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Speciali

Il futuro del cinema action è nel videogioco?

L’agosto appena concluso, torrido e sonnecchiante, è stato ricco di piccole novità in streaming, come Sandman di Netflix (che ha convinto anche i tanti fan del comic book originale), ma anche un film atteso con ansia, pathos e dubbi dai veri appassionati di action anni ‘80

Parliamo ovviamente di Prey, uscito in Italia su Disney+ il 5 agosto.

Come tutti i revival, Prey è subito rimasto sospeso fra le fauci di un fandom con due facce: da una parte c’è chi l’ha amato visceralmente per i suoi contenuti splatter e il ritmo pulp, dall’altra coloro che hanno analizzato ogni aspetto anche lontanamente “too much politically correct” dato dalla presenza di una protagonista femminile. 

Oggi però preferiamo lasciare stare questo discorso e parlare di altro.

Parliamo infatti di come Prey ci abbia ricordato di quanto Predator possa funzionare benissimo in un videogioco, forse ancor più di suoi cugini come Alien o La Cosa, tanto da farci chiedere se non servissero più trasposizioni digitali di questi film.

Prey: un action essenziale

Prey non è altro che l’ennesima iterazione di un franchise ultraquarantennale che, partito dal capostipite Predator nel 1987 con il buon Arnold Schwarzenegger, ha donato al mondo uno dei migliori personaggi “dark scifi” del cinema contemporaneo, forse secondo solo al già citato Alien. 

Una saga che è basta su un concept ben preciso: in ogni episodio, gruppi di superuomini d’arme si ritrovato a dover sfuggire a uno Yautjia, razza extraterrestre dal modus vivendi deliziosamente tribale i cui esponenti sono soliti dimostrare il loro valore girando le galassie e cacciando (letteralmente) gli abitanti dei pianeti scelti per la loro battuta. 

Un’idea basilare declinata in maniera sempre diversa nei tre episodi sequel di Predator, con un secondo episodio del ‘92 shakerato in maniera abbastanza efficace con il poliziesco urbano, e altri due (2010 e 2018) alquanto stucchevoli come concept e riuscita.

Prey ha tentato la strada dell’ennesima variazione sul tema, giocando però la strada dell’ambientazione nel passato: ambientato nell’America Settentrionale del 1719, epoca del conflitto fra nativi americani ed europei, il film segue la sfida fra l’ennesimo Yautjia arrivato sulla terra per dimostrare il suo valore e una giovane e coraggiosa cacciatrice cherokee di nome Naru, che deve proteggere la sua tribù tanto dai bianchi quanto dal Predator

Si tratta di un’operazione affascinante, che mescola cappa-e-spada e proto-western coloniale con sci-fi e splatter senza soluzione di continuità attraverso una formula certo mutuata dal DNA base della serie, ma amplificata da scenari mozzafiato, anche grazie a una fotografia tanto luminosa quanto elegante e una costruzione scenica all’altezza

Uno spettacolone con tanti punti deboli (anche a livello di ingenuità di sceneggiatura), ma capace di far saltare sulla sedia nei momenti giusti.

Ma soprattutto, un film che ha ricordato quanto Predator sia un franchise in grado di racchiudere il meglio del genere: azione serrata, gioco gatto-topo essenziale e ben reso, spietatezza tanto dei protagonisti quanto degli antagonisti. 

Predator e il videogioco: connubi naturali

Questo che state leggendo potrebbe essere il solito articolo di storia del videogioco in cui si prende l’uscita di un film di successo per porsi la domanda “Ah, e quel franchise che storia videoludica avrà mai alle spalle?”, oppure semplicemente un “Immaginiamo un videogioco tratto da Predator”.

Invece no, scaviamo più in basso intrecciando un certo entusiasmo con critica e transmedialità, il tutto con un’idea in mente: quanto film action classici come un Prey hanno insegnato al videogioco? Quanto possono essere attuali in un’ottica di ispirazione per il game design? Quanti di loro, ancor di più, avrebbero una felice vita videoludica se qualche team investisse in esso?

Nel caso specifico, Predator come molti action ha avuto il suo momento di gloria nel campo del nostro settore preferito: come potreste immaginare, fin dall’87 quasi tutti i film dedicati al più leggendario cacciatore alieno di ogni tempo hanno avuto una controparte videoludica, tranne quelli del 2010 e del 2018 (con, però, Hunting Grounds uscito nel 2020 a riaccendere i fasti della serie). 

Unica eccezione all’impostazione derivativa di questa serie è forse un assurdo gioco “originale” sviluppato nel 2005, Predator: Concrete Jungle, che aveva la grande intuizione di mettere il protagonista nei panni di un cacciatore Yautjia in cerca della sua buona occasione di mettersi in mostra durante una “battuta di caccia” che lo vedeva contrapposto niente poco di meno che alla mafia italo-americana degli anni ‘30 (avete letto bene), con un tripudio di gore e politicamente scorretto, mentre Alien vs Predator rappresenta un grande esempio di come da un brand possa scaturire un gioco completamente nuovo, con dinamiche e lore completamente diverse.

Hunting Grounds, infine, ha tentato di rivitalizzare il marchio Predator in ottica multiplayer, purtroppo di scarso successo.

Il successo del brand nel mondo del videogioco è dovuto al fatto che esso tutti gli ingredienti per l’action da cardiopalma perfetto: l’inseguimento, lo scontro mortale fra preda e predatore, persino come detto un bel po’ di gore, e un ambiente ostile da sfidare.  

E’ tutto già lì, in potenza, pronto affinché un buon team di sviluppo prenda questi ingredienti e li mescoli bene. Alcuni di questi erano in potenza anche in altri giochi del brand, sotto forma di meccaniche interessanti come la possibilità di vivere una caccia mortale di questo tipo da punti di contrapposti, come nel già citato Alien vs Predator.

E, se questa feature sembra già “superata” da precedenti esempi, ce ne sono altre due, proprie del videogioco contemporaneo, che sembrerebbero adattarsi alla perfezione a un gioco di Predator e che tutt’ora dominano parte del mercato: il caro e vecchio open world e le dinamiche survival (elementi che sì, sono strettamente legati fra loro).

Se infatti guardiamo tutti i film “maggiori” del franchise ci rendiamo conto che sono tutti racconti che parlano di sfide mortali che si sviluppano in ampissime aree selvagge, fra giungle (come nel primissimo film) e praterie (in Prey) in cui umani e alieni non devono solo darsele di santa ragione, ma anche sopravvivere a un ambiente ostile, cacciare, attraversare fiumi impetuosi, combattere contro le intemperie. 

Tutti elementi che appartengono in maniera naturale al cinema d’avventura e action, e che negli anni sono diventati anche parte del DNA di un certo tipo di videogioco

Immaginate quanto possa essere potente un’impostazione del genere per un gioco di Predator, con il tipico super-soldato yankee o la nobile guerriera nativa americana intenti a sfuggire all’alieno scegliendo il percorso giusto per scappare, costruendo trappole, fuggendo, alleandosi con le fazioni nel mondo di gioco, tutto per sfuggire a una sorte terribile.

E funzionerebbe anche l’esatto contrario, con l’interpretazione del cattivo di turno, che deve muoversi in cerca della sua preda. Come detto prima, è già tutto nel DNA del franchise, e aspetta soltanto di essere riadattato coraggiosamente a una nuova dinamica di intrattenimento, magari molto più adatta al tema trattato.

Ed emerge un dubbio interessante, a questo punto.

Il videogioco può dare nuova vita ai classici del passato?

Che alcuni franchise si siano dimostrati potenzialmente adatti a essere rielaborati nel videogioco ce lo conferma il destino di alcune operazioni degli scorsi anni; rimanendo in zona horror/scifi, un esempio perfetto è quello di Alien. 

Dopo una carriera cinematografica e videoludica con alti e bassi, nel 2014 il brand è stato rielaborato come un survival horror in prima persona con Alien: Isolation, che per molti costituisce uno dei più bei esempi di videogioco cinematografico di ogni tempo. 

Nel titolo di Creative Assembly, infatti, i concetti fondamentali del film (claustrofobia, senso di oppressione, viaggio in un’oscurità asfissiante) erano piegati alla perfezione all’interno di un’impostazione vicina a quella di un progetto fondativo come Outlast, re degli “escape horror in prima persona”. 

La domanda fondamentale, a questo punto, è se non ci sia la possibilità di un salto di qualità molto ambizioso all’interno dell’industria, che vedrebbe i detentori dei diritti di quelle saghe decidere di “investire” le loro licenze non nell’ennesima nuova iterazione/remake/reboot, ma un un gioco originale.

Certo, affinché questo accada c’è bisogno di un bel po’ di coraggio, perché significa abbandonare un modello di “fare incasso” e abbracciarne un altro, e perché soprattutto per portarlo avanti ci sarebbe bisogno di destinare “i giusti budget” a questi progetti, al fine di presentarli al giocatore con dignità.

Uno dei primissimi giochi di Predator (1987)

Non parliamo certo di trasformare Predator o un gioco di Terminator in un Tripla A ultra-corazzato (cosa che in effetti non erano neanche i film da cui verrebbero tratti), però a guidare produzioni del genere dovrebbe essere la volontà di creare discreti blockbuster videoludici che possano portare i vecchi amanti di queste nicchie/brand a riscoprirli attraverso il videogioco, unendosi alle schiere di fan del nostro medium preferito.

Infine, risultati di operazioni di questo tipo dovrebbero essere puri titoli d’intrattenimento videoludico, interamente incentrati sull’azione, sulla fascinazione per le “figure topiche” (eroi o antagonisti non importa) che li popolano, anche con una spruzzatina di rozzezza/basilarità tematica. 

Tutti elementi che dominavano lo scenario degli action dell’epoca, in fondo. 

Cosa ci guadagneremmo?

Forse, meno film d’azione appartenenti a ere geologiche fa nei cinema (personalmente, sulle piattaforme streaming il margine di tolleranza può essere molto più alto) con iterazioni dalla qualità scadente, e qualche titolo divertente che riesca a dare un senso a personaggi che tanti hanno amato. Un giusto compromesso, no?

This post was published on 23 Settembre 2022 10:30

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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