Il mercato degli oggetti fisici laterali al videogioco è per me tanta croce e qualche delizia: ad ogni joypad ben strutturato o collector’s edition davvero significativa corrisponde un’accozzaglia sconfinata di futura spazzatura, una tragedia di plastica per la quale aziende produttrici e acquirenti sono parimenti responsabili.
Questi articoli sono alle volte utilissimi, o addirittura necessari, quando rispondono a un bisogno o a un arricchimento dell’esperienza virtuale; altre volte non rappresentano altro che i meccanismi del mercato, creazioni effimere per desideri progettati a tavolino negli uffici marketing: e questo è male, come il benzoato di potassio.
Ma qui non vi parlerò d’altro che della mente umana. Un unico luogo, una nucleo dal quale si diradano raggi di luce diversa, capolavori immortali e cazzate senza ritegno – come le creazioni di cui vi parlerò oggi.
Eccovi alcuni degli accessori più incredibili della storia dei videogiochi.
Voglio partire al massimo con questo articolo, quindi mettetevi comodi (la capirete tra un attimo) e preparate la vostra mente e il vostro sedere ad accogliere una periferica come non se ne fanno più – ringraziando il cielo. SEGA negli anni ’90 era come Balotelli, Ezra Miller, Kanye West, quelle star in bilico tra genio creativo e pessime scelte: così, insieme al Mega Drive, a Sonic, poteva figurare qualcosa come la Sega Action Chair. Prima di parlarne dovete assolutamente vederla:
Lo ammetto, la foto che ho scelto sembra provenire dal seminterrato di casa della nonna di Jeffrey Dahmer, ma dovete ammettere che rende l’idea. Distribuita nel 1992, è una vera e propria sedia-joypad: le due leve ospitano i pulsanti, mentre la seduta, come potete vedere dalla base su cui è poggiata, sostituisce la croce direzionale. Avete capito bene: per spostare il proprio personaggio occorreva mover la colita mamita rica.
Il numero di settembre ’92 della rivista britannica Sega Mega Drive Advanced Gaming dedicò un articolo ad alcune delle periferiche disponibili per la console, e questo fu il verdetto per la Action Chair:
L’oggetto è abbastanza comodo e ragionevolmente robusto. In giochi come Afterburner o Super Thunderblade la sedia mostra il suo vero potenziale. Il metodo di controllo richiesto per questi titoli è perfetto, dal momento che ci si può piegare muovendosi come se si pilotasse un aereo o un elicottero.
Ma il finale stona con l’entusiasmo precedente:
Al prezzo di $100 non la comprerei, ma se qualcuno me la regalasse…
Fino alla vertiginosa tabella dei valori di recensione:
Utilità: 41%
Sex appeal: 82% [Davvero? NDR]
Valore: 15% [Ah ecco, NDR]
Che ci crediate o meno, non fu un successo commerciale – fenomeno al quale SEGA stava già abituandosi. Ogni tanto ne spunta fuori qualcuna, a prezzi che si aggirano sui $500. Se vi dovesse venir voglia di procurarvene una – in fondo, cosa ve ne fate della schiena? -, ecco un filmato che vi ritrae dal futuro:
Non si molla un millimetro e quindi continuiamo con un altro accessorio strabiliante, per console Nintendo, e con finalità non ludiche ma d’utilità quotidiana.
Ammettetelo: quante volte avete pensato che il Game Boy sarebbe stato perfetto da equipaggiare al vostro ciclomotore per aiutarvi nella locomozione urbana? Probabilmente nessuna; diversa sarebbe invece la risposta di Aprilia e Suzuki. E visto che c’è odore di eccellenza italiana, concentriamoci sul modello progettato dall’azienda di Noale.
L’Aprilia SR 50 DiTech consiste in una cartuccia per Game Boy e un cavo di collegamento. Non bisogna far altro che connettere la console al motorino per disporre di un’interfaccia dello stato e delle prestazioni del veicolo: parametri del motore, parametri dell’iniezione, diagnostica, queste sono solo alcune delle voce che appaiono sullo schermetto della portatile di Kyōto. Wow, sinceramente, ennesima prova del fatto che il Game Boy sia probabilmente l’attrezzo più versatile della storia dell’umanità. Ma due interrogativi si insidiano:
Impenno verso il paragrafo successivo lasciandovi con l’approfondimento del numero di dicembre 2002 della rivista Scooter Magazine.
Ah, Konami. Tra un glorioso passato nell’olimpo dei videogiochi e un presente incerto segnato da gioco d’azzardo e remake improvvisi, in mezzo metterei questo strabiliante attrezzo: il Laser Scope.
Oggi la cuffia mono con microfono è uno dei simboli del gaming, rimando immediato alla cultura dell’online; un tempo poteva invece apparire come un oggetto futuristico, oppure far pensare ai call center. Konami decise di crearne una per NES, e come se già la comunicazione vocale via console non fosse già abbastanza per i tempi, aggiunse una lente con mirino laser. Appare chiaro: il Laser Scope era un casco di guerra videoludica. E dico così perché la funzione comunicativa non sembrava rilevante nell’idea dell’azienda nipponica.
Se infatti la cuffia veniva impiegata per riprodurre l’audio del Nintendo, il microfono aveva un solo compito, vale a dire quello di dare l’input per sparare. Proprio così: dite «Fire!», e il vostro alter ego sparerà nel gioco. Credo sia necessario prenderci un attimo per commentare la cosa.
Sull’esterno della confezione, un’illustrazione vantava il grande vantaggio del prodotto: una mamma statunitense felice di poter finalmente chiacchierare al telefono in pace, privata del disturbo di quell’audio insopportabile proveniente dal televisore. Ok, ma meglio qualche suono 8-bit o la voce di tuo figlio che urla Fire! Fire! Fire! Fire! dall’altra stanza come un giovane dittatore? Se poi si prova a guardare all’attività offerta dal punto di vista trasversale della pedagogia ludica, non mi sembra potesse uscirne nulla di buono.
Il Laser Scope venne pubblicato a supporto dello sparatutto Laser Invasion/Gun Sight del 1991 (sempre a opera di Konami), ma funzionava anche sui titoli compatibili col NES Zapper. Nei digital store è reperibile a partire da €60-70 circa, e nel resto della rete abbondano i video dedicati.
Gli approfondimenti per questo articolo hanno inaspettatamente assunto tinte tricolori in più momenti, ergo concludo con un altro pezzo di alta classe congegnato in Italia, che se penso a ciò di cui è capace questo popolo un po’ mi gaso e un po’ mi spavento.
Il Kinect è ancora oggi ai miei occhi un oggetto ambiguo, avveniristico e risibile insieme, ma non posso negare che abbia lasciato un suo segno nell’industria e nell’immaginario del settore, almeno nella memoria dei suoi possessori (che poi, al pari di Playstation Move, sia il tentativo scarsissimo nei risultati di Microsoft e Sony di emulare le meccaniche della Wii, quello è un altro discorso).
All’interno del celebre/famigerato titolo di lancio dell’accessorio, Kinect Adventures, una delle esperienze offerte era quella di un minigioco sul rafting. Ora, è già appagante agitarsi come dei tarantolati in salotto, ma volete mettere compiere la stessa azione dall’interno di un piccolo gommone da casa? Di questo si occupò Atomic Accessories, azienda comasca specializzata (si dice così, ma non ci giurerei) alla produzione appunto di supporti fisici al gaming. Almeno un tempo: le sue pagine online risultano tutte estremamente silenziose.
È letteralmente questo che fu la Game Boat: un’imbarcazione (realmente galleggiante, assicurano i creatori) dalla quale giocare al titolo edito da Xbox Game Studios. L’obbiettivo doveva probabilmente essere quello di amplificare l’immersione nell’avventura sullo schermo, in maniera non molto dissimile da un the floor is lava sulle strisce pedonali del centro, o come quando immaginiamo che la nostra vasca da bagno sia la piscina termale in Trentino nella quale vorremmo rifugiarci. Il risultato? Riassumo in poche parole la recensione di Kotaku: piccola, inutile, insospettabilmente puzzolente. Un naufragio, insomma.
This post was published on 22 Novembre 2022 12:30
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