Con il videogioco che diventa ogni giorno più di massa e meno relegato a una nicchia di appassionati rintanati nelle proprie stanze, anche chi ne sviluppa uno ha iniziato a rendersi maggiormente riconoscibile al grande pubblico (che deve comunque essere un minimo interessato all’argomento). Non intendiamo gli studi di sviluppo, ma gli autori nello specifico, i game designer, i game director, ovvero coloro che dirigono i lavori e mettono la firma sul prodotto finale.
Troppo semplice, però, per un videogiocatore riconoscere il marchio di Hideo Kojima, Shinji Mikami, Neil Druckmann, Cory Barlog, insomma, di tutti quei nomi e di quei volti che vengono comunque ricondotti a un logo, a un’azienda di una certa importanza. Nell’industria indipendente del videogioco, ci sono nomi altrettanto influenti che sono stati in grado di creare qualcosa di inconfondibile, sia esteticamente sia narrativamente e sotto il punto di vista strutturale.
In questo articolo andiamo a elencare cinque autori del panorama indie che negli anni sono riusciti a farsi apprezzare per l’incredibile capacità di creare opere di livello sempre crescente, cosa che gli ha consentito di costruirsi intorno una forte community molto attenta a qualsiasi novità proveniente dai loro studi e che gli attribuisce una solidissima credibilità.
Robert F. Fox è un autore di videogiochi e compositore nato nella città inglese di Manchester. Il suo nome è legato a Undertale e Deltarune, due titoli che hanno riscritto le regole degli rpg con l’inserimento di azioni in combattimento del tutto contrarie a quello che è da sempre lo scopo dei videogiochi in cui è presente un combat system, che sia in tempo reale o a turni: uccidere qualsiasi cosa si muova.
Undertale e Deltarune non sono ovviamente i primi giochi in cui è possibile fare run pacifiche, ma è il modo in cui è possibile intraprendere questa strada ad essere molto particolare e originale. Quando un combattimento contro semplici mob o terrificanti boss inizia, il giocatore si trova di fronte, oltre ai comandi tipici degli rpg a turni, anche azioni che gli permettono di non fare alcun male all’avversario. Queste variano da caso a caso, ad esempio, se il nemico è simile a un cane sarà possibile accarezzarlo per rabbonirlo oppure in tante altre situazioni il menu ci dà l’opportunità di parlare con il nemico per cercare una conclusione serena.
I titoli di Toby Fox, come spesso accade in produzioni del genere, sono esteticamente e tecnicamente basilari, basi che si possono riassumere in pixel art e visuale top-down. Eppure, i suoi giochi sono riconoscibili proprio perché si sostengono su meccaniche semplici ma subito riconducibili al suo metodo d’approccio agli rpg a turni.
Kan Gao è l’autore canadese a capo dello studio indie Freebird Games. Abbiamo precedentemente parlato di basi semplici dal punto di vista estetico, ebbene, con Kan Gao questo è ancora più vero visto che tutti i suoi giochi sono praticamente fatti con rpg maker, nel modo più genuino che si possa immaginare. Forse il suo nome è quello meno celebrato, perché sono le sue creazioni ad avere maggiore spazio nelle discussioni e negli articoli: To the Moon, Finding Paradise e Impostor Factory.
Questa trilogia è a tutti gli effetti una serie con una storia che lega insieme tutti e tre i capitoli, nonostante la trama di ogni specifico episodio sia diversa. È la premessa a fare da collante: una compagnia ha costruito un macchinario in grado di ricostruire e modificare i ricordi delle persone. Questo viene utilizzato con scopi terapeutici per aiutare persone in fin di vita che hanno un ultimo desiderio. Grazie a questa macchina, possono rivivere la loro esistenza, o i momenti chiave, aggiungendo o eliminando eventi allo scopo di morire senza rimpianti.
Ogni capitolo vede protagonisti gli scienziati alle prese con un “caso medico” specifico. Ciò che ha reso Kan Gao una figura di spicco dell’industria indie è la sua capacità di commuovere e far letteralmente piangere i giocatori (se non vi scende almeno una lacrimuccia avete il cuore arido) nonostante l’elementarità di tutto ciò che viene mostrato su schermo. To the Moon è ancora oggi uno dei primi esempi che vengono portati quando si parla di giochi narrativi in grado di far provare forti emozioni.
Sam Barlow è un pezzo da novanta che è ormai divenuto sinonimo di qualità e di coraggio creativo. I suoi sono videogiochi? O sono film? Molti si pongono questa domanda, la verità è che una risposta univoca non c’è, perché il videogioco è una forma d’arte e di comunicazione così duttile e multiforme che dare una definizione buona per tutti è impossibile. Le opere di Barlow sono ciò che vuole vedere il fruitore, ognuno può cercare la risposta nelle proprie aspettative.
Sam Barlow, che ha anche lavorato a due capitoli della serie Silent Hill (Origins e Shattered Memories), è l’autore di Her Story, Telling Lies e Immortality. Di quest’ultimo, di recente uscita, potete leggere la nostra recensione, in cui sottolineiamo l’eccezionale credibilità dei filmati che Sam Barlow ha girato per costruire la fittizia carriera della mai esistita attrice francese Marissa Marcel, scomparsa dalle scene, e non solo, da quando i suoi tre film non sono mai stati distribuiti nelle sale.
La meccanica più interessante delle opere di Barlow risiede nella ricerca attiva delle clip da parte del giocatore che, nel caso di Her Story e Telling Lies, si basa sul sistema delle keywords, mentre Immortality chiede allo spettatore di concentrarsi su un elemento visivo della scena per trovarne di simili e poi scoprirne i segreti e i dettagli più nascosti.
Lucas Pope è un game designer americano che si è fatto conoscere dal grande pubblico nel 2013 con la pubblicazione di Papers, Please, un “simulatore” della vita di un ispettore di frontiera in uno stato in cui vige un regime totalitario. Il giocatore ha un compito molto “semplice”, non permettere l’ingresso nel fittizio paese di Arstotzka di persone non ben accette, quindi oppositori politici, possibili terroristi, immigrati controllando i loro documenti.
Il nostro ruolo, però, si rivela tutt’altro che facile, soprattutto dal punto di vista etico, perché non saranno rari i casi in cui dovremo rimandare indietro persone bisognose solo per piccoli dettagli burocratici, cittadini innocenti che cercano solo una vita migliore per non indispettire i nostri rigidi superiori. Inoltre, il protagonista percepirà uno stipendio (molto basso) con cui far (soprav)vivere dignitosamente la sua famiglia. Più persone vengono respinte, maggiore saranno i guadagni, ma a che costo per la nostra morale? Papers, Please riesce a farci mettere in dubbio noi stessi, a farci dubitare delle nostre azioni, quando timbriamo il foglio di via di una madre che vuole portare in salvo il proprio figlio.
Lucas Pope torna alla carica nel 2018 con Return of the Obra Dinn, uno dei giochi investigativi più originali degli ultimi anni. Il giocatore è chiamato a indagare sulla scomparsa dell’intero equipaggio della nave Obra Dinn annotando sul proprio diario ogni singolo evento, i nomi dei membri della ciurma e le loro cause di morte. Tra tanti titoli investigativi che ci prendono per mano, il gioco di Lucas Pope risulta invece davvero impegnativo e appagante per la libertà data al giocatore.
Qui si potrebbe accendere un dibattito su quali giochi possano essere definiti indie e quali no. Il concetto di indie è mutato parecchio negli anni, se prima erano indie solo titoli palesemente low budget sviluppati senza alcun tipo di aiuto esterno di aziende medie o grandi, oggi vengono considerati indie anche giochi che dietro possono vantare l’ausilio di compagnie milionarie. Un caso eclatante è quello di Kena: Bridge of Spirits, passato per indie nonostante le risorse offerte da Sony.
Electronic Arts è un’altra compagnia che si gettata nel mercato indie fondando l’etichetta EA Originals. Uno degli autori che ha avuto la possibilità di lavorare con maggiore “tranquillità” grazie alla copertura mediatica ed economica di una grossa società è Josef Fares. I suoi giochi sono davvero indie? Anche in questo caso, la risposta non è così scontata, quel che ci importa sottolineare è l’importanza che i giochi dell’autore di origini libanesi hanno avuto e stanno avendo nel panorama indie in cui vengono collocati dai più.
Il suo primo gioco è stato Brothers: A Tale of Two Sons in cui Fares sviscera il rapporto di due fratelli che vivono un’avventura incredibile alla ricerca di una medicina per il padre malato. Poi arriva la svolta della co-op obbligatoria, formula con cui Fares propone A Way Out e soprattutto It Takes Two, game of the year nel 2021. It Takes Two è in modo unanime considerato uno dei videogiochi più belli della generazione, pertanto, che sia indie o meno è poco importante, ciò che conta è che abbia acceso in modo definitivo i riflettori su una parte dell’industria in costante crescita.
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