Frustrazione: croce e delizia di un giocatore | #SaveAGame

Avete presente quella sensazione di leggerezza, quasi euforia, che si prova alla fine di una sessione di allenamento?

Non intendo per forza andare in palestra, bensì semplicemente la sensazione di “gioia di muoversi” che può derivare da una lunga escursione o anche solo dall’allenamento casalingo dopo che si è stati per ora seduti alla scrivania: hai la mente sgombra, i muscoli ben ossigenati e ti senti ribollire di energia, malgrado la fatica fisica dell’esercizio.

Un tipo simile di soddisfazione, forse più psicologica che fisica ma che comunque provoca risposte fisiologiche, può derivare dal videogioco.

  • Sconfiggere Artorias in Dark Souls.
  • Superare il livello delle catacombe in Syphon Filter.
  • Battere la sfida a tempo della Stazione Oxide in Crash Team Racing.
  • Giocare Metal Gear Solid 2 e 3 a difficoltà European Extreme.
  • Sconfiggere Ozma facendolo suicidare in Final Fantasy IX.

Queste sono alcune delle mie più grandi soddisfazioni da videogiocatore, tanto più che ognuna di queste operazioni mi ha richiesto un quantitativo di tempo smodato e tanta, tanta frustrazione.

Il delirante livello delle catacombe di Syphon Filter, soprattutto se lo giochi a 9 anni (fonte)

Perché la frustrazione nei videogiochi capita, è inutile negarlo: per quanto adori i Souls, morire per colpa di una compenetrazione poligonale mi fa contorcere lo stomaco ogni volta.

Ho un ricordo vivido di mio fratello che si alza di scatto dal divano scagliando a terra il controller PlayStation dopo aver subito una morte ingiusta (in un gioco che mi sembra fosse un Crash Bandicoot, ma non potrei giurarci) e abbandona il salotto senza dire una parola.

Il giorno dopo, comunque, era ancora lì.
Così sono alcuni di noi, videogiocatori: frustrati ma felici.

Tanto più frustrati quanto più felici?
Può darsi.

Masochisti, dunque?
Quasi certamente, sempre fino a un certo punto.

A mio parere ci sono infatti due tipi di frustrazione: l’una che ci frena dall’insistere e l’altra che ci sprona a continuare.

Com’è possibile?
Ora provo a spiegarmi.

Croce

I primi di agosto è uscito su Steam Timothy and the Tower of Mu, un action-platformer retrò dello sviluppatore indipendente italiano Kibou Entertainment.

Incuriosito, l’ho provato.

Il primo impatto è stato nettamente positivo: si tratta di un titolo che, sia per design che per estetica, pesca a piene mani da titoli in stile NES e Genesis, giochi tosti che oggi si intendono per hardcore gamers e che un tempo erano la normalità (si bilanciava la breve durata con un alto livello di sfida).

La palette cromatica limitata a pochi colori, la colonna sonora chiptune, la narrativa ridotta all’osso e tutta l’attenzione rivolta al puro gameplay (con un’occhio di riguardo alla pixel art): Timothy and the Tower of Mu è la evidente sintesi della filosofia di game design action-platformer a cavallo tra anni ’80 e 90.

Ci attende una sfida improba

Pur con qualche timida aggiunta spuria in termini di meccaniche (farming di ingredienti e crafting di ricette), le basi del gioco sono essenziali: bisogna scalare un’altissima torre per arrivare in cima, dove ce la vedremo con il cattivone finale. Se riusciremo a sconfiggerlo, esaudirà il nostro desiderio di resuscitare il nostro amato nonno, appena venuto a mancare. La salita diventa sempre più ardua, tra nemici aggressivi, trappole mortali e salti che devono esser precisi al millimetro, pena la morte istantanea.

Un sistema di checkpoint velocizza alcuni passaggi, ma la reiterazione del tentativo con conseguente affinamento dell’esecuzione costituisce l’ossatura del gameplay. Il gioco riesce sicuramente nell’intento di creare un senso di appagamento al superamento di ogni nuova schermata, e la frustrazione che genera ogni passo falso è anche uno stimolo a far meglio la volta successiva.

Fin qui il gioco funziona alla perfezione, poiché basato su una “frustrazione positiva”.

Sarà una scalata lunga e faticosa

Ci sono però alcune scelte di design che generano una “frustrazione negativa”, costituendo solamente un ostacolo al giocatore piuttosto che uno stimolo al perfezionamento.

Un esempio è l’assenza di un completo tutorial dei comandi.

Vero, essi sono estremamente semplici, memori dei pad delle vecchie console, costituiti da soli tre tasti più la croce direzionale. Ed in effetti servono solo tre tasti, corrispondenti a tre azioni: saltare, sparare (si tratta effettivamente di usare una fionda) e scattare; insomma non serve certo un genio per imparare i comandi.

Però non è tutto qui: ad esempio il tutorial non indica come passare negli spazi stretti. Io ovviamente ci arrivo al fatto che probabilmente basta premere e tenere premuta la freccia giù (o inclinare lo stick sinistro verso il basso), e poi direzionare il movimento per strisciare, ma perché non scriverlo?

Ancor meno intuitiva è la facoltà di Timothy di appendersi a degli appigli disseminati qua e là nella mappa. Non viene spiegata né l’esistenza di questa possibilità, né che, per farlo, bisogna tenere premuta la freccia SU una volta che salta in direzione di tali appigli.

Ancora una volta, io che ho una certa età e di giochi del genere ne ho visti tanti non ho nessun problema ad intuire tale meccanica.

Lo stesso può non valere per un giocatore più giovane e/o con meno esperienza nel genere di riferimento: proprio ciò che è capitato ad un utente che ha lasciato un commento nella pagina Steam del negozio: il malcapitato ha perso tempo senza capire come avanzare, perché tale comando non era spiegato dal gioco.

Contando che il primo post è stato pubblicato alle 17.30, possiamo dire il povero utente ha perso circa 2 ore per risolvere il problema. Due ore di vita buttate a capire come eseguire un comando che il tutorial avrebbe potuto esplicitare.

D’altronde, sembra che lo sviluppatore non si sia preoccupato granché dell’accessibilità del gioco, ostinandosi a mantenere in essere elementi di design che sono sì figli di un’altra epoca, ma di cui non sentiamo affatto la mancanza: l’esempio più lampante è il backtracking.

Il gioco ne è pieno in maniera ingiustificata. Per aprire una porta è quasi sempre necessario andare da una parte a recuperare la chiave e rifarsi l’intero percorso al contrario per proseguire. In un ambiente in particolare (la torre è suddivisa in macro-aree differenti, sorta di livelli costituiti di qualche decina di schermata) ho dovuto fare avanti e indietro per 3 volte, il che non è mai una passeggiata dato che trappole e nemici si resettano ad ogni cambio di schermata.

Una volta tale espediente poteva essere usato per allungare un po’ il brodo, e ci poteva chiudere un occhio, ma vissuto oggi costituisce solamente un’insopportabile palla al piede all’avanzamento.

Timothy and the Tower of Mu, backtracking
Quante volte ci son passato per questo ambiente?

Ora, avere nostalgia per i vecchi giochi non significa commuoversi ripensando a quanto fossero noiosi, astrusi o mal programmati. Eppure il gioco cade in questo errore: è anche afflitto da bug e glitch, uno dei quali mi ha compromesso la partita.

Ad un certo punto dell’avventura capito in un borgo di uomini-maiale che stazionano su un cornicione. Il loro re mi incarica di recuperare un oggetto prezioso, in cambio del quale mi donerà una chiave necessaria per proseguire. Tale chiave è custodita in una stanza posta al di sopra della sala del trono, ad un’altezza che dovrebbe impedire di raggiungerla. Ma proprio in quel frangente, a seguito di un dialogo con un NPC, il mio personaggio ha effettuato un balzo esagerato, che mi ha permesso di raggiungere la stanza in questione. Lì per lì non mi sono nemmeno reso conto di cosa fosse successo esattamente, ho solo preso la chiave in questione e ho proseguito nell’avventura, ignorando il percorso mortale verso cui mi indirizzava il re maiale ed aprendomi invece il cammino verso i piani alti della torre.

Solo a posteriori, osservando video di gameplay del gioco, ho realizzato di aver bypassato un intero dungeon con tanto di boss! Ovviamente anche alcuni dialoghi e interazioni con NPC erano state completamente saltate a pié pari. E tuttavia ho potuto proseguire nel gioco per qualche ora senza che ciò costituisse un problema, almeno finché sono incappato in un bug completamente invalidante: l’inventario non registrava gli oggetti raccolti.

Timothy and the Tower of Mu, il re Maiale
Re Maiale! Scusate la profanità…

“Ok”, direte voi, “ma qualsiasi giocatore scafato alle prese con un gioco tosto si premura di salvaguardare i propri progressi con più file di salvataggio.”

Unico slot, spiacente, ogni salvataggio sovrascrive il precedente.

“Ma che problema c’è? Basta cominciare una nuova partita, mettersi il cuore in pace sapendo che si perderà qualche ora della propria vita a rifare tutto e, una volta ritornati allo stesso punto, pregare che non si verifichi di nuovo…”

Mi spiace ma NO.
Ho 32 anni, non più 12, ho troppo da fare e troppo poco tempo libero per pensare di dedicarlo a giocare compulsivamente un gioco buggato che non mi dà garanzie di riuscire a finirlo senza ulteriori intoppi di programmazione.

Oltretutto il gioco è afflitto da scarsa ottimizzazione, ad esempio vi è input lag quasi onnipresente per quanto riguarda lo shooting, nonché l’impossibilità di varcare una soglia se non si è esattamente al centro della stessa (questione di un pugno di pixel). E per finire è privo di qualsiasi opzione grafica, tra cui, incredibile a dirsi, la visualizzazione in full screen.

Timothy and the Tower of Mu
Le boss fight sono appaganti. Peccato averle perse per strada…

Ed è un peccato stilare questa lista impietosa di difetti, che sembrano destinare Timothy and the Tower of Mu ad una bocciatura senza appello: un peccato perché il gioco c’è, ha dei pregi estetici evidenti e sarebbe potuta essere un’esperienza soddisfacente, ma la frustrazione negativa ha prevalso oltremodo su quella positiva. Per certi versi è anche troppo facile prendersela con una micro-produzione come questa, dove i difetti balzano subito all’occhio.

Ma tali difetti non sarebbero meno gravi in un prodotto AAA, anzi lo sarebbero a maggior ragione. È proprio il motivo per il quale non ho mai finito Skyrim: dopo 60 ore abbondanti di avventura il mio personaggio si incastrò nella stanza di una casa durante una missione, incapace di uscirne. Avevo sì un altro slot di salvataggio, ma decine di ore gioco erano comunque compromesse, il che mi ha tolto completamente la voglia di proseguire.

Pazienza, se ne riparlerà con TES VI.

Delizia

Voglio precisare che il senso di questo articolo è tentare di spiegare come il sentimento di frustrazione che si prova affrontando determinate sfide o difficoltà videoludiche possa essere portatore di sensazioni/emozioni positive e non solo negative.

In questo senso, non è affatto detto che tale “frustrazione positiva” dipenda dalla difficoltà intrinseca del gioco, ma può derivare anche da altre variabili che hanno a che fare con il giocatore stesso, ad esempio la sua età anagrafica o le sue competenze generali.

Vi faccio un esempio.

Io sono italiano, classe 1990.
L’italiano è la mia lingua madre, e non direi di essere particolarmente dotato per le lingue: ho una conoscenza abbastanza decente dell’inglese da poter sopravvivere all’estero senza problemi, ma non più di questo. Se a questa premessa aggiungiamo il fatto che una grande parte dei videogiochi distribuiti negli anni ’90 e primi ’00 in Italia non era localizzata in italiano, possiamo dedurne che fino all’adolescenza ho videogiocato molto spesso senza capire granché di dialoghi e narrativa.

Come ciliegina sulla torta aggiungiamo che l’RPG è da sempre uno dei miei generi preferiti.
Risultato? Ho giocato Final Fantasy VII e Vagrant Story senza capirci una mazza. E li ho adorati.

Ashley Riot
Ashley Riot, eroe di una storia di cui non ho mai capito nulla

Era frustrante affrontare lunghe scene di dialogo (non skippabili come oggigiorno) di cui non ero in grado di afferrare il senso? Sì. Era frustrante girare per ore a vuoto perché non avevo capito dove dovessi andare o con chi dovessi interagire per proseguire nell’avventura? Certamente. Era frustrante cercare di intuire il funzionamento del Materia System in FFVII o del Risk System e del crafting delle armi in VS, senza poter comprenderne i tutorial? Era frustrante eccome.

Eppure.

Eppure l’eccezionale comparto artistico di quelle opere, il senso di meraviglia e scoperta suscitato dall’esplorazione di quei mondi enormi e il divertimento offerto da gameplay da manuale, contribuivano a trasformare quelli che sarebbero stati normalmente muri invalicabili in stimoli positivi per l’immaginazione, per l’intuizione, per il pensiero laterale e per il gusto della sfida nella sfida.

Non capivo la storia? No problem, la elaboravo io in base agli stimoli che il gioco mi offriva. Non capivo i dialoghi? Non importava, ero in grado di tracciare un profilo caratteriale dei personaggi unicamente in base alle loro azioni ed “espressività” (un plauso agli animatori di quegli anni che riuscivano a rendere espressivi personaggi che erano poco più di un pugno di poligoni).

Ogni ostacolo incontrato non era una zavorra nel mio incedere, ma un incentivo a muovere un passo in più. Ogni piccola frustrazione non era prodromo di un fallimento, ma di gloriosi paralipomeni.

Cloud Strife, FFVII
Sii come Cloud: gioca, il resto verrà da sé

Oltre a questi casi molto particolari, ci sono almeno altri due modi più diretti attraverso cui il videogiochi può generare una frustrazione positiva sul giocatore: uno passa per il bilanciamento del livello di difficoltà, nel senso che un gioco può essere concepito per rappresentare un alto livello di sfida, e dunque sviluppato avendo gli hardcore gamers come target di riferimento: picchiaduro che richiedano riflessi da superuomo, strategici che presuppongano uno studio enciclopedico del sistema di gioco, simulativi che strizzino l’occhio ai più maniaci di questa o quella disciplina e così via.

Non mi dilungo su questo aspetto perché significherebbe addentrarsi nella riflessione sull’opportunità della selezione del livello di difficoltà all’interno dei videogiochi, un argomento troppo ampio per essere trattato in questa sede.

Diciamo semplicemente che sono titoli la cui filosofia di game design è soddisfare tutti coloro che traggono massima soddisfazione da sfide estreme, magari caratterizzate dalla competizione con altri giocatori.

Il secondo modo non ha a che fare con le capacità del giocatore, ma con le sue emozioni: potrei definirla la frustrazione dell’attesa. Si tratta della “smania di voler giocare” che a volte ci tenta di skippare dialoghi o spiegazioni per voler andare subito al nocciolo del gameplay.

L’istanza che meglio rappresenta questo tipo di frustrazione è il tutorial, cui è il caso di tornare a parlare dopo averne accennato prima: aspetto fondamentale del medium, ha vissuto profonde trasformazioni nel corso dei decenni e servirebbe un articolo ad hoc per analizzare il fenomeno nella sua interezza.

Anche qui, perciò, è meglio andare sull’esempio pratico.

Era il 1999 quando lessi su PlayStation Magazine la recensione di Metal Gear Solid.

Una volta finito di leggerla non stavo più nella pelle all’idea di giocarlo. Lo ricevetti in regalo per il mio compleanno, ma non era ancora il tempo di inserire il disco nella console. La dolce impazienza doveva essere alimentata da un rituale irrinunciabile: la lettura del manuale di istruzioni.

La mia copia del manuale di MGS, con il recap delle puntate precedenti

Questa è davvero una cosa che i videogiocatori più giovani faranno fatica a capire: un tempo leggere il manuale cartaceo in accompagnamento al disco/cartuccia era spesso fondamentale.

Un po’ manuale di istruzioni, un po’ guida per principianti, il manuale ci guidava come Virgilio all’interno dell’universo di gioco, insegnandoci i comandi, illustrando in dettaglio l’HUD, approfondendo la lore e dando utilissimi consigli di gameplay, che in alcuni casi si traducevano in una vera e propria guida completa ai primi minuti dell’avventura.

Nel caso di MGS un’introduzione alla serie era necessaria poiché si trattava del terzo episodio di una IP che aveva mosso i primi passi su un hardware che aveva avuto circolazione limitata (l’home computer MSX, dismesso nel 1995) ed era perciò sconosciuto a moltissimi giocatori.

Già il fatto che la lettura di una storia fosse propedeutica ad immergersi con più consapevolezza nell’esperienza di gioco era qualcosa di assolutamente inedito nella mia esperienza di videogiocatore, e contribuì a connotare Metal Gear Solid come rivoluzionario nella mia fruizione del medium. Apprendere che la trama di gioco affondasse le sue radici in antefatti geopolitici così profondi e misteriosi mi suscitava da una parte la spasmodica voglia di saperne di più, dall’altra l’impulso di mandare al diavolo qualsiasi preambolo e gettarmi nel gameplay.

Sensazione che nelle prime fasi di gioco si ripeteva ogni pochi minuti, allo squillare del CODEC: minuti e minuti di interminabili conversazioni, che leggevo totalmente ammaliato dalla profondità di scrittura di qualità cinematografica, ed allo stesso tempo con i muscoli in tensione e i polpastrelli delle dita che fremevano, trattenendosi a fatica dal premere il pulsante di avanzamento veloce.

Ricordi indelebili, sensazioni indescrivibili, ossimoriche: frustrazione gioiosa.

Ti aspetterei per sempre, Snake <3

Se il manuale (e la intro) fungevano da tutorial sulla narrativa del gioco, il CODEC svolgeva il ruolo di tutorial di gameplay: forniva a Snake un vademecum sulle sue azioni stealth; offriva utili consigli durante le boss fights; spiegava come salvare il gioco (lo salvava effettivamente).

In definitiva la spiegazione di come si gioca a Metal Gear Solid era disseminata in parte nel gioco stesso e in parte nel manuale di istruzioni, ma si potrebbe aggiungere un terzo elemento, ovvero le VR Missions: una raccolta di missioni facoltative accessibile fin dal primo avvio del gioco. Comprendevano diverse tipologie di compiti divisi in categorie, con una difficoltà sempre crescente: grazie ad esse il giocatore imparava a cavarsela in qualsiasi situazione, affinando le tecniche di infiltrazione, le fasi di shooting e la rapidità di esecuzione.

So per certo di averle terminate tutte prima di arrivare ai titoli di coda dell’avventura: nonostante l’impazienza di portare a termine la missione principale, questa modalità extra era troppo accattivante per poter essere trascurata.

Oggigiorno i manuali sono praticamente scomparsi, e la tendenza è di integrare i tutorial nelle fasi iniziali del gioco, magari diluiti nell’arco di diverse ore se si tratta di un titolo particolarmente lungo o complesso.

Un tempo invece non si era così delicati e capitava che il gameplay venisse bruscamente interrotto per far spazio ad un momento tutorial che, se andava bene, poteva essere skippato per non perdere tempo in una seconda run; se andava male diventava la parte di gioco meno interessante di tutta l’esperienza.

Anche nel caso di questi tutorial puramente testuali la brama di giocare suggeriva di premere X compulsivamente e leggere il meno possibile, ma la cosa poteva ritorcersi contro il giocatore. Il mio ricordo più vivido a questo riguardo è la spiegazione del junction system di Final Fantasy VIII, cui prestai ben poca attenzione inizialmente, nella patetica convinzione che avendo avuto la meglio sul settimo capitolo non necessitavo di alcun tutorial.

Mi sbagliavo di grosso.

Junction System, una passeggiata… se sai come usarlo

E posso solo immaginare quanta frustrazione positiva possano generare i tutorial di Crusader Kings o Europa Universalis ad un malato di grand strategy.

La verità è che i tutorial scocciano, ma sono anche divertenti. In fondo, io non vorrei mai farne a meno.

In conclusione: frustrati e felici

Soffrire poco, soffrire tutti: questo è quello che dovremmo auspicare di provare videogiocando. Purché si tratti, ovviamente di frustrazione positiva che ci spinga a voler andare avanti altri 5 minuti e non a correre a rivendere la nostra copia al GameStop… anche perché probabilmente è una copia digitale!