Una settimana fa, abbiamo stilato un elenco di cinque meccaniche che hanno rivoluzionato il videogioco cambiando per sempre il modo in cui l’utente interagisce con i mondi virtuali creati per il loro divertimento. Abbiamo parlato del bullet time che ha riscritto i canoni dell’action, ma anche di altri generi in cui questa meccanica è stata riformulata per adattarsi a uno stile di gioco completamente diverso, abbiamo poi spiegato come il parkour abbia rappresentato un’evoluzione per il genere platform, infatti, il gameplay di un videogioco è talmente duttile e plasmabile a piacimento da modificare del tutto il modo in cui si interagisce in titoli che, apparentemente, fanno parte della stessa categoria. Per approfondire maggiormente l’argomento, recuperate la prima parte dello speciale cliccando sul link qui di seguito:
Leggi qui la prima parte dell’articolo
In questa seconda parte dell’articolo sulle meccaniche che hanno rivoluzionato il videogioco, continuiamo il discorso prendendo in esame altri sistemi di gameplay che hanno permesso al medium di progredire così profondamente da raggiungere una complessità che agli albori della sua nascita era quasi impensabile.
Lo S.P.A.V. (Sistema di Puntamento Assistito della Vault-Tec) è uno degli elementi di gameplay caratterizzanti della serie Fallout. Quando abbiamo parlato del bullet time di Max Payne, abbiamo anche citato questa meccanica del gioco Bethesda perché si tratta di uno di quei casi sopra citati in cui una meccanica si evolve e, di conseguenza, viene riformulata per diventare altro anche se proveniente dalla stessa matrice.
Questo sistema di puntamento non era presente nei primi due capitoli di Fallout, i quali proponevano combattimenti a turni molto più classici, ed è stato inserito per la prima volta in Fallout 3 rivoluzionando il combat system di un gioco di ruolo in modo tangibile. La serie Bethesda, infatti, è un gioco di ruolo che ha elementi da sparatutto, non il contrario, pertanto lo S.P.A.V. ha avuto il merito di riuscire a integrare le meccaniche da shooter in prima persona alla struttura ruolistica del titolo in modo del tutto naturale, senza che il gioco si presentasse spaccato a metà: da una parte uno sparatutto, dall’altra un gioco di ruolo.
Le due strutture si sono fuse e hanno creato un sistema organico che non si basa sul semplice level up, la meccanica dello S.P.A.V. è più complessa. In primo luogo, questa consuma Punti Azione (PA), poi in base ai perk sbloccati può risultare più o meno efficace; il sistema di puntamento della Vault-Tec, inoltre, ha una rappresentazione visiva che unisce gameplay e cinematica: quando si mira a un nemico, il tempo si ferma dando modo al giocatore di puntare verso una specifica parte del corpo, ognuna di esse ha una percentuale di successo che varia in base a dei parametri, come distanza dall’obiettivo, statistiche legate alla precisione con una categoria precisa di armi, accuratezza nel colpire una parte del corpo piuttosto che un’altra e, appunto, i perk sbloccati.
La possibilità di scalare i nemici è una delle più grandi conquiste dell’uomo, un po’ come quando il 29 maggio 1953 l’alpinista neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay conquistarono per la prima volta la vetta della montagna più alta della Terra, l’Everest. Colpire un boss gigantesco alle gambe per farlo accasciare e avere l’opportunità di assestare colpi più decisi alla testa o al punto debole non è una meccanica particolarmente dinamica e bella da vedere.
Il climbing sui nemici, invece, restituisce al giocatore la percezione di maggiore spettacolarità e coerenza con il mondo di gioco durante i combattimenti contro avversari mastodontici, perlopiù boss. Questa meccanica era presente in God of War, ma era relegata al completamento dei Quick Time Event (di cui abbiamo fatto menzione nella prima parte dello speciale) che andavano dunque a rendere meno partecipe il giocatore della scalata.
È in Shadow of the Colossus che il climbing è diventato ciò che tutti noi oggi conosciamo. Nell’opera di Fumito Ueda, abbiamo dinamiche da puzzle game integrate nel combat system, il quale non prevede l’abbattimento dei colossi attraverso un sistema hack and slash o l’opportunità di fare danno colpendo qualsiasi parte del corpo. Per fare danno è necessario colpire punti specifici irraggiungibili stando coi piedi per terra. Inoltre, raggiungere i punti deboli richiede lo studio del comportamento del colosso e dell’arena in cui avviene lo scontro.
E così, il colosso stesso diventa un livello da superare con strategia e completando fasi platform, cosa che rende il gameplay di Shadow of the Colossus forse il più complesso tra quelli creati da Ueda, con meccaniche di diversi generi che confluiscono in un sistema unico.
Pugno, calcio, schivata, gadget, pugno, schivata, continuate così fino alla fine del combattimento: questo è il free flow, un modo di concepire il combat system che è stato sdoganato dai giochi della serie Arkham di Batman e ora utilizzato in svariate produzioni come Marvel’s Spider-Man, Mad Max, L’ombra di Mordor, etc.
Il combattimento con il free flow diventa quasi una danza, infatti, questa meccanica viene definita anche rhythmic combat perché legata alla capacità del giocatore di mantenere il ritmo, il quale viene spezzato se si viene colpiti. Un combat system classico solitamente è fatto anche di attesa, di indietreggiamenti e di fughe, invece con il free flow queste tattiche evasive vengono del tutto sostituite dalla schivata che diventa il preludio a un contrattacco immediato.
La serie Arkham di Rocksteady brilla proprio per il suo combat system fluido, fatto di azioni repentine, con zero tempi morti particolarmente adatto a una produzione ispirata a opere fumettistiche americane, con supereroi sempre al centro dell’azione e pieni di gadget da usare sui malviventi di turno. Il free flow ha senza dubbio rivoluzionato il videogioco d’azione perché il concetto di fluidità con esso non è più legato a questioni tecniche, ma integrato nel gameplay stesso.
Con un colpo muori, con un colpo uccidi, questo è anche il titolo di un articolo che scrivemmo qualche tempo fa in cui elencavamo cinque giochi che seguivano questa meccanica, anzi, questa regola (leggi qui l’articolo completo). Una semplice regola può davvero cambiare tutto, negli ultimi anni è nato un sottogenere dell’action che proponendo questa legge brutale ha modificato tantissimo l’approccio dei giocatori nei confronti dei videogiochi d’azione.
La meccanica one hit kills costringe il giocatore a interagire con il mondo di gioco e con i pericoli in esso contenuti in maniera totalmente diversa rispetto al passato più recente. Questa regola ci riporta indietro a quando nei giochi arcade c’erano le vite e un un unico colpo subito, anche da una stupida pianta, poteva farci perdere la run. Oggi le vite non ci sono più, si può ritentare all’infinito, pertanto possiamo definirla una rivisitazione moderna di quella dinamica.
I titoli basati su questa meccanica di gameplay sono perlopiù indie e hanno avuto grande diffusione dal 2012 circa, ovvero dall’uscita di Hotline Miami, a cui si sono poi ispirate moltissime altre opere dal sapore retrofuturistico e distopico, come Katana Zero e lo sparatutto Superhot. I giochi in questione non sono frustranti perché la regola vale sia per noi sia per la CPU, da questo punto di vista risultano equilibrati, con l’unica discriminante che vuole i nemici in netto vantaggio numerico. A quest’ultimo, il giocatore può ovviare con un attento studio della mappa e dei pattern di movimento degli avversari.
La Dual Reality l’abbiamo vista in un solo gioco finora, il thriller psicologico sovrannaturale di Bloober Team, The Medium. Questa più che una meccanica di gameplay è una tecnica sviluppata dal team polacco per aumentare l’immersività nel terrificante mondo di gioco e rendere esplorazione e risoluzione degli enigmi meno schematici, più avveniristici.
E in effetti, The Medium, nonostante un livello tecnico non eccelso, è stato rilasciato solo su console next-gen perché la Dual Reality non sarebbe stata eseguibile su sistemi più datati. Almeno non per come è stata concepita. Questa tecnica, infatti, non solo permette di esplorare e interagire in due realtà contemporaneamente, ma consente di farlo anche senza caricamenti.
La Dual Reality sembra calzare a pennello ai giochi horror, pertanto è probabile che nel prossimo futuro possiamo vederla sfruttata appieno in progetti di quel genere, chissà forse proprio in un Silent Hill.
This post was published on 2 Novembre 2022 16:17
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