Il 1992 deve aver portato qualche grattacapo in casa Capcom.
Due semplici parole, entrambe minacciose: Mortal Kombat.
Il picchiaduro nuovo di pacca sviluppato da Midway era infatti riuscito a far breccia nei cuori dei videogiocatori con una diversa giocabilità e un tasso di violenza ridicolmente eccessivo. La situazione appariva incerta: non era scontato che la capitale dei cazzotti videoludici rimanesse Ōsaka, che la corona reale continuasse a poggiare indisturbata sulla testa di Street Fighter.
Fu l’inizio di una delle più note rivalità della storia dei videogiochi.
Erano gli anni Novanta, esagerati, cafoni, degni figli degli Ottanta.
Bisognava alzare il livello dello scontro, e ingigantire gli schermi dovete sembrare una mossa sobria e sofisticata: era il momento di andare al cinema. A sferrare il primo colpo, l’azienda giapponese: nel 1994 il film di Street Fighter era pronto – noi no, assolutamente no, e non lo saremmo mai stati.
I telegiornali di tutto il mondo non fanno che parlare della crisi a Shadaloo, base delle attività di M. Bison: la prima scena del lungometraggio è una sequenza di immagini di guerra civile, soldati, armamenti, tutto è frenetico e caotico, in un’atmosfera orientaleggiante che mette in chiaro sin da subito i riferimenti alla guerra in Vietnam [tenetelo a mente].
Il ritmo dei fotogrammi incalza fino a presentarci quello che, appare subito evidente, sarà il protagonista: Jean-Claude Van Damme, che interpreta Guile o forse un qualunque personaggio degli action tamarri anni ’90, distinguere è impossibile. Sono trascorsi appena tre minuti e mezzo quando il marzialista belga imposta il livello del resto della pellicola: in primo piano, manda letteralmente a fan**lo il suo antagonista rivolgendogli il gesto dell’ombrello, non capisco se è Columbia Pictures o Mimmo Modem, e non lo capirò per la rimanente ora e mezza circa.
Una delle caratteristiche comuni alla maggior parte dei picchiaduro è quella di disporre di un nutrito roster di combattenti, generalmente molto caratterizzati per esaltarne le peculiarità. In un film, ciò significa tanti personaggi diversi. Il risultato qui è una passerella di luoghi comuni e distorsioni, che toccano punte vagamente razziste quando si tratta delle origini geografiche dei fighter – dettaglio presente fin dal primo capitolo del brand Capcom. Vi delizio con un paio di esempi: Honda, nel gioco un lottatore di sumo, giapponese, nel film è un tentativo di spalla comica interpretata da un attore hawaiano; Dhalsim, il pacifista, il mistico dall’India, nella pellicola è ovviamente un ingegnere. Riuscite a sentire il cringe zampettare sulla vostra pelle?
Per quanto riguarda invece le personalità dei vari character, il ventaglio è meno sfaccettato: Ken è un imbecille, Ryu (chiamato Raiu per tutto il tempo sia nell’edizione in inglese che in quella italiana, va bene) è un imbecille, Sagat è un imbecille, Zangief poi viene rappresentato come il capo sovietico degli imbecilli (ucci ucci, sento odor di strascichi culturali della Guerra Fredda), fino alla sublimazione nel protagonista, emblema della produzione tutta: un esaltato bellicista tutto muscoli e sparate da wrestler che agisce completamente a caso guidato dal tatuaggio della bandiera a stelle e strisce che porta sul braccio destro. What else? Vi regalo un’emozione: pare che durante le riprese Van Damme spendesse 10.000 dollari a settimana in cocaina.
Di certo non siamo davanti a un lavoro incompleto: nella trattazione dei personaggi femminili lo stendardo alzato al cielo è quello di un sessismo cheap che oggi appare ancora più imbarazzante.
Tra battutine ammiccanti e machismo tossico le donne del film sono rilegate a marionette emotive ed erotiche. Se Cammy White ricopre un ruolo di subalterno per tutta la trama, Chun-Li ha invece un peso differente nell’intreccio narrativo, ma viene sminuita ogni qualvolta rispunti sullo schermo quel tamarro di Guile. Le due interpreti avranno modo più avanti di lasciare il proprio segno nella cultura pop: Ming-Na Wen (Chun-Li) sarà la voce di Mulan della Disney, mentre Cammy è interpretata da – tenetevi forte – Kylie Minogue, lì alla sua prima esperienza cinematografica, avrebbe raggiunto l’apice del proprio successo musicale nel decennio successivo.
Ma non so cosa mi sia preso, sto parlando degli stereotipi di un film action dei Novanta.
Chissà invece cosa avesse in mente Steven E. de Souza, il regista.
Probabilmente niente, o niente di buono.
Street Fighter poggia interamente su un deragliamento di genere.
Per seguire le logiche di mercato dell’ultimo decennio del secolo scorso, l’elemento picchiaduro viene schiacciato in un film d’azione tutto spari ed esplosioni.
Le sezioni di combattimento sono per la maggior parte ridicole – coerentemente con l’atmosfera di tutta la pellicola – e sin dai primissimi frame siamo preda di un’overdose di pistole, fucili, missili. La domanda sorge spontanea e fulminea: nel mezzo di un conflitto a fuoco di portata internazionale, cosa credono di fare i personaggi del film con quattro schiaffoni? Eppure si menano tutto il tempo, e il destino del mondo giace nei pugni nelle loro mani. Ok.
Del resto una scelta del genere non può stupire: De Souza era all’esordio dietro alla macchina da presa, ma fino a quel momento aveva lavorato come sceneggiatore e/o produttore ad alcuni blockbuster del calibro di Commando, Die Hard e I Flinstones; Street Fighter non si discosta troppo da nessuno dei tre.
I 35 milioni di dollari di budget sarebbero potuti essere investiti sicuramente meglio – il problema è che il film fu un successo al botteghino, ovviamente. Ragionando coi terribili dogmi del tardo capitalismo e dell’homo oeconomicus, la maggioranza sosterrà che De Souza ha avuto ragione.
Ma a livello di qualità creativa non si salva quasi nulla: la storia procede nel più classico dei modi (crisi -> arrivano i buoni -> sfida ai cattivi -> e chissà come andrà mai a finire, no?), la regia è didascalica, commentare la fotografia non porterebbe a nulla, e poi c’è Blanka…
Ecco Blanka è strutturato così male che i pochi momenti in cui compare meriterebbero forse di essere visti [ci ho riflettuto meglio: no].
Qualche riferimento ai videogiochi provoca un sorriso, ma l’arrivo del finale è inesorabile e liberatorio, quando nei titoli di coda una voce imita il personaggio di Robin Williams in Good Morning, Vietnam, e con quest’ultima taroccata che è anche un’ulteriore inutile dichiarazione d’intenti, il film finisce.
E invece no: un’ultima scena post credits ci toglie il fiato presagendo un sequel. Ma alla fine, siamo di fronte a una storia a lieto fine: il seguito diretto non uscirà mai.
Vi lascio allora con la migliore storia mai girata partendo dall’amato gioco Capcom: Street Fighter: The Later Years, disponibile su YouTube. Chissà cosa avrebbero combinato questi ragazzi con 35 milioni di dollari.
This post was published on 17 Novembre 2022 12:30
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