Il retrogaming è croce e delizia del giocatore moderno che non vuole dimenticare le sue radici, rinnegare il suo passato, quando una sala giochi era tutto il suo mondo e una vecchia console appena ricevuta in regalo dai genitori diventava un naturale prolungamento della sua fervida fantasia fanciullesca. Fare retrogaming non sempre è semplice e immediato per svariati motivi. La volontà di emulare un vecchio software può aprire molteplici discussioni dal punto di vista sia legislativo sia etico perché i diritti d’autore sono materia spesso oscura. Tralasciando, però, questo tipo di discorso, concentriamoci sulla questione più pratica, ovvero le difficoltà che si possono riscontrare nel reperimento di certi videogiochi o nell’avere ancora a disposizione l’hardware originale.
Gli stessi emulatori non sempre sono a prova di ignorante della materia, cosa che può alla lunga frustrare chi cerca un momento nostalgia o chi vorrebbe comprendere come fossero i giochi di una volta. E se vi dicessimo che si può fare retrogaming giocando agli indie? Non si è soliti pensare a queste soluzioni alternative, tuttavia se ci riflettete bene l’industria videoludica indie spesso e volentieri strizza l’occhio alle glorie del passato, permettendo di conoscere come siamo giunti al videogioco moderno.
A oggi, gli indie sono nettamente più avanguardistici rispetto a quando questo nuovo modo di concepire i videogiochi si presentò al grande pubblico; tale novità veniva anche posta in antitesi al concetto di Tripla A, tanto che per un periodo di tempo non pochi hanno considerato gli indie come i buoni e gli AAA come i cattivoni perché prodotti da grandi multinazionali. Attualmente, invece, gli indie hanno raggiunto una consapevolezza enorme e riescono a proporre esperienze visivamente e ludicamente incredibili grazie a hardware più potenti, motori grafici con prestazioni altissime e, sì, anche maggiori risorse economiche offerte proprio dalle grandi aziende, come Sony, Microsoft, Nintendo, EA e tante altre.
Rimangono però preponderanti quegli indie che mostrano la loro natura più intima e visivamente più vicini ai giochi del passato. La scelta di sviluppare un gioco dalla veste retrò è data senza dubbio in certi casi dalla volontà di sfruttare le proprie risorse al meglio concentrandosi sulle idee, sulle meccaniche, ma ormai non è più così raro che questa scelta venga presa con un obiettivo ben preciso: omaggiare i videogiochi del passato. Alcuni generi, addirittura, che prima proliferavano sulle console di quarta, quinta e sesta generazione sono tornati in auge proprio grazie agli indie. È dunque possibile fare retrogaming (alternativo) grazie agli indie.
Cosa dà fastidio più di ogni altra cosa, dal punto di vista ludico, a chi fa retrogaming? Molti risponderanno la grafica vecchia, a mio modo di vedere, invece, si tratta di un falso mito. Se fosse davvero la grafica, gli stessi indie che si mostrano visivamente come i giochi di trent’anni fa non farebbero successo, questo perché il concetto di grafica è ormai stato sostituito da quello di estetica. Uno sviluppatore indie che lavora a un gioco in 8 bit non sta davvero facendo un gioco a 8 bit, sta simulando quel tipo di grafica, è pura estetica. Infatti, i giochi con grafica retrò hanno in realtà tutti gli asset in full hd, pertanto l’estetica di quel tipo è perlopiù “accettata”. Discorso diverso per gli AAA perché in quel caso se ne fa un discorso meramente economico del tipo: “Grande azienda ha speso milioni di dollari e la grafica sembra venire dall’era PS3, non lo accetto”. Condivisibile o meno, il pensiero di chi critica la grafica di un gioco è questo.
Ciò che, a mio parere, davvero può allontanare un retrogamer non hardcore (cioè, che fa retrogaming apposta per ritrovare le stesse sensazioni ludiche e visive del passato) sono i controlli. Sì, perché va riconosciuto che, con le dovute eccezioni, una grande conquista del videogioco moderno è aver permesso al giocatore di avere maggiore controllo su ciò che avviene su schermo, quindi telecamera, mobility, gestione dei comandi, cosa che modifica anche di tanto l’accessibilità di certe produzioni. Io quando faccio retrogaming su PS1, ad esempio, noto di avere notevoli difficoltà nella gestione della telecamera, soprattutto in tipologie ben precise di giochi, come i platform/adventure à la Tomb Raider, in cui durante lo spostamento della telecamera, per non incappare in salti inopportuni, avverto addirittura dolore al polso a causa di una maggior durezza dei comandi.
Gli indie che omaggiano il passato invece propongono una rilettura dei classici apportando delle modifiche notevoli ai controlli e consentendo maggiore fruibilità. Per questo parlo di retrogaming alternativo, perché il gioco originale è unico e non replicabile; se si vuole recuperare Contra, bisogna giocare Contra e non un suo surrogato.
Iniziamo a fare esempi pratici. Un genere che si è perso nelle pieghe dello spazio-tempo è il beat’em up, il picchiaduro a scorrimento che ormai vive solo grazie agli indie. Oggi, il beat’em up moderno si avvale di una struttura molto più complessa e inserita in un contesto liberamente esplorabile, le serie di Ryu Ga Gotoku Studio, Yakuza e Judgment, possono essere considerate beat’em up a tutti gli effetti, ma non c’entrano nulla con gli albori del genere. Double Dragon, Streets of Rage, Final Fight hanno fatto la storia dei picchiaduro su cabinato, proprio di Streets of Rage è stato pubblicato nel 2020 il quarto capitolo, recuperando quello è possibile farsi un’idea di come fossero i picchiaduro anni ’80.
Passando oltre le riedizioni di vecchi classici e nuovi inaspettati capitoli, i beat’em up indie sono un ottimo modo per rievocare quei tempi. Ci sono titoli che vogliono risultare fedeli proponendo la vecchia formula, tipo The friends of Ringo Ishikawa, Fight ‘N Rage, Teenage Mutant Ninja Turtles: Shredder’s Revenge e River City Girls, e altri che la arricchiscono con una particolare attenzione alla narrativa e l’introduzione di meccaniche innovative, possiamo citare Mother Russia Bleeds e Katana Zero (leggi anche: Con un colpo muori, con un colpo uccidi. Cinque videogiochi che seguono questa regola).
Stesso discorso può essere fatto con gli shoot’em up, gli sparatutto a scorrimento che ormai sono stati sostituiti da videogiochi che permettono di esplorare galassie in scala non 1:1, ma quasi, e combattere contro interi battaglioni avendo un controllo totale della propria navicella, come Star Wars: Squadrons e Chorvs. Gli shoot’em up si dividevano in schermata fissa e a scorrimento, nel primo caso la schermata era unica e vedeva avvicendarsi i vari nemici da abbattere con pattern che cambiavano di volta in volta (Space Invaders, Galaxian), nel secondo caso il giocatore poteva avanzare in scenari con sfondi dinamici (Gradius, Salamander).
Non è facile reperire questi giochi, su YouTube è pieno di gameplay, ma provarli con mano è tutt’altra cosa. Gli indie vengono in soccorso pure questa volta con prodotti visivamente più abbacinanti e responsivi al millimetro in grado di far comprendere a un giocatore molto giovane cosa significasse avere ottimi tempi di reazione e coordinazione occhio-mano per riuscire a terminare un singolo stage tra proiettili vaganti e navicelle agguerrite. I giochi moderni vengono incontro agli utenti odierni con opzioni di accessibilità che all’epoca non erano contemplate, anche per un diverso modello di business su cui si basavano i cabinati: più morivi, più gettoni inserivi. Recuperare gli shoot’em up con gli indie è un’operazione meno frustrante anche per questo motivo. Giochi consigliati sono Axiom Verge, Nex Machina, Resogun e Sine Mora Ex (leggi anche: sette videogame che omaggiano i giochi arcade).
Qualche giorno addietro, ho giocato grazie al Gamepass a Prodeus, un chiaro e accorato omaggio agli FPS anni ’90 (Doom, Quake). Proprio grazie al servizio Microsoft è facilissimo recuperare i Doom classici, ma facciamo finta che non sia così. Un ragazzo molto giovane, giocando a Doom Eternal, non può comprendere fino in fondo come fosse il Doom del 1992 perché l’ultimo capitolo della serie id Software ha tutt’altra mobility, propone un’ampiezza della mappa e un’interazione ambientale e coi nemici completamente riviste e possibili grazie agli hardware attuali. Prodeus ovviamente inserisce anch’esso meccaniche svecchiate, ma resta fedele al concept di un FPS anni ’90, pertanto è possibile fare retrogaming con l’indie sviluppato da Bounding Box Software.
Personalmente, da appassionato di survival horror, ho potuto di recente rivivere la golden age del genere grazie a un indie su cui all’inizio non avevo riposto tante aspettative, Tormented Souls. Quando si parla di età d’oro dei survival horror si intendono solitamente gli anni ’90 fino agli inizi del 2000. Alone in the Dark (1992) è considerato il capostipite, mentre altri fanno risalire l’inizio dell’incubo al 1996 con Resident Evil. Da quel momento in poi, il genere è diventato un caposaldo della quinta e della sesta generazione di console, grazie a una proposta ludica spaventosamente variegata che andava da Silent Hill a Dino Crisis, da Parasite Eve a Fear Effect, passando per Forbidden Siren, Project Zero, Obscure e tante altre perle “singole” come Haunting Ground, Cold Fear, Kuon e Rule of Rose.
Soprattutto su PS1, le caratteristiche principali del survival horror classico, mutuate da Resident Evil, prevedevano la telecamera fissa, gli scenari prerenderizzati, un inventario ridotto, salvataggi limitati all’uso di un oggetto consumabile, etc. Chi gioca oggi a Dead Space o al remake di Resident Evil 2 non ha idea di come fosse strutturato un survival horror del passato. Tormented Souls, con una veste grafica molto più avanzata, propone le meccaniche e le peculiarità sopra citate. A differenza, quindi, di un Daymare 1998 che, omaggiando Resident Evil 2, si presenta come una sorta di remake 1.5, e di Fobia: St. Dinfna Hotel, strutturalmente più vicino alle riedizioni moderne dei survival horror, Tormented Souls cerca di suscitare nel giocatore le stesse sensazioni che si provavano negli anni ’90.
Un altro genere che gli indie riportano dal passato è il metroidvania, il cui termine è l’unione di Metroid e Castlevania, usciti entrambi per la prima volta nel 1986. Se ci sono due generi che spopolano tra gli indie, questi sono i rogue-like e i metroidvania, ne escono a bizzeffe ogni giorno. Il metroidvania è ormai monopolio degli indie perché si basa su una struttura semplice, ovvero scenari 2D su più livelli, ed è visto come un genere retrò, pertanto difficilmente vengono sviluppati metroidvania in ambienti tridimensionali e con grosso budget, l’eccezione che conferma la regola è Control di Remedy. Anche in questo caso, ci sono indie che svecchiano il genere inserendo elementi souls e mostrandosi visivamente più accattivanti (Hollow Knight, Ori and the Blind Forest, Salt and Sanctuary) e altri che cercano di rimanere più fedeli (Blasphemous, Infernax, The Messenger).
Vogliamo poi parlare delle avventure grafiche? Recentemente è uscito Return to Monkey Island (leggete qui la guida completa) e ancor prima è stato rilasciato Syberia: The World Before, ma sono sempre più rare le uscite di AV di franchise famosi. Solo navigando in siti come Gamejolt e itch.io, si può trovare una marea di avventure grafiche indie (leggi anche: Sette videogiochi indie (per davvero) da recuperare ora), volendo invece essere un po’ più mainstream basta davvero poco per farsi un’idea di come sia sia evoluto il genere. Gli indie infatti hanno raccolto l’eredità di LucasArts e degli autori di spicco (Ron Gilbert, Tim Schafer) per riportare in auge un tipo di esperienza che fa meno presa sui giocatori moderni. Le avventure narrative di Quantic Dream, la serie di Life is Strange o gli horror di Supermassive Games (The Dark Pictures) non sono adatti al retrogaming alternativo perché si basano su stilemi del tutto differenti; queste opere possono essere viste come un’evoluzione, hanno inventato un genere nuovo generatosi dalle avventure grafiche.
L’avventura grafica old school basava la progressione sulla risoluzione degli enigmi, mentre l’avventura narrativa à la Quantic propone lo schema delle scelte morali e delle conseguenze dirette. Viaggiando ancora più indietro nel tempo, inoltre, l’avventura grafica davvero vecchia scuola non aveva l’immediatezza del clic universale che consentiva di usare un oggetto, esaminarlo e parlare con i personaggi. C’era il menu testuale che prevedeva i classici verbi – apri, chiudi, prendi, parla – con cui comporre una frase interattiva insieme all’oggetto o al personaggio desiderato. La serie di Deponia è senza dubbio tra le più indicate per riscoprire i fasti del genere, non mancano però sussulti creativi di autori rinomati che, al di fuori della comfort zone di una serie ormai entrata nel cuore dei fan, propongono titoli che rinverdiscono la vecchia scuola, ad esempio Thimbleweed Park di Ron Gilbert e Broken Age di Tim Schafer.
Insomma, il succo del discorso è che l’industria indie è aperta alla sperimentazione, tuttavia non manca della consapevolezza del passato glorioso dei videogiochi e della volontà di recuperarlo a uso e consumo dei vecchi e dei nuovi giocatori. Gli indie possono seriamente rappresentare una valida e solida possibilità di riscoperta di un’epoca che se andasse perduta sarebbe un danno più grande di quanto si possa immaginare.
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This post was published on 14 Ottobre 2022 17:30
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