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Speciali

Pellicole videoludiche: il film di Mortal Kombat

L’incomprensibile film di Street Fighter (del quale vi ho parlato qualche tempo fa) non rimase a lungo privo degli sguardi torvi del suo rivale. La sfida per il primato tra i picchiaduro procedeva senza esclusione di colpi, e meno di un anno dopo – nel 1995 – anche il lungometraggio su Mortal Kombat raggiungeva le sale e gli spettatori.

Prodotto dalla New Line Cinema (la casa cinematografica salita alla ribalta grazie a Freddy Krueger), girato da quel Paul W. S. Anderson che con i videogiochi avrà a che fare per tutta la sua carriera, si tratta di un’opera distante da quella girata per la controparte Capcom, tanto negli intenti narrativi quanto parzialmente nei risultati.

I capolavori del cinema sono altri, ma differentemente da quanto accadeva nelle sale giochi e nelle case dei videogiocatori qui l’esito della sfida è netto sotto molto aspetti. Spaparanzatevi sul divano, aprite i popcorn, fight!

Test your might

Titoli di testa, fiamme che divampano sul celeberrimo logo col dragone, in sottofondo uno dei main theme più cafoni degli anni 90′: può darsi che Martin Scorsese avesse appena visto Mortal Kombat, quando disse che gli opening credits sono la parte più importante di un film.

Poi tutto si interrompe, e delle sequenze dalla fotografia cupa in puro stile ’90 ci introducono ai protagonisti e alle loro storie: il desiderio di vendetta di Liu Kang e Sonya, il bisogno di riconoscimento di Johnny Cage, le sinistre manovre di Shang Tsung e Kano, finché tutte queste non convergono nel più classico tra i leitmotiv della narrativa coi cazzotti, il grande torneo di arti marziali.

La sceneggiatura non fa altro che attingere al videogioco – i combattimenti tra rappresentanti dei diversi reami di universi paralleli, in guerra tra loro – e questa soluzione è tanto semplice quanto efficace: Mortal Kombat resta fedele a sé stesso, dove Street Fighter si era invece smarrito in un genere e un racconto che nulla avevano in comune col materiale di partenza.

Tutto liscio, sì, ma diegeticamente anche troppo: la sceneggiatura è una tavola piattissima, ogni scena è prevedibile, nulla è nuovo – al punto che verso l’ultima parte ho perso in più occasioni la concentrazione, lo ammetto candidamente.

Sub-Zero ma la temperatura sale vertiginosamente con tutti quei maschioni di fianco

Get over here!

I personaggi sono caratterizzati in maniera forzatamente riconoscibile, esasperati nei tratti fisici e comportamentali, seguendo irrimediabilmente quei criteri post-anni ’80 che oggi risultano a dir poco risibili. La pellicola ammicca poi continuamente all’estremo oriente, e sebbene ciò possa facilmente rappresentare un topos abusato nei film di combattimento – diciamo pure un luogo comune cinematografico -, nella bella bruttezza del film risulta coerente, quasi una comfort zone, un humus che riconosciamo e che ci aiuta nell’interpretazione della storia.

L’opposto avveniva in Street Fighter, americanata oltre ogni soglia della credibilità artistica e della decenza narrativa, per cui mi trovo tristemente a riconoscere che tra il cliché della competizione di arti marziali ai confini dell’Asia, e una copia fiction edulcorata della guerra del Vietnam in cui vengono inseriti senza alcun motivo le antiche arti di lotta, scelgo sicuramente la prima.

Ma anche Mortal Kombat si esibisce in mosse degne della cintura nera del trash, e così nel sacrosanto melting pot di etnie del cast il ruolo di Raiden, il dio del tuono, personaggio dal nome giapponese (雷 rai, tuono, e 電 den, fulmine), che indossa immancabilmente l’iconico copricapo dei contadini cinesi e giapponesi, insomma Raiden è interpretato dal bianchissimo Cristopher Lambert, nato in Francia e con cittadinanza statunitense, la cosa più occidentale che ci potesse essere, praticamente la NATO.

Toastyyy

Sono diversi i ricordi di questo lungometraggio che porterò per sempre con me.

Per prima cosa gli effetti speciali computerizzati, terribili e per questo magnetici, la barca che traghetta i lottatori al torneo, l’incontro con Reptile, le armi di Scorpio, i fulmini di Raiden, ogni momento di animazione digitale è un pugno in un occhio, e probabilmente è giusto (e coerente, a pensarci) così.

I colori sgargianti e la resa brillante alimentano un effetto dopante, e se penso al fatto che quello era l’anno in cui usciva Toy Story, mi distrugge dentro sapere che ai tempi nessuno tra i produttori pensò a un qualche spin-off realizzato interamente con questa computer grafica da 5000 lire. E poi c’è Goro, che è un torso pupazzone indossato da Tom Woodruff Jr. e doppiato da Kevin Michael Richardson, e spacca, Goro spacca.

E di certo né io ne i miei occhi dimenticheremo mai la dialettica cromatica della fotografia di John R. Leonetti, una titanomachia tra colori caldi e colori freddi in saturazione, un videoclip grunge con gente che mena le mani – è così che Refn girerebbe i suoi film se non avesse più niente da perdere.

La sfida tra i due brand passa anche attraverso le orecchie, con le colonne sonore: se Street Fighter aveva puntato sull’hip hop, Mortal Kombat opta per i cazzotti anche sonori, con una ost in cui compaiono Fear Factory, Napalm Death, i grandissimissimi Type-O Negative, ma anche la techno e l’industrial.

La grande bellezza

There are fates worse than death

Siccome di sfida si trattava, è arrivato il momento di alzare il pugno del vincitore.

È evidente che né Mortal Kombat né Street Fighter possano vantarsi di esprimere un bel cinema, e quindi a uscirne sconfitta è prima di tutto la settima arte.

Ma il film del gioco della compianta Midway mantiene una vicinanza al materiale di partenza e una certa coerenza narrativa che lo portano a stabilirsi su un altro livello rispetto alla concorrenza Capcom, che presentò un film invece campato per aria, caciarone e senza stile, eccessivo in tutto ma anche nella propria mediocrità.

Mettiamola così: se una cena tra amici dovesse svoltare in serata fighting game, e una volta arrivata la pizza e riposti i joypad ci si trovasse a scegliere tra i due film, Mortal Kombat sarebbe senz’altro la scelta più sopportabile.

Resterebbe una terza via, quella di prendersi realmente a cazzotti, la quale però è sempre sconsigliata, ecco.

This post was published on 10 Febbraio 2023 12:30

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