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Speciali

Ho provato a rileggere le recensioni di vent’anni fa e credo di aver capito qualcosa sul giornalismo videoludico presente

Che il mercato del videogioco, da almeno una generazione, viva per buona parte del revival del vintage è un dato di fatto: fra remastered, remake, HD Collections, sequel e prequel, i classici appartenenti ad altre epoche sono ormai divenuti dei fari, pezzi forti da riproporre per rivitalizzare i “momenti no” dell’Industria o per serrare i ranghi dei fan storici dando loro in pasto nuove versioni dei giochi della loro infanzia.

Il lato positivo di queste operazioni è che il più delle volte permette alle nuove generazioni di giocatori di riscoprire questo o quel gioco uscito magari vent’anni prima, permettendogli di partecipare indirettamente alla storia del videogioco e di costruirsi una solida cultura. 

Ma proprio questo gran parlare di riproposizioni mi ha portato a ragionare su una domanda: ma questi famosi “classici del videogioco”, che tipo di reazione hanno avuto all’epoca della loro uscita? Come sono stati recensiti? E cosa questi prodotti editoriali possono insegnarci di essi e della storia del giornalismo videoludico e della sua evoluzione?

Così, mosso da questa domanda, ho infilato l’elmetto da speleologo, preso la mia fedele piccozza e mi son calato negli abissi di alcuni dei più antichi siti di critica videoludica al mondo per studiare alcune recensioni d’annata.

Non serve dirvi quanto sia stato divertente e interessante.

Non serve dirvi quanto faccia strano entrare in un sito web e leggere un articolo di più di vent’anni fa

Una premessa importante

Prima di calarci nell’analisi, due paroline di introduzione metodologica diventano più che necessarie.

Anzitutto, ho tentato di approcciarmi allo studio di quelli che sono a tutti gli effetti dei pezzi di giornalismo d’epoca (per di più, di critica pionieristica per quel momento storico) partendo dal fatto che a mia volta faccio critica videoludica, cinematografica e letteraria, che come tanti colleghi so strutturare in modo discreto una recensione secondo gli standard attuali e riconoscere le “strategie narrative” che si possono adottare per parlare di un’opera complessa come il videogioco.

Partendo da questo concetto, ho deciso di dire la mia sulle recensioni che ho pescato da siti come Gamespot o IGN valutando due elementi:

  • Linguaggio ed esposizione del critico, con la mente al fatto che quando vennero scritte queste recensioni si era ancora in un momento “fondativo” per questo tipo di opere critiche
  • Reazione del recensore medio all’epoca della release del gioco in questione.

Due linee di ragionamento che ho applicato leggendo criticamente le seguenti recensioni:

Per la scelta mi son basato sul fatto che ho giocato a quasi tutti i titoli scelti o a loro derivati, fatto che ovviamente mi ha aiutato a contestualizzare ciò che leggevo.

La lingua del passato: come si scriveva di videogiochi vent’anni fa

Partiamo dal “core” di un’analisi del genere: come si scriveva di videogioco venti o addirittura trenta anni fa?

Tenendo presente che stiamo leggendo articoli tradotti dall’inglese, ciò che emerge da questa lettura è un elemento prevedibile ovvero un palese senso di “meraviglia” dovuto al fatto che tutti questi giochi, in qualche modo classici della loro epoca, erano giochi topici, che introducevano sempre nuovi elementi in grado di scompigliare categorie ed espressioni del linguaggio videoludico; proprio per questo è facile pensare che neanche chi scriveva avesse idea di come catalogare certe innovazioni, o di come spiegarle. 

Il linguaggio che scaturisce da questo stato di cose è quindi semplice, e soprattutto in molti casi ricorre a confronti con altri mezzi di comunicazione, in primis il cinema (“Il sogno di Shigeru Miyamoto di produrre un cartone animato interattivo è stato pienamente realizzato”, scrive orgoglioso IGN in merito a Super Mario 64) mentre mancano, ovviamente, ragionamenti critici sofisticati e in grado di mettere insieme più elementi o prodotti diversi per un confronto critico ben argomentato (almeno secondo gli standard attuali, appunto). 

Vi faccio un esempio riguardante una critica tecnica, tratto dalla recensione di un’opera complessa e stratificata come può essere Metal Gear Solid (Gamespot, traduzione mia). 

Soffermatevi un momento sul linguaggio, okay? Allora:

“(…) tutto è reso in 3D, fino ai più piccoli dettagli, come gli oggetti che risiedono sulle scrivanie e i vermi che si annidano sui cadaveri in decomposizione. Tutto sembra reale e agisce in modo estremamente realistico. Le animazioni sono molto ben fatte e scorrono ad una velocità piacevole e fluida. Un tocco di rallentamento compare quando ci sono più nemici sullo schermo, ma non è troppo evidente. La colonna sonora e gli effetti sono assolutamente impareggiabili. La musica ha un’atmosfera minacciosa che si adatta perfettamente all’atmosfera del gioco. Gli effetti sonori sono estremamente ben fatti, dagli spari al piccolo clic che si sente quando si raccoglie un oggetto. Gli effetti variano anche a seconda dell’ambiente circostante.”

“Tutto sembra reale”. “Le animazioni sono ben fatte”. “Gli effetti sonori sono estremamente ben fatti”: se scritti oggi, in una recensione tecnica e che necessita sempre di approfondimento, analisi e soprattutto comparazione con altri prodotti (perché una recensione videoludica è ancora anche e soprattutto un consiglio per gli acquisti, prima ancora di un raffinato pezzo di critica artistica), pensieri come questi apparirebbero come naif, banali, e persino scritti senza cura deontologica (così come discutibile sarebbe criticare Crash Bandicoot semplicemente perché “troppo difficile”, come fatto da IGN nella sua recensione).

Questa però è un’altra epoca, con un altro stato di cose, un’altra maturità, un altro stadio evolutivo. Parliamoci chiaro, è probabilmente l’esito di analisi più scontato di tutto l’esperimento, ma aiuta a far capire quanto la critica videoludica sia cresciuta man-mano che cresceva il mezzo di comunicazione. 

Super Mario Bros. (1986)

Per fare un altro esempio esempio, il linguaggio della striminzita recensione del 1986 di Super Mario Bros. apparsa su Computer Entertainer (statunitense, praticamente un trafiletto) non è altro che una descrizione di com’è il gioco, di cosa Mario può fare in-game, di qual è il suo obiettivo. Viceversa, la recensione di Gamespot di Metal Gear Solid (pur ribadendo la sua “semplicità” in alcuni frammenti) è un vero e proprio wall of text in cui si cominciano ad analizzare tutti gli elementi di un’opera che per l’epoca fu davvero impattante e che andava sviscerata in più parti. 

Più interessante ancora è poi il confronto fra le due recensioni di MGS, in cui emerge come prodotti complessi finiscano per generare anche la nascita di vere e proprie linee editoriali. Se infatti IGN proponeva una recensione più descrittiva delle features, lo stesso prodotto, analizzato da Gamespot, veniva sottoposto anche a un’analisi dal punto di vista dello storytelling, con tanto di critiche a diverse parti del videogioco (che vedremo fra poco). 

Cresceva il medium e con lui i nostri sistemi d’analisi, banalmente.

Di recensione in recensione chi giocava ai videogiochi si costruiva un bagaglio di informazioni che funzionava da “cassetta per gli attrezzi”, poi ripresa da altri giornalisti e critici. 

Classici del videogioco: giudizi (quasi) universali

Se il discorso “formale” ci dà qualche coordinata per farci un’idea molto basic di come il prodotto-recensione si sia sviluppato ed evoluto nel corso degli ultimi quarant’anni, raggiungendo standard nuovi, più interessante è commentare queste recensioni “entrando nel merito”, valutano cioè il contenuto o le riflessioni che possiamo trovare in questi commenti di alcuni capolavori assoluti. 

Anzitutto, vi faccio una domanda: avete mai pensato a come si forma un’idea su un’opera d’intelletto? Un’idea che perdura nel tempo e che diventa parte della carta d’identità di quel determinato romanzo/film/videogioco? È un processo affascinante e non scontato, perché passa attraverso la “vulgata popolare” (i commenti di generazioni di persone che hanno fruito di quell’opera) e ovviamente dalle recensioni dell’epoca, che man-mano si sedimentano e consolidano dando origine alla percezione dell’opera. 

Ecco, altra domanda: tornando a Metal Gear Solid  come lo descrivereste?
Posso provare a leggervi nella mente, dicendovi come lo farei io?
Bene: “Il primo stealth-game contemporaneo e una delle prime esperienze action che dà al giocatore un approccio non scontato, oltre che essere un’esperienza narrativa assolutamente straordinaria”.

Un giudizio che ho da quando l’ho giocato per la prima volta, a nove anni, frutto della mia esperienza videoludica, ma anche, probabilmente, delle recensioni della saga e dei saggi di critica che ho letto negli ultimi vent’nni (sono vecchio!) e che hanno formato la mia opinione in merito.

Bene, adesso vediamo cosa pensavano le recensioni del buon Metal Gear, vent’anni fa:

“Dopo più di due anni di lavorazione, Metal Gear Solid mantiene, nel suo nucleo, lo stesso principio di gioco reso familiare dai suoi predecessori usciti tanti anni fa. L’enfasi è posta sulle azioni segrete, piuttosto che sul machismo totale. L’importanza di questo aspetto si evince chiaramente dalla premessa del gioco. (…)  Bello, avvincente e innovativo, eccelle in ogni categoria possibile. Devo però avvertire che i giocatori che si avvicinano per la prima volta al gioco devono assolutamente superare le fasi di addestramento prima di affrontare il gioco vero e proprio; se non lo si fa, ci si trova in una situazione di estremo svantaggio, poiché questo non è un semplice gioco d’azione “corri e spara”.”

Potrei mettervi di fronte altri esempi, ma come potreste immaginarvi il tono è praticamente lo stesso, entusiasta.

Giudizi che in un certo senso hanno “preparato” alcune generazioni di videogiochi ad accogliere un capolavoro, dandogli uno status di classico e, ancor di più, di spartiacque, capace di nutrici e darci delle coordinate culturali.

Eppure, le sorprese non mancano.

MGS viene per esempio criticato su Gamespot per più motivi: lati del gameplay ritenuti poco convincenti (“le guardie pensano stupidamente che siate scappati e tornano semplicemente al loro posto. Non aumentano le pattuglie, né la caccia all’uomo. Si dimenticano di avervi visto e continuano a vagare senza meta.”) e lo stesso avviene con la trama di uno dei giochi collocati fra i migliori esempi di narrativa videoludica: 

“La narrazione, tuttavia, non è perfetta. Circa a metà del gioco, la trama prende una piega drammatica e il resto del dialogo è fondamentalmente un grande messaggio antinucleare e contro la guerra, condito da molti discorsi del tipo “Come ho potuto partecipare a un piano così malvagio?”.

Parliamoci chiaro, oggi alcuni aspetti di MGS vengono definiti rasentanti il trash per la loro banalità e il loro rielaborare in modo basic i classici dell’action anni ‘80, ma mai avrei pensato che nel lontano 1999 la critica specialistica potesse farci caso. 

Ancor più divertente è quello che possiamo leggere nella recensione di Resident Evil 2. In questo caso, per esempio, ci troviamo di fronte una critica inattesa a quella che sarebbe diventata, non solo un feature apprezzata dell’intero brand, ma persino, udite udite, una vera e propria caratteristica fondamentale dei Resident Evil “Old School”, divenuta simbolo di un modo di concepire il survival horror almeno fino al quarto capitolo della serie.

“Nonostante tutti i miglioramenti, ci sono ancora alcune cose di cui lamentarsi. La mira è ancora difficile, soprattutto se si rimane intrappolati ai margini della visuale della telecamera. (…) Anche la gestione dell’inventario è ancora una sofferenza, che richiede di correre avanti e indietro tra le scatole di immagazzinamento per trovare gli oggetti necessari che si sono dimenticati di mettere in valigia, anche se Capcom ha migliorato un po’ la situazione includendo un pacchetto di inventario che si può trovare.“ 

Avreste mai pensato che una recensione potesse criticare in maniera un bel po’ beffarda quello che per le nostre generazioni è da sempre un modo assolutamente azzeccato di concepire il gameplay di un buon horror?

Esempi che ci danno in “la” per qualche considerazione finale. 

Recensioni: insegnamenti dal passato, pensieri sul futuro

In fondo, cosa può insegnare davvero la rilettura critica di questi bei pezzi di archeologia giornalistica?

Durante una pausa fisiologica nella scrittura, nei giorni scorsi, ci ho pensato molto, e le idee non sono mancate.

Anzitutto, riprendendo quel che dicevo poco fa, sarebbe interessante tenere a mente che il tempo che passa riesce quasi sempre a cambiare la percezione di un gioco, a prescindere dalle critiche dell’epoca. 

Qualcosa che è legato solo a giochi generalmente “riusciti”, più che a prodotti traballanti, certo, ma se pensiamo a come la percezione di un MGS sia oggi quella di un capolavoro assoluto quando i suoi difetti erano stati fatti pesare all’epoca, allora forse avremmo qualche argomento in più contro le schiere di haters seriali che ogni giorno sparano contro i recensionisti di mestiere adducendo loro colpe di sopravvalutazione o sottovalutazione di un gioco.

In seconda battuta, credo sia interessante riflettere sul fatto che, proprio perché frutto di una costante evoluzione (come tutte le forme di scrittura), anche il nostro concetto di recensione potrebbe subire ancora evoluzioni o perché no “involuzioni”, o ancora perdere la sua connotazione attuale, per tante possibili ragioni: dal supporto con cui le leggiamo alla rapidità con le quali potremo consultarle, fino a un possibile impoverimento del lessico, per arrivare all’ovvio cambiamento o evoluzione del videogioco come mezzo. 

All’epoca di Mario, 1986, la recensione di un videogioco non era altro che una descrizione di poche righe del suo funzionamento.
Oggi è un complesso ed elaborato testo in cui l’autore deve commentare Elden Ring parlando con competenza tanto del gameplay quanto della confezione artistica o dei suoi contenuti “filosofici”. 

Una situazione di “compromesso” fra apparato ludico e artistico, no?

E se fra cinque anni il videogioco più diffuso nel mainstream diventasse un gioco come Until Dawn o il recente As Dusk Falls? E se su questa spinta ci ritrovassimo ad avere recensioni sempre più legate al narrato o alla regia che al gameplay? E se il valore distintivo di un gioco diventasse per lo piu’ la sua capacità di raccontare una storia?

Semplice: tutta la componente ludica di un prodotto potrebbe passare sempre più in secondo piano.
Qualche segnale già c’è, in giro: in alcuni ambiti la recensione non viene più vista come semplice analisi della somma delle parti, ma come post-recensione dal taglio culturale, che analizza influenze e impatto del gioco come opera. Vedremo mai un salto di qualità del genere? E saremo pronti a prendere il meglio da questi cambiamenti, ricordandoci che il gioco è ancora gioco e non derivativo di altre arti o espressioni culturali? La storia insegna: mai dire mai. 

This post was published on 8 Ottobre 2022 12:30

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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