Il remake di Resident Evil 4 è stato annunciato una manciata di settimane fa.
Trattandosi di uno dei titoli più iconici di sempre, è naturale che il frullatore mediatico abbia assorbito la notizia donandole una risonanza pressoché assoluta, tanto che migliaia di nerdacchioni ancora ben lontani dagli ‘enta o dagli ‘anta (beati voi!), evidentemente volenterosi di presentarsi all’appuntamento con il remake pronti e competenti, hanno deciso di recuperare questa gemma e giocarla per la prima volta (non che sia difficile – RE4 è di fatto stato rilasciato su pressoché ogni piattaforma videoludica e non a memoria d’uomo, un po’ come Skyrim) salvo poi abbandonarla dopo una manciata di minuti per urlare il proprio sdegno in quella meravigliosa dimensione che è l’internette.
L’aspetto grafico, tendenzialmente primo grande spartiacque percettivo quando ci si approccia a titoli un po’ vecchiotti (e RE4 ha più di quindici anni sul groppone), è invecchiato bene; ma il movimento del nostro personaggio giocante, l’agente Leon Scott Kennedy di raccooniana memoria, può sembrare goffo, legnoso, a tratti addirittura impreciso.
Il primo vero trauma, quello che spacca la pazienza di ogni giocatore ben abituato alla comoda dimensione del gaming moderno, arriva però quando si cerca di muovere la visuale.
La telecamera è stolidamente piazzata dietro la spalla del nostro caro Leon, fornendo un’inquadratura che nel corso degli anni abbiamo imparato a conoscere e amare in titoli come Gears of War e Dead Space: terza persona, punto di vista over the shoulder.
Come accennato il problema sorge nel momento in cui muoviamo la proverbiale levetta analogica destra (o il mouse, in base alla periferica di nostra scelta) per guardarci intorno: la telecamera può essere spostata di qualche grado, sì, consentendoci di sbirciare a destra, a sinistra, in alto e in basso; ma torna ostinatamente alla sua posizione di partenza: terza persona, over the shoulder.
Una limitazione che crea una dimensione immediatamente scomoda, che rischia di installare fin da subito una spiacevole sensazione di cecità o claustrofobia. Il campo percettivo appare immediatamente compromesso, quello visivo declinato in uno spazio angusto: in un videogioco che si autodefinisce survival horror il non potersi guardare intorno con relativa agilità pare una costrizione imperdonabile.
La situazione, tuttavia, è destinata a peggiorare. Leon può mirare, sì, ed eventualmente anche fare fuoco o ricaricare l’arma ma non mentre si muove.
Leon Scott Kennedy non è più un agente speciale, ma un fragile carro armato che deve scegliere con assoluta cautela la propria mossa in un ambiente che pulsa di pericolo: spostarsi, ricaricare o fare fuoco – una e solamente una di queste azioni. Lo sdegno, nel nostro videogiocatore viziato dalle più moderne declinazioni del cosiddetto gunplay – mira e fuoco durante il movimento, e non come vincolante alternativa a quest’ultimo – è assoluto. Insomma, controlli antiquati e legnosi: la rovina di ogni videogiocatore.
Ma se vi dicessi che, in questa particolare fattispecie, non stiamo avendo a che fare con una grossolana limitazione tecnica, ma una deliberata scelta stilistica e meccanica?
Definire e non limitare
Come già abbiamo accennato i controlli evidenziano le fragilità del personaggio, fungendo da caratteristica meccanica e tematica, e interagiscono in maniera attiva e insostituibile con altri elementi del core gameplay – la velocità dei nemici, i tempi di ricarica e di fuoco, lo spazio di gioco e soprattutto il sound design. In altre parole, il controllo della telecamera è un elemento fondamentale nell’economia del gioco.
Occorre dunque approcciarsi a questa discussione tenendo bene a mente che gli sviluppatori hanno messo a punto Resident Evil 4 trattando i controlli della telecamera e del personaggio come perno imprescindibile, e non come limitazione tecnica da mascherare con malizia (o, in certi casi, con tanta bravura). In altre parole, stiamo parlando di un elemento centrale di design e non di una sfortunata conseguenza di limitazioni tecniche dell’epoca o degli sviluppatori stessi.
Questo appare evidente nel momento in cui andiamo ad analizzare, a livello puramente superficiale, il sound design: il videogiocatore viene addestrato fin dalle primissime sessioni di combattimento a riconoscere i grugniti e i versi che precedono un attacco, permettendogli di scansionare con relativa precisione lo spazio di gioco rimasto fuoricampo.
Ogni elemento del gioco viene telegrafato verso il canale uditivo o, in alternativa, semplificato in indizio che aiuta il videogiocatore a sviluppare una consapevolezza di ciò che lo circonda al di fuori dell’inquadratura della telecamera. È il caso, questo, delle occasioni in cui il nostro Leon (o la sua accompagnatrice Ashley) gira il capo verso destra o sinistra, indicando al videogiocatore la presenza di un pericolo che va affrontato o eluso.
È altrettanto importante sottolineare che i controlli della telecamera – a maggior ragione nelle numerose sessioni di combattimento – vengono sapientemente ricamate nel tessuto narrativo permettendo al gioco di aggiungere un ulteriore strato di tensione.
In altre parole, se il giocatore si può permettere di “mancare di rispetto” a ciò che sta cercando di ucciderlo, ecco che il gioco perde un’importante dimensione tensiva che, nel caso di un genere come quello in questione – un ibrido tra il survival e l’action horror, potremmo dire -, è assolutamente necessaria.
In questo senso “paralizzare” il personaggio durante le fasi di combattimento, spingendo il giocatore a valutare con prudenza quale azione intraprendere (mi muovo in una posizione più favorevole? È necessario sparare? Sarebbe meglio ricaricare?), è l’elemento che regge sulle proprie spalle l’intera capacità di generare tensione di RE4, e permette di intavolare un gunplay onesto che non sacrifica il cosiddetto fear factor.
Survival horror o una partita a scacchi?
Il controllo della telecamera e il modo con cui questo ci obbliga a scegliere con perizia la nostra prossima azione è un espediente che permette di declinare il piano di gioco, apparentemente frenetico e caotico, in uno spazio straordinariamente organizzato e matematico che potremmo trovare, ad esempio, nei giochi a turni.
Adottando questo approccio ecco che possiamo immaginare RE4 come una partita a scacchi in tempo reale: a ogni nostro input segue un’azione – movimento, ricarica, fuoco, cura e via dicendo – a cui, a sua volta, segue una reazione equivalente e contraria da parte degli antagonisti. Ho mosso la pedina Leon in avanti? Bene, il Ganado davanti a lui proverà a chiudergli la strada o ad anticipare il suo movimento intercettandolo con un fendente. Ho ordinato alla pedina Leon di ricaricare? I nemici saranno attratti dalla temporanea disabilità e tenteranno di avvicinarsi, di chiudere il gap, di circondarci.
In definitiva dire che i controlli limitano il movimento del personaggio è una sentenza seducente, ma errata: sarebbe più corretto dire che invece lo definiscono. Di nuovo, lo ripeto per chi si era seduto in fondo – i controlli della telecamera sono la pietra angolare che regge la cattedrale Resident Evil 4.
Assumiamo tuttavia, per il bene della conversazione, che si tratti effettivamente di una limitazione: in contesti creativi, tuttavia, i limiti non sono mai sinonimo di censura, ma rappresentano invece un fertile terreno in cui coltivare la propria inventiva.
Capcom? No, Michelangelo Antonioni
Avete mai provato a raccontare una storia in appena cento parole? A scrivere un intero racconto in una singola cartella editoriale, da 1800 battute? Se la risposta è no, il meglio che possiamo fare è di fatto esortarvi a provare: quelli che una prima, distratta occhiata potrebbero apparire come fastidiosi freni, limiti tirannici che finiscono per ridurre la vostra fantasia in una dimensione insufficiente e definita, si riveleranno invece stimolanti elementi che andranno a definire la vostra produzione creativa.
Petrarca ha fatto scuola con il sonetto, quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine a rima alternata o incrociata e in due terzine a rima varia. Pensare che Dante abbia declinato la Divina Commedia in 100 canti e una accorta struttura tripartita senza andare incontro alle sopracitate (e apparenti) limitazioni significa, francamente, essere in malafede o piuttosto sottovalutare la capacità del poeta fiorentino come costruttore di testi.
Costruire, ecco: non a caso qualche paragrafo qua abbiamo paragonato i controlli alla pietra angolare, o se preferite alla colonna portante, che regge Resident Evil 4. Come potrebbe un qualcosa che impedisce a una struttura complessa di collassare essere un limite?
Possiamo immaginare Resident Evil 4 come una produzione del migliore (o peggiore?) cinema Moderno, un film di Michelangelo Antonioni: un po’ spigoloso, antidogmatico, volto a destabilizzare lo spettatore (o, in questo caso, il giocatore) creando un mondo in cui non ci è concesso scivolare all’interno con un comodo movimento fluido.
C’è piuttosto una sfida, una richiesta di un certo investimento cognitivo per abitare uno spazio che di fatto è sconveniente, ma dannatamente affascinante.