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Speciali

Siamo stanchi di GTA VI (e di come l’informazione videoludica tratta sé stessa)

GTA VI: il protagonista sarà una donna”, “GTA VI: sarà interamente ambientato in Centro e Sudamerica e a Vice City”, “GTA VI: potremo guidare 4 personaggi”… titoli di articoli degli ultimi giorni, mesi, anni, che tornano ciclicamente e riportano costantemente l’attenzione su quello che è forse oggettivamente il videogioco più atteso del nuovo decennio, e che non può che essere così. 

Del resto Grand Theft Auto VI, sviluppato almeno dal 2018, anno di uscita di Red Dead Redemption II, è destinato a essere il grande ritorno di un brand che grazie a un predecessore tanto illustre da meritare ben due remastered nel corso della sua esistenza, assoluto campione d’incassi e titolo più giocato in assoluto da una larghissima fetta di giocatori.

L’hype è tantissimo, il potenziale incredibile; se GTA V ha colpito per profondità, cura, storytelling e ovviamente divertimento, segnando la sua generazione ancor più di quanto fatto da altri due capolavori come Vice City e San Andreas, il suo successore ha quasi il dovere di imporsi e annichilire la resistenza degli avversari, e ci riuscirà, siamo sicuri.

Eppure, a guardare bene, non può non colpire che l’hype attorno a questo capolavoro annunciato si trascini ormai da troppo tempo, anche con modalità piuttosto pervasive se non, addirittura, stancanti.
E allora sorge una domanda, almeno al sottoscritto: da giocatori, non ci siamo un po’ rotti le scatole di tutta questa ricerca di hype, nel 2022?

GTA VI e la sua storia infinita

Partiamo da un’idea che sembra in palese contraddizione con quanto ho scritto poc’anzi: che un kolossal come quello che aspettiamo da Rockstar sia “inseguito” in questa maniera dalla stampa e dai giocatori non è cosa di un altro mondo, anzi.

Proprio perché l’operazione rischia di esplodere in un capolavoro e proprio perché le aspettative sono tante (e giustificate), è tutto perfettamente nella norma che da qualche anno ci sia una caccia all’indizio e alla notizia.

Del resto oltretutto GTA V è ormai uscito da nove anni, un intervallo di tempo più ampio rispetto a quello che aveva diviso quel gioco dal predecessore (“soli” cinque anni, con un primo teaser trailer di GTA V rilasciato nel 2011 o giù di lì), e neanche l’uscita di Red Dead Redemption II “normalizza” un simile gap.

GTA VI Vice City sarà vero? Non lo sarà? Boh!

Il problema però non è questo, non è il lungo tempo di gestazione; sappiamo anzi che spesso un gioco sviluppato con cura per tanti anni può portare spesso a un buon risultato (spesso, sia chiaro… Cyberpunk 2077 è un discorso a parte). 

Il punto è però che l’enorme bombardamento di notizie su questo gioco ha raggiunto delle proporzioni e delle modalità a dir poco bibliche, che hanno portato l’intera stampa a scrivere di questo progetto per anni, ripetendo una certa mole di informazioni già note (o per lo meno “semi-note” in maniera ufficiosa) in modo abbastanza ripetitivo. 

E fra poco sarà il Natale del 2022, e di GTA VI nulla, nisba, neanche un’immagine. 

Solo hype, detti e non detti, sussurri di marketing operati da addetti ai lavori sospesi fra il “so” (poco) e il “vorrei” (tanto).

Ed ecco la valanga.

Ed ecco gli effetti collaterali.

Di GTA VI sappiamo tutto, e nulla

Il punto paradossale è questo: a meno che Rockstar non abbia depistato bene o gli insider siano dei veri e propri truffatori (e sul rapporto della stampa con gli insider potremmo parlare ore), noi di GTA VI sappiamo molto da molti anni, dall’ambientazione ai tipi di personaggio, ma senza aver mai visto nulla del gioco.

Capite voi che la situazione è quantomeno caotica, e strana, e anche per certi versi “morbosa”. 

Se da una parte si tratta di una prassi consolidata, e tanti siano stati i casi come questo, con veri e propri bombardamenti di informazioni costanti, il fattore di novità riguardo a questi casi è che mai come negli ultimi anni esempi di hype di questo tipo hanno dato degli effetti a dir poco nefasti.

C’è il caso di Cyberpunk 2077 a raccontarci una storia parecchio triste, fatta di anticipazioni eclatanti che diventano lame a doppio taglio per la produzione quando ci si ritrova in mano un prodotto al di sotto delle aspettative, con l’aggravante del fatto che CD Projekt ha, di fatto, condotto una campagna comunicazione oggettivamente truffaldina in cui tante promesse fatte non sono state rispettate a fronte del loro essere state ribadite in maniera costante dai producers fino a poco prima dell’uscita.

Un caso analogo è proprio quello della remastered collection di Grand Theft Auto III, Vice City e San Andreas, capace di deludere le aspettative di chiunque nel 2021. 

Ma anche senza tirare in ballo la paura della delusione, che spero e credo di non provare con Grand Theft Auto VI, l’effetto terribile e asfittico della cultura dell’hype rimane esecrabile. 

Un bombardamento mediatico ha anche altri effetti stigmatizzabili, primo fra tutti banalmente il rovinare anzitempo la sorpresa a chi vuole scoprire qualcosa del proprio gioco preferito a suo tempo.
Perché okay, per dire, che un articolo riporti il fatto che RDR II parli della banda Van der Linde, magari uno o due anni prima del primo trailer, ma immaginatevi cosa sarebbe accaduto se per cinque anni ci fossimo fatti film su film su chi fosse Arthur Morgan, su dove sarebbe stato ambientato il gioco etc. etc. 

O se la stessa cosa fosse accaduta per un Metal Gear Solid. 

Con articoli che escono e parlano sempre-delle-stesse-cose, con qualche informazione in più degli articoli precedenti. 

Capite che qualcuno, alla fine, potrebbe anche stancarsi.

Hype e videogiochi: i problemi dell’industria

Soluzioni ne abbiamo?

Sì, ma sono complesse, composite e forse devono poggiarsi su due grossi pilastri, collegati a doppio filo ed entrambi potenzialmente devastanti.

Partiamo da “lontano”, rispetto alla prospettiva di chi scrive, dalla lunghezza delle macchine produttive, delle gestazioni e soprattutto della comunicazione delle major.

Torniamo al caso Cyberpunk 2077. Al netto del fatto che l’operazione ha traballato oggettivamente e che il risultato sia stato molto “ops”, quanti meno problemi ci sarebbero stati con una comunicazione meno aggressiva del gioco da parte di CD Projekt? 

Quest’ultima, all’atto pratico, è stata intensa, costante, gonfiata: il gioco era già pronto per essere il capolavoro dei capolavori ancor prima di uscire, pronto ad essere il faro nella notte ed il punto di riferimento. Tanto più sono grandi, tanto più rumore fanno quando cadono.

Cos’è questo se non un effetto collaterale di un modello produttivo sulla via per la follia?

Solo cinque anni prima la stessa CD Projekt Red con The Witcher 3 aveva volato “leggermente più basso” con un gioco più gestibile e capace di mantenere quasi tutti i goal che si era promesso, il tutto senza senza saturare la scena. 

Risultato: a parte il caso downgrade rispetto ai trailer ufficiali del gioco, The Witcher 3 fu un trionfo, complice un supporto post lancio più rapido e soprattutto più fattibile.

Era un’altra epoca ed era un’altra software house, stavolta più piccola e contenuta; le promesse a livello di investimenti e ritorni risultavano essere molto meno onerose da dover accontentare ma è indubbio che nel tanto auspicato passaggio di CD Projekt da compagni orgogliosamente “in crescita” a “gigante”, ci sia stato il passo più lungo della gamba. Questo è ciò che ha portato CP 2077 nel vortice della cultura dell’hype fine a sé stesso, trasformandolo comunicativamente in un titolo posticcio, impazzito e irrealistico..

E badate bene: il contrario di “hype folle” non deve essere “austero” o “poco ambizioso”, non deve essere “non facciamo marketing aggressivo” o “rivediamo le dimensioni dei progetti”, arrivando a mortificare la potenzialità di questo tipo di progetti tripla-A.

Significa mettere al centro della scena il proprio gioco e imporsi per quel che in effetti darà al giocatore, e non per quello che “deve” dare (pena il dimenticatoio), con una comunicazione dosata attraverso poche uscite ma molto “di sostanza” e in grado di creare hype dosando perfettamente le necessità dei producers e la fame dei giocatori in attesa di notizie. 

Un esempio di successo in questo senso è rappresentato da Elden Ring di From Software, che da un lato è stato in grado di sfruttare le già buone credenziali di un team rodato, dall’altra ha centellinato in maniera intuitiva e intelligente le informazioni attirando l’attenzione del pubblico senza strafare, senza andare “oltre”, sfruttando a suo favore un fandom molto attento e capace di generare tanto buon user generated content, mantenendo quindi il marketing quanto più genuino possibile.

Una volta capito che esistono diverse strade percorribili sarà più facile avere campagne di comunicazioni virtuose e potremo parlare degli articoli sul sesso della nuova protagonista di GTA VI guardando al passato, così come finiremo per parlare meno di leak di massa come è accaduto a The Last Of Us Part II.

Questo sarà un modo per cominciare a disinnescare questa situazione.

Hype e videogiochi: i problemi della stampa

Veniamo infine all’altro lato della barricata, la stampa

Ora, se per le produzioni il problema del gestire l’hype in modo “etico” è tutto sommato una questione di creatività, scelte di piazzamento sul mercato e di ambizioni (quando le “contingenze” lo permettono), quando si parla di stampa tutto si complica, poiché guidata da logiche altre, forse anche più complesse e profonde, che si tratti di hot topic, SEO o sopravvivenza mera. 

Questi sono fattori che cementano l’idea che un tormentone informativo possa durare anche mesi o anni: tutto il necessario per far si che si possa utilizzare qualcosa per posizionarsi meglio sui motori di ricerca, in un continuo serpente che si morde la coda con siti che citano vicendevolmente vicende inutili o semplicemente dannose per l’universo dei videogiochi. 

Tutti, compreso chi scrive, vogliono un nuovo Silent Hill, ma senza ansia please

Un buon esempio può essere dato dal nome di Silent Hill, mega-classico dei survival horror uscito di scena nel 2011 con Downpour e mai più riapparso “in carne e ossa”. Con il passare degli anni Silent Hill è diventato più di un videogioco del passato ed ha direttamente assunto la forma di argomento evergreen, sempre pronto a far capolino nelle sezioni notizie dei siti diventando un vero e proprio discorso pubblico, capace di far leva tanto sugli spiriti nostalgici quanto sui nuovi giocatori che lo associano ad una figura pop come quella di Hideo Kojima. 

Questo genere di pratica è piuttosto estesa e, purtroppo, è tanto legata al mondo dei videogiochi come ad altri ambiti dell’informazione online. Non possiamo aspettarci che la natura umana cambi in un singolo giorno, mitigando questo problema, possiamo però sperare che certi paradigmi di fruizione cambino in favore di un ecosistema più sano: contenuti a pagamento, contenuti migliori, meno articoli su temi più specifici; esistono pletore di possibili soluzioni che risultano economicamente impraticabili nel peggiore dei casi. 

Finché il paradigma rimarrà quello attuale, con nessuno (videogiocatori in primis) disposti a modificare il proprio animo ci ritroveremo in maniera costante a parlare di queste vecchie notizie, riportandoli poi come quasi-quasi-nuove.

Da bravi disperati quali siamo possiamo anche provare ad accontentarci: possiamo lasciar passar per buone le informazioni di scarsa qualità ma almeno impegniamoci a renderle il primo frammento di un discorso più complesso, evitiamo (come elementi che operano la distribuzione delle informazioni all’interno di questo settore un po’ malmenato dall’economia di scala) di ripetere un’informazione ancora ed ancora. 

Siamo stanchi di avere l’impressione di aver scoperto tutto di un gioco di cui non si è visto nemmeno uno screenshot, non lo siete anche voi?

Speranze per il futuro

Cosa fare allora? 

Senza farci prendere la mano con uno spirito utopistico che può fare rima con  “semplicistico”, forse la follia creatasi attorno al gaming e all’industria dell’informazione sul videogioco dovrebbe condurre tutti-ma proprio tutti, produttori/creativi/distributori e ancor di più i giornalisti-a puntare su nuovi modelli di sviluppo del settore, più focalizzati sull’effettivo valore di ciò che si produce, sia in termini di opere giocate che di modalità di informazione in merito a esse.

Perché non prendere spunto da storytelling commerciali “di basso profilo”, come per esempio quello di Elden Ring?

I mezzi per puntare di nuovo sulla qualità sono sul tavolo, a maggior ragione oggi, dopo che la situazione che abbiamo illustrato prima è arrivata drammaticamente a saturazione

Proprio perché quel modello si è imposto e ha prosperato, sempre più si sono fatte forti le voci critiche verso di esso. Sulla carta, le condizioni sono quasi perfette per far sì che l’industria adotti un nuovo modello più sostenibile, comprendendo che è ora di cambiare strategia, e persino per far sì che l’audience accetti nuovi modelli di fruizione-magari anche con abbonamenti, o attraverso newsletter-per informarsi.

Se questo accadrà, forse l’effetto non sarà soltanto l’ottenimento di un’informazione di qualità.

Forse, addirittura, l’inizio della consacrazione del settore (anzi, dei settori: l’industria del videogioco e quella dell’informazione) fra gli “argomenti dei grandi”, rispettati anche da coloro che ancora oggi faticano a scorgere il suo potenziale economico. 

A quel punto, credetemi: staremo tutti molto meglio, fra sviluppatori, produttori, giornalisti.
Gli azionisti non lo sappiamo, ma forse stanno già bene nelle loro ville con piscina.

This post was published on 8 Settembre 2022 19:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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