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Speciali

Quando l’estetica inganna il giocatore

Può l’estetica ingannare il giocatore facendogli credere che un videogioco sia più bello di quel che è in realtà? Me lo sono chiesto parecchie volte leggendo opinioni esageratamente entusiastiche su prodotti molto validi, ma non eccezionali dal punto di vista ludico o con difetti evidenti che passano in secondo piano proprio perché l’estetica fa da paravento.

Anche io non sono esente dal subire questo fenomeno, capita non di rado che mentre mi lamenti di qualcosa che trovo sbagliato nel gameplay, poi mi faccia affascinare da uno scorcio o da un particolare dell’ambiente che mi fa pensare: “beh, però che bello che è”. Per questo motivo, mi domando se l’estetica possa effettivamente annebbiare la vista e soprattutto lo spirito critico di un giocatore, portandolo a osannare un titolo solo per meriti estetici (che comunque sono da tenere in altissima considerazione), nonostante limiti narrativi e ludici.

Prima di proseguire, vorrei sottolineare che parlo di estetica, non di grafica. La grafica può avere lo stesso effetto, ma in modo meno impattante, secondo la mia opinione. Per grafica ormai intendiamo tutti quegli aspetti tecnici che fanno sì che ciò che vediamo sia pulito, rifinito, intendiamo la risoluzione, infatti oggi anche le console permettono di selezionare tra modalità performance e modalità grafica che, appunto, va a migliorare l’aspetto visivo ai danni delle prestazioni, leggasi frame rate.

L’estetica è un altro paio di maniche e ritengo sia più “pericolosa” della grafica perché nettamente più seducente. Per estetica si intende la scelta cromatica, lo stile adoperato per raccontare visivamente ciò che avviene su schermo (pixel art, acquerello, graphic novel, ecc.). Prendiamo un gioco di prossima uscita, As Dusk Fall: esteticamente è una sorta di fotoromanzo d’altri tempi; prendiamo un qualsiasi indie narrativo a scorrimento laterale, quali Limbo e Inside: la grafica c’entra pochissimo, è tutta cifra stilistica, è estetica. Ma sono anche giochi stupendi a 360 gradi.

La questione che vorrei porre all’attenzione riguarda l’estetica come ombrello, sotto cui alcuni giochi potrebbero ripararsi evitando la pioggia di critiche che scroscerebbe a causa di difetti sotto gli occhi di tutti, occhi che però distolgono lo sguardo perché accecati dalla bellezza abbacinante di una cascata o di una montagna innevata.

L’estetica può coprire le spalle al gameplay e alla trama?

Per analizzare la questione è necessario portare degli esempi che possano far comprendere appieno la tesi che porto avanti – che non è contro l’estetica, non sono mica pazzo, ma contro la sua strumentalizzazione da parte dei giocatori, e anche alcuni critici professionisti, che la usano per convincere gli altri della fantomatica perfezione di un’opera.

Il primo gioco che mi viene in mente è Ghost of Tsushima, il bellissimo (lo premetto, così non ci sono qui pro quo) action open world all’arma bianca di Sucker Punch ambientato durante l’invasione mongola del Giappone (qui trovate le nostra recensione). Si tratta di uno degli esempi più lampanti di ciò che voglio dire, perché Ghost of Tsushima è davvero è un bel titolo a tutto tondo, tuttavia all’epoca della sua uscita ci fu una notevole spaccatura tra recensioni italiane e recensioni straniere, di conseguenza anche il pubblico iniziò a dividersi in fazioni.

Io diedi 7,7 (vi spoilero la recensione), un voto alto, ma non abbastanza per taluni. Sui siti esteri infatti fioccarono i 10 e i giocatori ebbero da ridire sui voti mediamente più bassi della critica italiana. Quali sono i problemi di Ghost of Tsushima a mio modo di vedere? Un mondo estremamente legato al giocatore, restio ad andare avanti senza la nostra presenza, e la presenza di dinamiche open world fin troppo derivate dai giochi Ubisoft, ad esempio la liberazione degli accampamenti.

Prendiamo proprio quest’ultimo aspetto: i giocatori spesso si lamentano degli open world in stile Ubisoft, perché stanchi di fare sempre le stesse cose ma in ambientazioni diverse. La liberazione di accampamenti e basi nemiche è uno degli standard dei titoli dell’azienda francese, eppure in Ghost of Tsushima va bene, non è una scelta criticabile. Perché? Io mi sono fatto un’idea: l’estetica eccezionale di Ghost of Tsushima ha coperto le spalle al gameplay (non tutto, il combat system è oggettivamente fichissimo). Quei colori vividi, quelle foglie rubiconde svolazzanti, quei prati in fiore, quei fiumiciattoli cristallini hanno modificato la percezione globale del gioco.

Facciamo un altro esempio. Parliamo di Trek To Yomi. Casualmente anch’esso ambientato nel Giappone feudale, dimostra che esiste un fenomeno di alterazione percettiva legato a un’estetica molto importante. Il gioco di Flying Wild Hog è un gioiellino, ma la scatola è nettamente più bella del monile. Allora, può piacere o meno, ma non si può far finta di non aver visto una ridondanza di fondo abbastanza stucchevole (ammorbidita dalla breve durata dell’esperienza) e, soprattutto, la cattiva gestione della parata.

Trek To Yomi si basa sul parry, è fondamentale parare al momento giusto per avere la meglio negli scontri. La parata, però, spesso e volentieri non entra, non viene eseguita quando il giocatore vorrebbe, la reattività dei comandi, in generale, è problematica. Anche la trama non è esattamente un capolavoro, è in linea con le produzioni simili, parla di vendetta, di onore, come da tradizione per i giochi che si ispirano alla cinematografia di Kurosawa. Eppure, Trek To Yomi di base deve prendere 9, altrimenti è una vergogna.

Possiamo dire che anche in questo caso l’estetica ha fatto un brutto scherzo? Ribadisco, non è questione di bello e brutto, di bianco e nero, esistono delle sfumature, purtroppo accade che un’estetica abbagliante sia così pesante da far pendere l’ago della bilancia sempre verso il bianco, il bello, l’ago non si trova mai al centro. Lo trovo profondamente sbagliato perché se la grafica non è la cosa più importante in un videogioco, non vedo come mai debba esserlo l’estetica.

Ma facciamo un ultimo estremo esempio: Cyberpunk 2077. Sembra paradossale, vero, perché l’opera di CD Projekt Red la sua dose massiccia di shitstorm se l’è presa, giustamente, eppure vi posso assicurare che ci sono ancora degli irriducibili secondo i quali i bug ce li siamo inventati noi e che la struttura di gioco è perfetta così com’è.

Poi scavi più a fondo e capisci che Night City è il vero motivo di questa levata di scudi in difesa di un’operazione commerciale indecorosa. Che gli vuoi dire esteticamente a Cyberpunk 2077? Bisogna solo alzare le mani e ammettere che da quel punto di vista è un gioco pazzesco. Tecnicamente no, ma esteticamente sì. Torniamo, quindi, al discorso iniziale. L’estetica che fa le veci dell’aspetto grafico e tecnico, sopportando il peso di responsabilità che non competerebbero a lei. L’estetica di Cyberpunk 2077 è lussuriosa, pertanto seduce l’occhio.

L’arte della seduzione visiva

Ecco, seduzione dell’occhio. Perché avviene questo? Il videogioco è l’unica espressione artistica attiva, da parte del fruitore. Quando noi vediamo un quadro stiamo passivamente accettando ciò che l’artista vuole rappresentare, quando vediamo un film non possiamo intervenire in alcun modo, quando ascoltiamo della musica possiamo cambiare le parole, ma la nostra versione non sostituirà mai quella originale.

Nel videogioco il fruitore accetta passivamente solo l’art direction che è rappresentazione della volontà espressiva del game designer), mentre le meccaniche pensate dagli sviluppatori vengono utilizzate dall’utente a proprio beneficio attivamente, cioè andando a interagire con una periferica esterna che manda un segnale all’opera riprodotta.

Nelle altre arti l’estetica è preponderante, è il fattore principale che porta chi guarda a fruirne perché se volesse dare un suo tocco personale non potrebbe, se non diventando egli stesso autore. È l’arte della seduzione visiva che passa dagli occhi e, arrivando al cervello, diventa poi emotiva. Questo fenomeno, secondo me, avviene nei videogiochi pur non dovendo accadere.

Il videogioco è attivo, chi ne fruisce non dovrebbe rimanere attratto solo da ciò che vede, ma anche e soprattutto da ciò che fa. Invece, alcuni subiscono il fascino estetico come se si trovassero di fronte a un’opera d’arte passiva, dimenticando che sono loro ad avere il controllo.

Questo fenomeno viene anche sfruttato dai game designer e non lo dico io, ma Bruce Straley, artista che ha lavorato a The Last of Us e Uncharted 4, come potete leggere nel tweet in basso.

Ritengo che l’estetica non vada analizzata come se fosse un parametro a parte che può ribaltare la situazione in caso di guai, dovrebbe invece essere vista come uno degli ingredienti della ricetta, i quali devono amalgamarsi, non separarsi, altrimenti il risotto diventa un’insalata di riso. Buoni entrambi, ma nell’insalata di riso la sfavillante maionese potrebbe coprire il sapore del cetriolino, che non piace proprio a tutti.

This post was published on 24 Giugno 2022 12:44

Michele Longobardi

Laureato in Lettere moderne, scopro la passione per il giornalismo quasi per caso. I videogiochi sono il mio più grande amore e così decido di coniugare le due cose. Il giornalismo videoludico diventa la mia forma finale. Per me i videogiochi sono una forma d'arte e guai a dirmi il contrario. Appassionato di tutto ciò da cui sgorga sangue: cinema horror (registi preferiti Argento e Romero), letteratura gialla e dell'orrore (autori preferiti Christie, Poe e Lovecraft) e ovviamente i videogiochi del genere (Silent Hill e Resident Evil sopra ogni cosa). Il mio videogioco preferito di sempre è Fahrenheit che ho finito un numero non precisato di volte, da lì scaturisce la mia ammirazione per tutti i lavori di David Cage. La mia "carriera" videoludica è segnata da un marchio da cui non sono mai riuscito a staccarmi: PlayStation! In circa 20 anni di gaming, ho completato più di 800 titoli.

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