari riempiendo di piombo avversari in uno sparatutto.
Poi la console si spegne, la bestia dell’anima è sazia e si può rituffarsi nella realtà liberi dal peso della violenza.
Non è un caso che il successo dei primi open world tridimensionali, esempio lampante GTA, sia dovuto proprio alla possibilità di scatenare violenza e caos per le strade, totalmente indisturbati. Come dimenticare Prototype, dove si impersonava un antieroe in grado di nutrirsi di ignari cittadini portare distruzione su New York. Oppure, ancor prima Destroy All Humans! in cui si impersonava un alieno deciso a sterminare la nostra razza o Rampage, dove nei panni di enormi mostri potevamo far crollare edifici e nutrirci di persone.
I giocatori non sono persone violente, tutti gli esseri umani hanno in sé la violenza. Ognuno, se avesse a disposizione la totale impunità finirebbe per commettere qualche crimine, fosse anche per una giusta causa. Rispettiamo la morale, perché sappiamo che è giusta, rispettiamo la legge per paura della pena, rispettiamo gli altri perché vogliamo a nostra volta essere difesi e rispettati allo stesso modo. Ma tutto questo, in un mondo virtuale, non conta: nei videogiochi regna l’impunità e, di conseguenza, la totale libertà.
Così come nella tragedia non era motivo di disdegno l’incesto, l’omicidio o l’infanticidio, così nel mondo dei videogiochi tutto è permesso, tutto è utile a tirar fuori quella violenza con cui siamo nati e di cui è impossibile liberarsi, malgrado i bei propositi. La nostra purificazione, la nostra catarsi, ha sempre bisogno di un mezzo per canalizzare quel lato bestiale che alberga nell’anima: meglio lasciarla esplodere uccidendo poliziotti su GTA, o anche seguendo un film violento, che vederla esplodere fuori uno stadio reale o per una fede diversa.
Bisogna, però, sempre ricordarsi che, fuori dallo schermo, il sipario cade sulla tragedia rituale e si torna umani.
This post was published on 29 Novembre 2022 12:30
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