“Conosco il suono che provoca una vera pistola, ma quando fai un film cerchi di influenzare i sensi per restituire l’idea del mondo reale, e talvolta riportare quel suono direttamente della realtà non ha lo stesso effetto sullo spettatore. Se pensi ad Half Life, Resident Evil o The Last of Us, quando ti muovi in quei mondi conta tantissimo il sound design. Quando è buio o ti muovi in spazi oscuri, è il suono che crea suspense. La televisione e il cinema influenzano i videogiochi, e i videogiochi restituiscono il favore. Tutto si influenza a vicenda.”
Sono le parole di Cary Fukunaga, il creatore di True Detective, durante un’intervista per IGN mentre raccontava il suo approccio al suono in No Time to Die fortemente legato ai videogiochi, mettendo in luce un legame ormai indissolubile che si è creato tra il linguaggio cinematografico e quello videoludico.
Un legame che analizzeremo per le prossime righe, citando alcuni dei progetti che più si sono fatti carico di questa magica alleanza tra cinema e videogioco.
Senza Indiana Jones probabilmente non avremmo mai messo le mani su Tomb Raider o Uncharted. Senza Alien forse non saremmo mai riusciti a trucidare orde di mostruosi alieni in titoli come Doom, Dead Space o Metroid. Se non fosse arrivato Matrix, probabilmente Max Payne sarebbe uscito lo stesso, ma non avrebbe avuto l’iconico bullet time che tanto ci conquistò all’epoca.
Vogliamo parlare del pluripremiato The Last of Us?
Oltre il taglio cinematografico che segna l’intero brand, lo stesso Neil Druckmann ha ammesso di averlo modellato ispirandosi a film come Non è un paese per vecchi dei Fratelli Coen o Unforgiven di Clint Eastwood, con atmosfere e scelte narrative vicinissime a post apocalittici del calibro di Children of Men diretto da Alfonso Cuarón, o The Road di John Hillcoat (anche se in questo caso dobbiamo ringraziare soprattutto il leggendario scrittore Cormac McCarthy) e 28 giorni dopo firmato Danny Boyle.
La lista dei giochi ispirati e influenzati dal cinema potrebbe proseguire per moltissime righe, invece noi andremo nella direzione opposta, ancora fin troppo poco esplorata.
Vi siete mai chiesti quali sono i registi che, senza i videogiochi, sarebbero stati autori completamente diversi? Quali sono i titoli che, senza l’uscita di un particolare videogame, forse non sarebbero proprio mai nati?
Non ci riferiamo a semplici adattamenti, ma di ispirazioni che provengono dal mondo videoludico, influenze così profonde che vanno a toccare la regia, la messa in scena, la struttura narrativa, il cuore del film o di un particolare episodio di una serie televisiva.
Pronti?
Si comincia dal re.
Iniziamo con il cult che deve tantissimo ai videogiochi e che segnò la storia inaugurando il legame tra i due media figli dello schermo, cambiando per sempre il futuro dell’industria cinematografica. Tron è un racconto di fantascienza visionario, sperimentale e allo stesso tempo carico di elementi tradizionali, che ha il merito di aver costruito e raccontato per la prima volta un mondo virtuale, quando lo stesso concetto di “virtuale” non era ancora radicato nell’immaginario del pubblico.
La storia, fortemente ispirata ad Alice in Wonderland, è incentrata sulle avventure di Flynn, un programmatore di videogiochi che si ritrova per una serie di imprevisti a compiere un viaggio in una realtà digitale, abitato da programmi con fattezze umane e governato dal tirannico Master of Control. La malvagia intelligenza artificiale, programmata per proteggere la banca dati della compagnia che lo ha creato, costringe i programmi ribelli a combattere fino alla morte come gladiatori, in arene e giochi ispirati ai titoli arcade del tempo.
L’idea di Tron nacque proprio quando Lisberger mise le mani sul joystick di un cabinato di Pong, uno dei giochi più famosi degli anni ‘70, e iniziò a fantasticare sui due trattini che si contendevano la palla cominciando a visualizzarli come dei gladiatori virtuali. Partendo da questa visione, applicata anche ad altri arcade come i leggendari Space Invaders e Pac-Man, ci volle poco per iniziare a immaginare il mondo digitale di Tron. Una dimensione che vive autonomamente, con una sua società e cultura, al di là dello schermo dei cabinati e dei computer. Dobbiamo a Pong anche l’ispirazione che ha dato vita all’iconica battaglia dei dischi: un vero e proprio arcade live-action.
Per riuscire a riportare su schermo questo peculiare effetto lo studio ha dovuto ingegnarsi particolarmente, girando le scene all’interno di studi con pareti nere, in modo tale che le bianche tute disegnate da Moebius fornissero un contrasto efficace. Dopo di che, per realizzare gli effetti speciali su oggetti e persone, utilizzarono un mix di tecniche come il matte painting, il rotoscope e il back light. Sovrapponendo anche venti lastre per un unico frame, ritagliate e colorate rigorosamente a mano, l’iconico colpo d’occhio di Tron prese così vita.
L’impatto del film di Lisberger sull’immaginario odierno è incalcolabile, e non sarebbe azzardato vedere dietro questo cult i semi che daranno vita anni dopo a titoli dalla fama gigantesca, come Matrix o anche le amatissime storie giapponesi etichettate “Isekai”, oggi ancora più note grazie a serie anime come Sword Art Online.
Forse il titolo che è riuscito meglio e con più naturalezza a incorporare organicamente nel linguaggio cinematografico numerosi elementi caratteristici di altri medium. Utilizzando in ogni scena soluzioni tipiche del fumetto, degli anime e soprattutto dei videogiochi, il regista della “trilogia del cornetto” con Scott Pilgrim vs. The World mette in piedi un film dalla cifra stilistica assolutamente memorabile.
L’adattamento di Wright, tratto dal fumetto altrettanto grottesco di Bryan Lee O’Malley, non si lascia intimidire neanche un momento dalle reference e le stravaganti influenze videoludiche che permangono nelle tavole, piuttosto le accoglie con quintali di passione e le coltiva fino a renderle più invadenti che mai.
Il profumo di videogiochi si comincia a sentire sin dai primissimi secondi con l’apparizione del logo Universal, realizzato in pixel art e accompagnato dalla cover 8bit dell’iconico tema, una scelta che ha il sapore di una dichiarazione d’intenti.
Fino all’arrivo dei titoli di coda sarà infatti un continuo di riferimenti videoludici e suoni presi direttamente da noti titoli giapponesi: come Zelda, Super Mario o Street Fighter. Ma il titolo che più ha influenzato il sound design di Scott Pilgrim è stato sicuramente The Legend of Zelda: durante le transizioni e la presentazione di un nuovo ambiente o personaggio, sentirete quasi sicuramente una delle tante melodie presenti nei numerosi capitoli della famosa IP Nintendo.
La storia stessa ha una struttura perfetta per un videogame tradizionale: proprio come il fumetto, il film è incentrato sulle grottesche avventure amorose e musicali di Scott, bassista degli emergenti Sex Bob Omb, a cui viene sconvolta l’esistenza dall’arrivo della misteriosa e magnetica Ramona Flowers. L’onirico incontro darà inizio ad una grottesca storia d’amore, che potrà continuare soltanto se il nostro protagonista riuscirà a sconfiggere i sette malvagi ex di Ramona. Piccola parentesi: la struttura “da videogame” non è passata inosservata a Ubisoft, e infatti è nel 2010 che pubblica un picchiaduro a scorrimento basato sulle avventure di Scott e amici, intitolato Scott Pilgrim vs. The World: The Game. Se volete sapere perché vale la pena riscoprirlo, oggi come nel 2020, potete cliccare qui.
Forse i momenti dove l’influenza dei videogiochi emerge in tutto il suo splendore sono proprio gli scontri con i famigerati sette. Oltre gli elementi stilistici palesemente ripresi da anime e fumetti, la messa in scena viene parecchio arricchita da effetti visivi e tagli registici pescati direttamente da picchiaduro famigerati come Tekken o Street Fighter, con tanto di barra della vita, hit combo e inquadrature statiche, dove i personaggi sono divisi da un famigliare e tostissimo “VS”. Il tutto ovviamente rigorosamente accompagnato dall’immancabile voce profondissima che annuncia i nomi dei combattenti, con tanto di “KO” finale. Inoltre è impossibile dimenticare di citare la manciata di coin che appaiono alla sconfitta di ogni avversario, anche in questo caso supportato dall’iconico “dlin” preso dal sound di Super Mario.
Per comprendere la cura maniacale con cui Wright e il suo team hanno affrontato il progetto, vi invito a notare quante volte i personaggi in scena sbattono gli occhi. Ve lo dico io: pochissime. Questo perché Wright ha richiesto agli attori di tenere gli occhi aperti il più possibile e dare quello sguardo fisso, costante e quasi totalmente privo di “blink”, che soltanto le esigenze dell’animazione possono regalare. Questo, insieme a tutti gli altri accorgimenti, è l’approccio creativo e insolito che ha reso questo film assolutamente indimenticabile.
Sul legame tra videogiochi e Red c’è soltanto una parola da dire: Nintendo. La regista del 25° lungometraggio Pixar ha confessato il suo amore per la casa giapponese durante un’intervista con il Washington Post, dove racconta come il forte sentimento è nato sfruttando le qualità stealth del Gameboy: grazie alla sua natura portatile era piuttosto facile da celare agli occhi dei genitori particolarmente apprensivi.
Una volta messo piede nella temutissima “erba alta” di Pokémon Rosso, il colpo di fulmine è stato inevitabile e così tanto significativo da portarla a disegnare Pokémon a rotta di collo tra i banchi di scuola, iniziando i suoi primi esperimenti con la matita. La passione della regista tuttora non è scomparsa, tra i complici troviamo la Switch altre console di ultima generazione, ma la casa madre di Super Mario rimane ancora oggi tra le più importanti fonti d’ispirazione.
Un titolo in particolare dell’ultima generazione Nintendo ha ispirato fortemente la regista e la production designer Rona Liu, soprattutto per quanto riguarda ambienti e scenografie: stiamo parlando di The Legend of Zelda: Breath of the Wild.
L’ultimo grande capitolo della saga fantasy ha portato Shi e il suo team a chiedersi come potevano creare in Turning Red un colpo d’occhio così efficace, vedendo in Breath of the Wild l’esempio di un mondo armonioso e di facile lettura, ma allo stesso tempo vivo e ricco di dettagli.
Domee Shi ha anche tentato di replicare nel suo film l’estetica pacioccona e “cute” tipica dei vari titoli Nintendo: come Super Mario, Pokémon, Earthbound o Splatoon. Più in generale i lavori di Shi rivolgono spesso lo sguardo al 3D proposto nell’industria videoludica, un contesto in cui l’autrice Pixar trova sempre più intraprendenza e sperimentazione.
Continuiamo con un altro film recentissimo: il prequel di Predator. Grazie all’inedito setting e un ritorno alla caccia più primordiale, Prey è riuscito a dare nuova linfa vitale all’amata saga iniziata nel 1987, conquistando nuovi e vecchi fan in tutto il globo. Ambientato nel 1719 tra i territori Comanche dell’America Settentrionale, il film segue le vicende dell’aspirante cacciatrice Naru, interpretata dalla talentuosa Amber Midthunder, che ovviamente si ritroverà ad affrontare uno Yautja, la razza aliena simbolo del brand.
La protagonista di Prey è parecchio lontana dalla vena muscolare tipica del franchise, mostrandosi come un personaggio decisamente più strategico e ingegnoso dei suoi predecessori, ma non per questo meno pericoloso. Nonostante tutto, Dan Trachtenberg si è ritrovato più volte a cercare ispirazione in un personaggio nerboruto quanto Schwarzenegger: stiamo parlando di Kratos, il possente e amatissimo protagonista di God of War.
Lo stesso regista, dopo aver confessato la sua eccitazione per l’uscita imminente di God of War: Ragnarok, ha parlato dei due elementi ricorrenti nel film ispirati direttamente dal reboot vichingo sviluppato da Cory Barlog e il team di Santa Monica. L’arma di Naru è infatti basata sul Leviatano, la magica ascia in grado di ghiacciare i nemici e tornare tra le mani del suo possessore, proprio come il famoso Mjolnir di Thor. In Prey, la cacciatrice non ghiaccia nessuno ma può lanciare il tomahawk e “richiamarlo” tirando la corda legata al manico dell’arma, offrendo un taglio decisamente meno fantasy e distruttivo di GOW, ma abbastanza efficace per imbastire scene d’azione spettacolari.
Un altro frammento del gioco di Santa Monica possiamo notarlo facilmente nello scudo “trancia-teste” utilizzato dal predator: retrattile e generato da un bracciale, proprio come lo Scudo del Guardiano sfoderato da Kratos nel 2018.
Un connubio interessante con i videogiochi possiamo notarlo anche nella struttura della sceneggiatura, un legame già intuito e approfondito dal nostro buon Fabio Antonucci, in un fantastico speciale che potete leggere proprio qui. Fidatevi, non fatevelo scappare.
Concludiamo la nostra carrellata con l’unica serie tv in lista: Mr.Corman è un comedy-drama prodotto dall’eccentrico studio A24 e distribuito sulla piattaforma di AppleTV+. Lo show è creato, diretto, interpretato e sceneggiato (in gran parte) da Joseph Gordon-Levitt. Per alcuni è stata una piccola perla che si è spenta troppo presto, per altri è l’ennesima serie che non guarderanno mai.
Se lo chiedete a me, il centralissimo ruolo di Levitt ha portato un’inedita libertà creativa, permettendo la nascita di una delle serie più interessanti e stravaganti degli ultimi anni, dal sapore squisitamente intimo e autoriale. Tutti pregi che non sono riusciti ad attirare il grande pubblico, determinandone così la cancellazione dopo una sola stagione. L’unico “ma” di questa storia è che Mr.Corman rimane comunque una serie assolutamente godibile (anche grazie alla degna chiusura che offrono gli ultimi episodi), piena zeppa di trovate stilistiche originali e una messa in scena carismatica.
Uno dei tanti esempi, che mostrano la particolare essenza dello show, lo troviamo in molte scenografie, alcune addirittura realizzate interamente con dei collage di riviste e giornali. Sono difficili da dimenticare anche i momenti in cui le atmosfere oniriche si sovrappongono alla realtà, anche nel bel mezzo di un dialogo, dando inizio a una grottesca sequenza musical, divertente e dal retrogusto drammatico, proprio come il resto dello show. Mentre nel quinto episodio, intitolato non a caso Action Adventure, possiamo mettere gli occhi su un combattimento confezionato da una regia estremamente influenzata dai picchiaduro old school come Street Fighter II.
Ci troviamo alle ultime chiacchiere alticce dopo un triste festa di halloween quando, dopo una colluttazione sull’asfalto, il mondo di Mr. Corman si trasforma come per magia. I protagonisti passano da un parcheggio ad una scenografia realizzata interamente in green screen e carica di effetti in CGI, utilizzati per simulare al meglio i grotteschi effetti e ambienti tipici del franchise Capcom.
C’è persino la folla che circonda l’arena, dando vita al rituale sfondo dove si esultava in bassa risoluzione. Come da tradizione, i personaggi che compongono gli spettatori sono animati con pochissimi frame che si ripetono in un loop scattoso ed estremamente familiare, tanto da sembrare di essere entrati all’interno di un cabinato.
Alcune scelte registiche e personaggi sono un chiaro mezzo per farci sentire anche tra le pagine di un fumetto americano, Levitt costruisce così un altro interessante caso di cinema che prende in prestito vocaboli da più medium per raccontare la propria storia, come accade in Scott Pilgrim vs. The World di Edgar Wright.
A proposito del bassista dei Sex Bob Omb, anche per quanto riguarda la sceneggiatura, i toni e i personaggi, non sarebbe troppo azzardato definire la serie di Levitt quasi una versione adulta e drammatica di Scott Pilgrim. Quindi, se siete dei fan, ora avete una scusa in più per recuperare le disavventure del fantastico Mr. Corman.
I videogame ci dimostrano anno dopo anno come possono ridare una vibrante vita al cinema e alla televisione, soprattutto quando vengono messi nelle mani di autori capaci e sinceramente appassionati. I registi ispirati dai nostri amati videogiochi non sono finiti qui e vi posso assicurare che presto torneranno a infestare i nostri schermi o le pagine virtuali di Player.it.
This post was published on 9 Novembre 2022 12:30
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