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Speciali

Con A Plague Tale: Requiem Asobo bussa alla porta dei giganti dello storytelling | #Lore+

A Plague Tale: Requiem è uscito da due settimane.
Più o meno queste sono le stesse che ho impiegato per portarlo a termine con grande soddisfazione, complice anche un’apprezzamento difficile da nascondere per il suo predecessore Innocence; un gioco che al netto di qualcuni lati frustranti si era guadagnato la posizione di “uno dei giochi che ho preferito della fine della scorsa generazione”. 

Parliamo di un gioco intenso, capace di mescolare Storia, fantastico, un pizzico di horror e personaggi ben scritti; tutto il necessario per far sì che il giocatore si immergesse completamente nella Francia del 1348.

Non mancano, certo, i lati più “scuri” all’interno del titolo: da una parte il gameplay un po’ “meh”, dall’altra una storia sì molto avvincente ma comunque con uno sviluppo “nella norma”.
Ombroso, appunto, ricco di cose che coinvolgevano ma fino a un certo punto; bello sì ma non bellissimo.

E invece è arrivato Requiem, successore che dopo ben tre anni e un po’ di giochi divenuti nuovi classici del genere con passi abbastanza interessanti dal punto di vista dello storytelling, finisce per non giocare nella stessa lega elevandosi al di sopra di tanti suoi contemporanei, complice un’intensità un po’ più elevata

Anzi, parliamoci chiaro: Requeim va un bel po’ più in alto, tanto da far breccia anche nel mio di cuore. Personalmente lo reputo uno dei migliori giochi del 2022 (è stato anche nominato come Game of the Year, ma una sua vittoria contro GoW: Ragnarok ed Elden Ring è assolutamente da escludere) e credo sia un prodotto che merita due paroline su CHE storia racconta e su COME la racconta

Avvertenza: da bravo articolo di analisi narratologica, da questo punto in poi aspettatevi GIGANTESCHI SPOILER SULLA TRAMA

Alzare l’asticella

Il problema/l’occasione di qualsiasi brand come quello di A Plague Tale, alla seconda uscita, è in fondo uno: avere la necessità di dover crescere, rilanciare, reinventare quel che ha già raccontato (e ovviamente fatto giocare) durante la sua prima uscita pubblica.
Ovviamente, più il brand fa breccia nel pubblico e ottiene buoni risultati ed in generale meglio è; a tal proposito, per buona fortuna e palese merito degli sviluppatori, il primo A Plague Tale aveva già ottenuto ottimi risultati.


Il rischio di un “buco nell’acqua”, magari dovuto a un colpo di testa dipeso dal successo improvviso o da un ingrediente mal dosato, era comunque presente; questi elementi sostanzialmente hanno sempre il potere di far rischiare il collo ai ritorni videoludici (come magari è successo per Uncharted 3 per capirci).

Con A Plague Tale: Requiem, lo avrete capito, è andato invece tutto bene, anzi molto bene.
Si è infatti passati da un piccolo ma ottimo gioco “semi-indie”, condotto con gusto estetico e giusti ingredienti narrativi, a un gioco con tutte le carte in regola per affermarsi come “importante”

Non come un vero capolavoro, sia chiaro.
A pesare c’è infatti a tratti una scrittura un po’ pesante e didascalica, soprattutto nelle interazioni fra Amicia e Hugo; questo si nota specie quando gli sceneggiatori tentano di mettere loro in bocca riflessioni che devono ricondurre in qualche modo al tema portante del gioco. Roba tipo Hugo che si lamenta del fatto che è una sorta di scheggia impazzita che ovunque va porta in sé qualcosa di molto brutto e, di tutta risposta, si trova la sorella a tentare di consolarlo con scene tanto cariche emotivamente da risultare kitsch. 

Questo però non viene del tutto per nuocere: Requiem sceglie senza problemi di parlare di qualcosa di molto intenso.
Le conseguenze del fatto che un bambino di sei o sette anni, Hugo appunto, sia affetto da una malattia/maledizione terribile non vengono mai nascoste agli occhi del giocatore.
All’inizio del gioco, a un anno da Innocence, i ratti, la piaga, l’orrore che lo affligge tornano più potenti rendendo Hugo in grado di portare devastazione su intere città, assassinando centinaia di innocenti, fatto che introduce alcune delle scene più atroci di tutto il gioco e forse degli ultimi anni videoludici.

Questo è solo l’inizio, poiché il campionario di orrori che Requiem sceglie di presentare al pubblico è davvero lungo e ricco: da attraversamenti di vere e proprie fosse comuni (quasi una “risposta/level up” rispetto a quello del campo di battaglia, presente nel primo quarto dell’episodio precedente di APT) a morti improvvise e inaspettate in pieno stile Game of Thrones, fino ad arrivare a un finale che chiude perfettamente il cerchio, in cui siamo chiamati ad alcuni atti purtroppo necessari.

Non è un gioco leggero, Requiem, e per questo non è un gioco per periodi difficili; se siete in una di quelle fasi “Ho bisogno di qualcosa che mi faccia staccare dai pensieracci”, fareste meglio ad aspettare che qualcosa nella vostra vita si tranquillizzi.

Consiglio spassionato, eh.

Dilemmi morali e grandi temi

Proprio alla luce di quanto detto sopra, concordo assolutamente con quanto scritto dal nostro Simone Segatori nella sua corposa e sentita recensione del nuovo giocone di Asobo: Requiem è stato uno dei pochi gioco di questo incerto primo quarto di next-gen ad aver saputo cogliere alla perfezione i segni di innovazione dello storytelling dell’ultimo grande classico PS4, ovvero The Last of Us: Parte II.

Come TLOU2, infatti, anche la seconda avventura di Amicia e Hugo sceglie di utilizzare una sceneggiatura carichissima di emozioni per parlare di temi che coinvolgono tanto il giocatore da manipolare la sua idea sui personaggi e su quel che vede a schermo, spingendolo a prendere posizione su questo o quell’evento e arrivando addirittura a fargli odiare quel che vede. 

Il tutto, per di più, per far risaltare il tema portante del gioco.

Se nel gioco del 2019 Asobo raccontava il difficile rapporto di due innocenti con un mondo ormai a pezzi moralmente, sospeso com’è tra malattia, guerra e degrado morale, Requiem mostra gli effetti che quel mondo ha avuto sui nostri piccoli beniamini.

Il “Requiem” del titolo è soprattutto il requiem dell’”innocenza” presente in quello del primo episodio della serie. 

Hugo e Amicia sono più adulti, più arrabbiati, più stanchi, ma soprattutto sono rassegnati alla bruttezza della vita e pronti a tutto pur di sopravvivere e di sfogare la propria rabbia. 

Il risultato di questa premessa è un’amarissima riflessione su come la negazione dell’innocenza porti in modo quasi inevitabile a un’assenza di speranza, propria dell’età adulta. E questo porta anche a ragionare su tanti elementi: su come la speranza possa essere manipolata (per esempio dalla religione), e su come la violenza sia una creatura strana, generata dalla paura in maniera quasi casuale. Non è un caso che tutto, in Requiem, parta da un evento quasi minimale, quando Amicia e Hugo si ritrovano nel posto sbagliato al momento sbagliato e Hugo, gravato dalla Macula… beh, semplicemente reagisce, dando il via ai giochi.

Da lì, tutto precipita.

Forse, come accennavamo prima, l’approccio a volte didascalico non riesce ad arrivare alla raffinatezza e alla freschezza delle produzioni di Sony (e mi riferisco anche a God of War, non solo alle bombine di casa Naughty) ma è indubbio che Asobo abbia capito che puntare sulle emozioni forti, su posizioni problematiche e su racconti “spiacevoli” sia roba anche per gli AAA/AA che non esclusività dei giochi “indipendenti”.

Capiamoci: le tinte forti sono un segno distintivo del videogioco di massa ormai da anni; parecchi sono i titoli, anche della nostra adolescenza ludica, che riuscivano a emozionare mettendo in scena drammi dal retrogusto amaro (lo stesso Metal Gear Solid, se ci pensiamo). Un conto, però, è avere l’idea di creare una storia dai toni dolorosi e seri, un conto è essere capaci di farlo in maniera convincente. Il tutto accade mentre il livello medio della narrativa audiovisiva ha alzato l’asticella dello storytelling in maniera impressionante.

A Plague Tale dimostra che l’evoluzione è esattamente in questa direzione, e che questo tipo di tentativi si stiano propagando in maniera efficace all’interno dell’industria. 

Brava Asobo, brava!

Se parlando di A Plague Tale: Requiem dobbiamo parlare di “vittoria” da un punto di vista di racconto, mi sento di dover concludere facendo un bell’applauso ad Asobo, soprattutto vista la sua storia abbastanza particolare.

Da dove viene un gioco così stratificato e pieno di significati? Chi c’è dietro un’opera tanto ambiziosa? 

Devo dire la verità, fino a stamattina non avevo approfondito la storia editoriale del team e, andando su Wikipedia a capire quale fosse il “magma” di Requiem, sono rimasto sbigottito: fino al 2019, anno di uscita di Requiem, Asobo aveva infatti costruito la sua carriera attorno a tie-in di film d’animazione Disney-Pixar come Wall-E, Ratatouille o Toy-Story 3. Asobo è “cresciuta” attraverso il porting Xbox-360 di un prodotto “commerciale” come The Crew e soprattutto nel 2020 ha avuto l’arduo compito di sviluppare un nuovo Microsoft Flight Simulator

Tutti progetti lontani anni luce dall’autorialità e dall’”impegno” della serie di A Plague Tale.

Eppure è proprio questa “doppia faccia” del team francese a spingere all’applauso, perché di fatto quella di Asobo è la storia di un team che è riuscito con grande delicatezza e pura bravura a evolversi, a dar colpo alla sua ambizione, a dire che vuole crescere e avere la giusta pretesa di inserirsi all’interno del pantheon dei grandi storyteller del videogioco. 

Ancor di più, però, con A Plague Tale: Requiem Asobo ha regalato a questo mondo un altro piccolo sprone a superarsi, a raggiungere nuovi livelli qualitativi, a crescere, e penso proprio che non rimarrà inascoltato.

A questo punto, possiamo solo aspettare e vedere come questi buoni semi piantati attecchiranno nei prossimi anni.

This post was published on 20 Novembre 2022 12:30

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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