Tutto ciò che il giocatore può fare in un videogioco viene dato per scontato perché ormai l’interazione è diventata così complessa e così completa da farci dimenticare che le meccaniche di gameplay non sono state concepite con uno schiocco di dita, ma sono emerse dopo anni di sperimentazione e di progresso tecnologico.
Un buon gameplay è frutto di un’idea, ma più il videogioco si evolve più ha bisogno di una piattaforma che gli permetta di concretizzarsi, di proporsi al pubblico in una forma stabile e di essere abbastanza solido da non far cozzare idea e pratica contro una tecnologia obsoleta. Un esempio abbastanza recente è dato dalla Dual Reality, una meccanica inventata da Bloober Team per il suo thriller psicologico The Medium (leggi qui la recensione) che può funzionare, consentendo l’esplorazione simultanea di due mondi senza caricamenti, solo su console next gen.
Una meccanica di gameplay spesso viene dal passato, questa può rimanere immutata nel tempo oppure modificarsi quasi del tutto dando vita addirittura a nuovi generi, perché il videogioco, anche quando rimane ancorato al passato, deve proporsi in modo moderno per stare al passo con i tempi e con le richieste del pubblico. I survival horror sono perfetti per chiarire questo concetto, infatti, esistono molteplici videogiochi, soprattutto indie, che omaggiano la golden age del genere presentando esattamente le stesse meccaniche e dinamiche dei titoli anni ’90, come Resident Evil e Silent Hill, ma restaurandole e rendendole meno proibitive per chi non è abituato a quel tipo di gameplay (eliminando ad esempio, i tank control).
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Ci sono meccaniche che più di altre sono riuscite a rivoluzionare il videogioco facendo fare un salto di qualità gigantesco al modo in cui il giocatore interagisce con esso. In questa prima parte dell’articolo, ve ne elenchiamo cinque.
Erano tutti morti. L’ultimo colpo fu come il punto esclamativo a chiusura di quello che era successo. Allentai la presa sul grilletto. Era tutto finito.
23 luglio 2001, Max Payne rivoluzionò per sempre i videogiochi action con il bullet time. Con questo termine inglese non si identifica nello specifico l’atto di sparare facendo acrobazie, piuttosto si intende con bullet time la possibilità di arrestare o rallentare il tempo in modo da colpire con più precisione il nemico o addirittura direzionare manualmente il proiettile.
7 maggio 1999, il bullet time si mostra per la prima volta e non in un videogioco, bensì in un film, uno dei capolavori assoluti della fantascienza: Matrix. Da quel momento, rallentare il tempo diverrà un po’ più mainstream nella cinematografia, mentre nel videogioco questa meccanica di gameplay verrà utilizzata sotto varie forme e con diversi appellativi. È Max Payne che sdogana questa tecnica nei videogames rendendola riconoscibile attraverso una spettacolarizzazione non dissimile da uno stylish action, molto più rudimentale.
Un titolo che ha ripreso pari pari il bullet time di Max Payne è Stranglehold, videogioco ispirato al cinema poliziesco orientale in cui sparatorie e arti marziali si fondono, mentre tanti altri hanno attinto recuperando solo l’effetto slow motion e accantonando lo show di salti e proiettili. I due esempi più famosi sono senza dubbio Red Dead Redemption, anzi, Red Dead Revolver, il primo capitolo della serie uscito su PS2, e Fallout.
Nel primo, il bullet time viene definito DeadEye, un meccanica che va simulare il classico duello western, ma con una velocità ridotta che permette al giocatore di mirare a parti del corpo specifiche; nel secondo caso, invece abbiamo lo S.P.A.V. che può essere a tutti gli effetti ritenuto una sorta di bullet time più statico. Con questo, per l’appunto, si rallenta tutta l’azione di gioco per mettere a segno un colpo preciso con tanto di percentuali di successo.
Quick Time Event, premere il tasto a schermo entro un tempo limite. Questa meccanica ha incontrato pareri discordanti soprattutto quando si iniziò a vedere nei primi videogiochi, data la sua natura poco “giocosa”, infatti la critica più comune stava nel fatto che premere i tasti a schermo non fosse vero gameplay, ma una facilitazione del combat system. In realtà, il QTE è molto più importante di quanto si pensi.
Il videogioco che ha dato risonanza ai QTE è God of War, il maestoso titolo di Santa Monica Studio che per la prima volta adottò un sistema di fatality all’interno di combattimenti più complessi e di boss fight. Nel primo God of War per PS2, infatti, il QTE veniva utilizzato come mossa finale per eliminare un nemico, proprio come era prassi in Mortal Kombat, con la differenza che in GoW era obbligatorio portarlo a compimento per mettere fine al combattimento e i tasti erano mostrati a schermo, non facendo parte di un set di mosse da imparare a memoria come in un picchiaduro.
Il QTE è diventato negli anni uno standard nei giochi adventure e con meccaniche di combattimento, utilizzati soprattutto per azioni rapide come risalire da un precipizio per evitare una fatale caduta o liberarsi dalla morsa di un nemico (Resident Evil), tuttavia a oggi il QTE è maggiormente riconosciuto come una meccanica da gioco narrativo. Qui sta la sua importanza. È fin troppo semplice affermare che i videogiochi e il cinema siano diventati un tutt’uno adesso che ci sono produzioni come The Last of Us, Death Stranding e Cyberpunk 2077, molti anni fa si rischiava di essere derisi affermando ciò, pertanto il QTE è stato uno dei primi esempi di incontro tra le due arti perché rendeva la narrativa, attraverso le cutscene interattive, parte integrante del videogioco dal punto di vista ludico.
E oggi sono proprio i videogiochi narrativi a fare largo uso dei QTE, i quali rappresentano il 90% dell’interazione nei giochi che si basano sulla storia. Questo avviene perché il QTE non ha bisogno di essere declinato e adattato, può andare bene già così com’è in qualsiasi genere narrativo: Heavy Rain è un noir, Detroit: Become Human è un’opera di fantascienza distopica, The Quarry un horror, eppure i QTE funzionano alla grande in ogni singolo caso.
Il parkour è uno di quei casi su cui bisogna spendere due parole riguardo all’influenza che certe meccaniche hanno avuto nell’evoluzione dei generi videoludici. Un videogioco che fa uso di parkour, alla fin fine, che cos’è? È un platform. Pensateci bene, il platform è quel genere un po’ decaduto rispetto al passato nella sua forma più classica, a eccezione di indie, vecchie glorie Nintendo e ritorni illustri come avvenuto con Crash Bandicoot 4, in cui lo scopo del giocatore è superare ostacoli e arrivare alla fine del livello saltando. Definizione un po’ banalizzata, ma l’essenza è quella.
Il parkour che cos’è? La Treccani dà la seguente definizione:
Pratica ludico-sportiva che consiste nell’affrontare un determinato percorso superando gli ostacoli che via via si presentano (muretti, scale, fossi, ecc.) con salti, capriole, arrampicate e varie altre acrobazie.
Qual è la differenza tra un gioco di parkour è un platform, quindi? In sostanza, che il primo è l’evoluzione del secondo. Nell’introduzione abbiamo detto che una meccanica di gameplay è sì frutto di un’idea, ma questa poi evolvendosi ha bisogno di una piattaforma, di una tecnologia in grado di supportare la sua evoluzione nel tempo. Ebbene, la mappe sempre più grandi, la quantità di dettagli su schermo sempre più alta, il maggior controllo sul personaggio hanno portato alla fusione del genere platform e dell’adventure dando vita ai giochi di parkour.
Il parkour inteso come superamento acrobatico di un ostacolo è stato sdoganato da Assassin’s Creed e Mirror’s Edge, ma in realtà deriva da un’altra serie Ubisoft da cui si è generata quella di AC: Prince of Persia. È con la trilogia di Prince of Persia che il platform diventa più complesso nelle mosse anche in virtù della possibilità di tornare indietro nel tempo. Il parkour è una meccanica che ha rivoluzionato il videogioco espandendo esponenzialmente le potenzialità del gameplay base di un platform.
16 novembre 2004, Half-Life 2 è il sequel perfetto di un videogioco che ha riscritto i canoni del genere sparatutto. Una caratteristica ecumenicamente riconosciuta come avanguardistica e precorritrice dei tempi riguarda la gestione della fisica. Grazie al Source Engine, il videogioco di Valve poteva vantare una fisica degli oggetti e dei fluidi incredibilmente realistica, cosa che permetteva la sua manipolazione.
In Half-Life 2 era possibile utilizzare a proprio vantaggio la fisica durante il combattimento grazie alla gravity gun, un’arma in grado di catturare gli oggetti modificando la gravità e lanciarli contro i nemici. Quanti headcrab zombie sono stati decapitati da seghe circolari vaganti? Milioni probabilmente. La manipolazione della fisica e la telecinesi sono state poi adottate in seguito da videogiochi a tematica paranormale come Second Sight, Psi-Ops: The Mindgate Conspiracy e Psychonauts, tutti risalenti all’epoca PS2, una generazione incredibilmente fruttuosa e prolifica dal punto di vista della sperimentazione di nuove meccaniche.
Questa meccanica è fiorita ulteriormente grazie all’avanzamento tecnologico degli hardware che ora permettono un realismo e una resa visiva della telecinesi e della manipolazione fisica fuori scala, basti pensare a Control che basa il proprio combat system sui poteri paranormali di Jesse, e a Psychonauts 2 che la sfrutta in un sistema da puzzle game.
Una delle meccaniche più recenti ad aver rivoluzionato il videogioco è il Nemesis System che aumenta maggiormente l’immersione in un ambiente di gioco piuttosto che il gameplay vero e proprio. Il Nemesis System è stato creato da Warner Bros., publisher dei due titoli che ne hanno beneficiato per la prima volta: Shadow of Mordor e Shadow of War. L’azienda è riuscita addirittura a brevettare la feature aprendo un acceso dibattito sulle conseguenze future di un brevetto che si basa su un’idea.
Il Nemesis System è rivoluzionario anche da questo punto di vista, perché prima di allora a nessuno era venuto in mente di mettere un marchio su una meccanica di gioco. Per chi ancora non lo sapesse, questo sistema fa sì che si creino in modo unico, ovvero diverso per ogni giocatore e per ogni run, dei legami tra protagonista e personaggi antagonisti in base all’esito dei combattimenti.
Se si viene uccisi più e più volte dallo stesso nemico, questo immagazzinerà nella sua “memoria virtuale” tutte le situazioni in cui il protagonista lo ha incontrato e le ricorderà, in questo modo il suo agire e il suo modo di porsi nei nostri confronti saranno sempre differenti dalla volta precedente. Questo sistema verrà integrato nel videogioco di Wonder Woman pubblicato sempre da Warner Bros., mentre è difficile trovarlo in altri titoli a causa, appunto, del brevetto.
Uno di quelli che è riuscito a integrarlo è un racing game, Grid Legends, nel quale si creano rivalità tra piloti causate dal comportamento avuto in gara: una speronata o un sorpasso azzardato, ad esempio, porteranno il pilota che subisce queste azioni a ricordarsene e a prendere le dovute contromisure sui circuiti successivi. È un vero peccato che un brevetto limiti l’utilizzo di un sistema così innovativo.
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This post was published on 26 Ottobre 2022 15:33
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