Leggendo solo il titolo, qualcuno potrebbe già avere qualcosa da ridire, del tipo: “Ma io mi sono divertito giocando a Death Stranding”; anche chi scrive questo articolo si è divertito e inserisce l’opera di Hideo Kojima tra le più influenti del medium videoludico, ma è assolutamente irrilevante. La noia in quanto stato d’animo è soggettiva, c’è chi si annoia e chi no allo stesso party, a una conferenza o giocando a un videogioco. L’intenzione di questo approfondimento è analizzare la “noia” come elemento intrinseco del game design, come scelta autoriale.
Chi giudica in modo negativo Death Stranding adduce come tesi, di solito, l’aver provato noia, perché il gioco di Kojima si basa su meccaniche ridondanti e alla lunga ripetitive. Chi lo afferma può anche avere ragione, da un certo punto di vista, tuttavia guarda quelle dinamiche come se fossero un errore, in realtà si tratta di una scelta di game design molto coraggiosa, cioè l’inserimento nell’impianto principale di gioco di caratteristiche che in altri giochi, di regola, vengono considerate un punto a sfavore, la dimostrazione che lo sviluppatore non è riuscito a creare un gameplay divertente e vario.
Hideo Kojima con Death Stranding ha ribaltato invece il concetto di gioco divertente. Vediamo come.
Per capire come Kojima sia riuscito a inserire un concetto negativo nelle fondamenta del suo gioco senza che questo le facesse crollare, ma anzi, facendolo diventare un valore aggiunto, è necessario spendere due parole sulle modalità usate dall’autore per generare nel giocatore immedesimazione nel protagonista, Sam Porter Bridges.
Abbiamo già detto che chi ritiene il gioco noioso non è del tutto fuori strada, infatti in alcune dinamiche, nella ridondanza di certi aspetti di gameplay è proprio così: il gioco vuole essere interpretato come noioso perché solo così il giocatore può immedesimarsi in un personaggio chiamato ad attraversare gli ex Stati Uniti d’America per portare pacchi. In mezzo, possono accadere episodi spiacevoli, come incontrare i Muli e dover scappare dalle CA, ma queste attività possono essere considerate “incidenti di percorso” che avvengono durante la missione principale, cioè consegnare cose (o addirittura persone).
Se nel tragitto che ci porta dal punto A al punto B, avvertiamo fastidio per l’ennesima missione di consegna stiamo facendo il gioco di Kojima, perché lui vuole che il giocatore avverta sentimenti avversi a ciò che sta facendo in game. Per questo la sua scelta di design è coraggiosa, perché propone un modo tutto nuovo di far sentire il giocatore parte del mondo di gioco, inducendolo anche a stancarsi di quel mondo. Proprio come Sam Porter Bridges.
Facciamo degli esempi pratici: in Resident Evil 2, il giocatore può provare ansia nell’esplorare le stanze della stazione di polizia, può spaventarsi a seguito di un jumpscare entrando in empatia con Leon Kennedy, tuttavia non c’è immedesimazione totale perché l’ansia e la paura non portano il giocatore a dire. “Mi sono stancato, ora smetto”, il giocatore in quei momenti si sta divertendo, a differenza di Leon. L’agente non è certo felice di stare lì, il suo primo giorno di lavoro si è trasformato in un incubo, lui avrebbe preferito una tranquilla giornata in ufficio piuttosto che combattere contro zombie e armadi alti tre metri.
L’esempio maggiormente calzante, però, si può portare con i videogiochi bellici più mainstream: Call of Duty e Battlefield. Il giocatore si diverte a uccidere centinaia di nemici virtuali, ma i personaggi che controlliamo sono in guerra, non si divertirebbero se fossero reali. Ovviamente, parliamo di gameplay, il discorso sarebbe diverso se stessimo trattando la narrativa che può generare empatia in virtù del fatto che il giocatore non è parte attiva durante le cutscene. In Death Stranding c’è invece totale immedesimazione empatica nel gameplay perché chi prova frustrazione nel dover compiere l’ennesima consegna, lo fa in concomitanza con Sam.
Durante le missioni, non è raro che Sam parli tra sé e sé affermando di non avere voglia di continuare. Spesso lo si sente dire: “Spero che mi sostituiscano”, oppure lasciarsi andare a un più esplicito e laconico: “Che palle!“. Queste esternazioni formano una connessione con l’utente, come se Kojima fosse riuscito a estendere la rete chirale anche nel mondo reale. Non solo, anche quando il giocatore vede Sam arrancare sotto il peso di un carico esagerato, egli è portato a empatizzare con il personaggio, infatti, alzi la mano chi non ha mai pensato: “Poveretto”, vedendolo cascare in un fiume. In un caso del genere Sam è sicuramente avvilito perché vede i suoi sforzi incontrare sempre degli ostacoli. E il giocatore come si sente quando assiste a una scena del genere? Avvilito. Vedete? C’è immedesimazione empatica.
Pertanto, con questa spiegazione di come si identifica l’immedesimazione in Death Stranding, vogliamo dimostrare che la noia, il fastidio, la frustrazione sono elementi di game design utilizzati dall’autore in modo consapevole. Si tratta di una scelta autoriale controversa che porta con sé dei rischi, ad esempio quello di allontanare un certo tipo di giocatore abituato a modi più canonici di concepire l’intrattenimento, soprattutto nei Tripla A. Il gioco di Kojima può essere visto addirittura come una prova di fede, che il giocatore deve affrontare andando oltre ciò che ha sempre creduto per abbracciare un modo completamente diverso di approcciare il videogioco in quanto passatempo e svago.
E qui sorge una domanda. Perché il videogioco rischia di più il flop o la critica feroce rispetto ad altre forme artistiche se prova a fare qualcosa di diverso? Una risposta ragionevole potrebbe essere che il videogioco, da ancora troppe persone, non è visto con gli stessi occhi con cui si guarda un film o si legge un’opera letteraria. In un film d’autore il regista può permettersi di inserire scene di svariati minuti senza dialoghi e musiche, i cultori le considererebbero “lente”, ma con un’accezione positiva. Quelle scene in cui, apparentemente, non succede alcunché sono lì per un motivo, c’è una scelta autoriale che, di norma, viene accettata.
Avete presente Alla ricerca del tempo perduto, capolavoro letterario di Marcel Proust? L’opera è divisa in sette volumi, ma se si eliminassero tutte le descrizioni, la stessa storia si potrebbe raccontare in due. Proust è un cretino? No, è uno dei maggiori artisti ad aver utilizzato la tecnica del flusso di coscienza e a nessuno verrebbe in mente di dire che lo scrittore francese avrebbe dovuto accorciare il suo romanzo. Il videogioco è un’arte attiva, cioè il fruitore interviene e può anche modificare l’opera con le sue decisioni, con il suo personale approccio, da qui probabilmente la minor apertura a scelte autoriali improntate sulla lentezza, sulla necessità di fermarsi per più di qualche attimo.
Hideo Kojima ha fatto questo, ha deciso di inserire in un’opera attiva dei concetti agli antipodi con il dinamismo e l’immediatezza, caratteristiche che spesso vengono cercate nei videogiochi. Death Stranding ha sfidato il concetto stesso di videogioco ad alto budget cercando di convincere il giocatore che anche azioni date per scontate (gestire un pacco, consegnarlo), se inserite nel giusto contesto, possono diventare parte di qualcosa di molto più grande e intenso.
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This post was published on 18 Agosto 2022 12:51
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