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Speciali

Morte, difficoltà e frustrazione: la tanatofobia attraverso Dark Souls e Outward

L’avvento dei Souls ha portato le community prima e l’industria dopo ad interrogarsi sulla difficoltà nei videogiochi.

Già prima dei Souls si poteva ravvisare una netta differenza tra giochi difficili e facili. Con i giochi From Software però, è stato squarciato il velo che divideva in maniera netta le due categorie di giochi e di giocatori.

I casual e gli hardcore gamer hanno trovato in Dark Souls un punto di connessione non da poco, grazie alle infinite modalità d’approccio che il gioco offre. Ad esempio, è possibile alzare la difficoltà della sfida giocando determinate classi iniziali che offrono meno privilegi di altre come il Discriminato.

Al contrario, ci saranno stratagemmi che permetteranno di rendere l’esplorazione più gradevole, evitando di morire con un colpo dato dal primo nemico incontrato.

Giochi come i Souls tendono ad abituare i giocatori ad esperienze di livello molto alto sotto tanti punti di vista. Dall’interazione con l’ambiente alla narrazione, dal level design al combat system. Un giocatore veterano, sentendosi orfano, potrebbe cercare rifugio in altre avventure, altri mondi che potrebbero offrire esperienze di un livello almeno paragonabile.

E alla fine arriva Outward…

E si riparte per Cierzo

Fu così che giocai Outward, ovvero un action RPG sviluppato da Nine Dots Studio.
Il gioco si presenta come un viaggio immersivo che il giocatore dovrà affrontare, solo o in compagnia, verso mete non meglio definite ed è la perfetta rappresentazione della locuzione “non importa la meta ma il viaggio“.

Giocare ad Outward offre tanti spunti: si può discutere del fascino dell’abbandono che il giocatore subisce, attraversando un mondo in cui non vi saranno fasci luminosi a guidare la via o puntini da raggiungere; si può parlare della libertà offerta in tema di personalizzazione del viaggio, unico per ogni giocatore a seconda delle scelte fatte e degli armamenti utilizzati.

O ancora, si può discutere della difficoltà del gioco!
Checché se ne dica, Outward rappresenterà una vera sfida per i giocatori.
Ogni avversario sarà temibile, anche il più infimo bandito potrebbe distruggerci se non affrontato con la giusta attenzione; ingaggiare uno scontro richiederà grande preparazione e gestione delle risorse oculata. La componente survival non sarà da sottovalutare, dovendo tenere sott’occhio statistiche come fame, sete, temperatura corporea, sonno ecc.

Eppure, nella discussione degli appassionati del mondo RPG, parlando di giochi difficili, Outward non viene mai menzionato. Ed anche il sottoscritto, veterano dei Souls, trovandosi a giocare ad Outward non avvertiva la frustrazione che Dark Souls dà d’emblée. Quello che non riuscivo a capire era da dove arrivasse quella sensazione.

La morte come punizione: l’esempio di Dark Souls

Che incubo sta scritta oh

Al netto delle similitudini tra i due titoli che lasciano intravedere quanto Outward sia fortemente derivativo dell’opera di Hidetaka Miyazaki, la più netta differenza ravvisata, sta nel game over, nella morte.

La morte in Dark Souls è un concetto a cui il giocatore viene posto di fronte immediatamente. Ci si muove in un mondo in parte morto, in parte morente. La non-morte è la piaga di Lordran, la condanna che i marchiati dovranno portare fino a diventare vuoti ed impazzire, fino a perdere la loro anima.

Dunque morire, già narrativamente ha un peso non da poco.

Inoltre morire in Dark Souls (soprattutto nei primi due capitoli della saga) significa riaffrontare zone impervie, lunghe ed insidiose con checkpoint nascosti ed ostici da localizzare. Molto spesso si spendono più ore a raggiungere un boss piuttosto che ad affrontarlo. Morire era quindi per il giocatore una perdita di ogni progresso: ogni nemico, anche il più ostico, sarebbe ritornato e sarebbe dovuto essere affrontato ancora, le anime sarebbe state ad un passo dall’essere perdute per sempre, una disattenzione avrebbe potuto far buttare al vento ore di esplorazione.

Game over e si riparte- Outward

Un falò, una tenda e un cappello buffo

Anche in Outward esiste il game over ovviamente. Ma mai si muore. In Outward impersoneremo dei semplici umani, senza alcun potere di rinascita perenne, non esisterà il concetto d’immortalità. Ogni qualvolta arriveremo a finire i punti vita, ci accasceremo al suolo e qualcosa sopraggiungerà a salvarci o a catturarci o a liberarci.

Potremo risvegliarci in una prigione vestiti solo di stracci, dovendo cercare un modo per liberarci. O magari, riprenderemo conoscenza accanto ad un falò acceso nella foresta, dopo essere stati salvati da un avventuriero di passaggio, con una nota scritta da lui in cui ci raccomanderà di fare più attenzione.

In ogni caso, ci sentiremo all’interno di una narrazione, di un disegno più grande e nessun progresso verrà perso. Semplicemente ci riprenderemo, dopo aver mangiato e bevuto a sufficienza e zaino in spalla ripartiremo, alla scoperta di un nuovo dungeon o di una creatura da abbattere.

Quando la difficoltà è solo frustrazione?

C’era una mosca sullo schermo mi sa

Partendo da solo due esempi, potrebbe apparire un po’ affrettato giungere a conclusioni concrete. Tuttavia, affrontando questi due singoli casi, si può ravvisare un pattern nella percezione della difficoltà nei videogiochi e di quando questa diventa semplice frustrazione.

In Dark Souls la morte è una condanna. Morire significa riaffrontare nemici, non importa quanto forti. Morire significa perdere anime (la valuta del gioco). Morire significa diventare sempre più vuoti. La percezione di difficoltà nei titoli From Software è sicuramente legata alle meccaniche di combattimento che richiedono una certa precisione per essere padroneggiate, ma l’impatto sulla psiche del giocatore non è dato solo da queste.

A turbare il giocatore che inizia per la prima volta Dark Souls è l’incredibile punizione a cui si è sottoposti dopo essere morti. E quella che potrebbe essere difficoltà legata semplicemente al combat system, rischia di diventare frustrazione. La frustrazione di aver sprecato tempo in una sessione di gioco inconcludente, la frustrazione del non riuscire a racimolare abbastanza strumenti per potenziarci, la frustrazione di una morte punitiva.

Di contro, Outward, che non vuole sicuramente essere amichevole in quanto a nemici e combat system, risulta parecchio più gradevole ed appagante poiché la morte serve si a punirti, ma non ti darà mai la sensazione di abbandono e smarrimento di un Souls. Rinascendo, ciò a cui si dovrà pensare sarà solamente come andare avanti, senza anime da recuperare, senza nemici da riaffrontare, senza vincoli di sorta.

Chi ha ragione? Tanatofobia ed empatia

Il cupo mietit–ah no

La ragione, scriveva Aristotele nell’Etica Nicomachea, sta nel mezzo; o almeno quasi sempre è così. Spesso la ragione, semplicemente, non c’è, questo perché ogni giocatore dovrà potersi sentire libero di vivere il videogioco come preferisce.

Tuttavia, la psicologia ci viene in soccorso.
La morte è sempre stato uno degli argomenti che sin dall’antichità ha alimentato discussioni e dilemmi. Grandi pensatori hanno sviscerato il tema, come Lucio Anneo Seneca che nellaConsolatio ad Marciamdescrive la morte come “liberazione di tutti i mali“. In psicologia, grazie all’esperienza umana passata, è stato sviluppato il concetto di tanatofobia ovvero paura della morte.

La tanatofobia può avere tante derive: si può temere la morte in quanto portatrice di sofferenza o in quanto sottrattiva del futuro, nostro o dei nostri cari. O ancora, si può temere l’incognita di cosa ci sia dopo la morte. Temere la morte può portare ad un perenne stato d’ansia ed angoscia che renderà più dure le nostre giornate, più acute tutte le sensazioni.

Non esiste purtroppo uno studio che approfondisca il legame tra morte e videogiochi quindi proviamo a trarre delle conclusioni empiriche: la peggior arma a doppio taglio di cui è dotata l’umanità è l’empatia.

Una persona empatica può avere il pregio di saper sempre comunicare in maniera efficace coi propri interlocutori; d’altro canto, potrebbe ritrovarsi a soffrire per situazioni che non la toccano direttamente ma in cui riesce ad immedesimarsi.

Non viene quindi molto difficile pensare a come giocare ad un videogioco parecchio immersivo, che fa della morte una delle sue più grandi armi di narrazione, possa alimentare in una persona estremamente empatica una sensazione di pesantezza, ansia e smarrimento.

Massimo Barale, psicoterapeuta siciliano, parla della tanatofobia sul suo blog, titolando “quando la paura di morire ci impedisce di vivere”. Mutando il contesto di questa espressione ed adattandolo al mondo del videogioco (in maniera totalmente rispettosa per chi manifesta questi problemi nella vita di tutti i giorni), non potrebbe forse esserci maggior inquietudine esistenziale affrontando un gioco dove la morte è quanto di più punitivo ed annichilente si possa pensare per il giocatore?

Può dunque esistere un meccanismo che ci permette di trasferire emozioni e sensazioni della vita di tutto i giorni, in un contesto come quello del videogioco?

Giocate informati

Tanto si è fatto negli ultimi anni per sensibilizzare la società su problemi che richiedono trattamenti psicoterapici, dando alla psicoterapia un’autorevolezza diversa rispetto al passato.
Curare la mente quanto il corpo è diventato un mantra che, fortunatamente, ha portato tali problemi ad essere assimilati con occhi diversi, con maggiore maturità e coscienza.

Il medium videoludico, come discusso qui, fa ancora una certa fatica a farsi percepire come matura estrinsecazione della creatività umana. E dove c’è creatività c’è arte e con l’arte viene la sensibilità. Il videogioco è vascello di sensibilità e dove vi è sensibilità, è giusto che vi sia attenzione. Un’attenzione smodata al fragile animo umano.

Data la discrepanza di percezione nel grado di autorevolezza che si dà alla psicoterapia piuttosto che al videogioco, è attualmente molto difficile trovare studi approfonditi, che riescano a dare una visione sui tanti dettagli che il medium porta con se. Il collegamento tra tanatofobia e morte nel gioco, con conseguente frustrazione ed ansia, è solo un aspetto. Non bisogna trascurare le sensazioni che si provano quando si videogioca poiché potrebbero rivelarci molto più di quel che pensiamo.

Tale aspetto deriva dalla semplice esperienza del redattore e dall’analisi delle community videoludiche di quei giochi definiti difficili. Capire cosa accomuna un filone di giochi, aiuta a capire meglio un fenomeno ed analizzarlo nella sua totalità.

Riconoscere una paura e razionalizzarla, è il primo passo verso un game over più sereno.

 <<L’infelicità ostinata ha un solo vantaggio, che finisce per rendere forti coloro che continuamente colpisce>>

Lucio Anneo Seneca

This post was published on 5 Novembre 2022 12:30

Pietro Falzone

Redattore Appassionato di videogiochi sin dal sempre più lontano 2002, quando per festeggiare i 5 anni ricevette una copia di Crash Bandicoot per la prima PlayStation. Il richiamo dell'avventura digitale lo fece innamorare di un mondo fatto di pixel, più o meno definiti. E l'amore non si è mai fermato. Inizia così a tastare tutti gli aspetti del mondo videoludico. Tra le sue più grandi passioni, si piazzano in ordine gli MMORPG (con sempre meno per giocarli, purtroppo), gli sparatutto in prima persona e, doprattutto, giochi di ruolo single player. Così si spiegano le più di mille ore, spalmate sui vari titoli From Software, da Demon's Souls in poi. Dalla fine delle medie, scopre una nuova passione: la scrittura. E come se non bastasse, scopre che nel mondo c'è chi scrive riguardo ai videogiochi, come se fosse un lavoro vero. Cosa fare di due passioni del genere dunque? Inizia così la ricerca disperata del giusto vascello, che riuscisse a convogliare voglia di fare, idee e tempo. Dopo un periodo passato a peregrinare, tra siti e sitarelli, approda su Player.it dove trova una casa in cui convogliare idee e spunti, al fianco di un team solido e costruttivo.

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