“Che bello, questo gioco sarà open world, come GTA!”. Per far sì che questa frase abbia un senso, dobbiamo tornare indietro nel tempo, di circa vent’anni, cioè a quando l’industria dei videogiochi non aveva ancora visto nell’open world l’unica soluzione per dare una prova di forza, per dimostrare di essere in grado di sfruttare appieno le potenzialità di un hardware.
Quando veniva annunciato un GTA-like, la sorpresa era tanta perché l’open world in stile Rockstar rappresentava l’eccezione della regola: i videogiochi si beavano del loro essere lineari, chi più chi meno, approfondivano le proprie meccaniche senza che queste venissero spalmate in esperienze interminabili, non le “sprecavano” chiedendo al giocatore di andare alla ricerca di oggetti del tutto futili o di compiere le quest di personaggi senza né capo né coda.
Non è una questione di dissonanza ludonarrativa, è molto più semplice. Il punto è che una cosa è buona quando la mangi un paio di volte, poi inizia a stomacarti. Avete presente quando dite a vostra madre: “che buoni questi sottaceti” per poi ritrovarvi con la casa invasa da cetriolini e cipollotti in barattolo? Ecco, buoni sì, ma non ci allarghiamo.
Questo comportamento materno altamente molesto si sta configurando anche nel mondo dei videogiochi. L’open world ha letteralmente spazzato via i giochi lineari, spesso demonizzati perché fraintesi. La definizione di gioco lineare non è corridoio con mura invalicabili e indistruttibili (oddio, ci sono anche quelli, ma come esistono tali prodotti, esistono anche open world che sono veri e propri istigatori al suicidio), perché nei giochi lineari fatti bene ci possono essere un sacco di attività secondarie, di segreti, di aree esplorabili che non ti costringono, però, a chiamare i tuoi genitori dopo esserti ritrovato in una sperduta stazione buia perché sei salito su un treno piuttosto che su un altro, in compagnia di un losco figuro, tra l’altro, che ti guarda con insistenza.
Doom Eternal è lineare, ma quanta roba c’è da fare? Quanto sono grandi le aree? The Last of Us: Parte 2 è open world? No, lo sembra in alcune zone, ma non lo è. Prendiamo anche l’ultimo God of War: non è affatto open world, è comunque classificabile come titolo lineare, ma è fatto in modo da far percepire al giocatore una libertà di esplorazione maggiore di tanti altri titoli.
Gli attuali hardware hanno standard estremamente più alti rispetto al passato, pertanto oggi si fa l’open world perché si può fare. Anche uno sviluppatore indie, se volesse e avesse un po’ più di risorse umane ed economiche, potrebbe fare un gioco con una mappa enorme perché oggi, anche su console, puoi creare un universo con milioni di pianeti visitabili. Ma è sempre necessario?
Badate, non è un discorso da boomer, un voler affermare che prima si stava meglio. Al contrario, per chi scrive questo soliloquio si sta meglio adesso, i videogiochi sono nettamente più godibili oggi e, oggettivamente, sono migliori da ogni punto di vista (tecnico, dei controlli, doppiaggio, recitativo), dunque il discorso è prettamente da consumatore e fruitore di un prodotto: ormai, quando viene annunciato un gioco open world, non c’è più l’effetto ‘wow’. Paradossalmente, succede proprio l’inverso, ora ci meravigliamo se gli sviluppatori definiscono lineare la propria opera.
Il fascino di un gioco che ti permette di esplorare meravigliosi mondi virtuali (realistici o meno) c’è sempre ed è magnetico, non c’è dubbio, il problema è ciò che viene messo all’interno di questi universi paralleli, o troppo vuoti o zeppi di cianfrusaglia videoludica. Con Ubisoft, ad esempio, si può parlare di bulimia videoludica perché il giocatore fagocita quest su quest fino a vomitare.
Possibile che nessuno, ai piani alti, alzi il ditino e dica: “Facciamo un gioco lineare, ma facciamolo intenso”. No, la prima idea è il mondo aperto, apertissimo, spalancato. L’open world sta stuccando, è un dato di fatto, e chi scrive ciò è il primo a giocare ad Assassin’s Creed: Valhalla. La soluzione non è eliminare l’open world, in primo luogo perché deve esserci sempre una scelta variegata, in secondo luogo perché certe opere hanno bisogno di essere ad ampio respiro; la soluzione è invece offrire al giocatore esperienze che puntino sull’intensità di ciò che c’è, non di ciò che potrebbe esserci in un punto sperduto della mappa che poi si rivela un accampamento con due galline e un’erba medicinale.
Final Fantasy XVI non sarà open world, parola di Yoshida
Tutto questo per dire cosa? Per introdurre le dichiarazioni di Naoki Yoshida, producer di Final Fantasy XVI. Le sue parole sono in controtendenza con ciò che abbiamo descritto poco sopra e con ciò che è sempre stato Final Fantasy.
Yoshida, infatti, in un’intervista rilasciata a IGN, ha fatto sapere che l’attesissimo nuovo capitolo della serie non sarà open world. Come abbiamo potuto già osservare nei trailer e nei gameplay pubblicati fino a oggi, lo stile sarà molto diverso da quello che siamo abituati a vedere da trent’anni a questa parte.
Ciò si rifletterà soprattutto sul combat system, nettamente più action. In teoria, anche gli ultimi capitoli della serie lo erano, ma in FF XVI ci sarà un vero cambio di rotta che nel remake di FF VII fu solo accennato. Il combat system di FF XVI si può definire “stylish action”, alla Devil May Cry e Bayonetta per intenderci. Per far assimilare maggiormente questo nuovo approccio sia ai giocatori veterani sia a quelli nuovi, Yoshida ha deciso di rendere le aree più piccole, esplorabili certo, ma più contenute.
FF XVI, in sostanza, sarà open area, non open world.
Abbiamo scoperto grazie alla nostra vasta ricerca sugli utenti che molte delle giovani generazioni di giocatori non hanno mai giocato a Final Fantasy o non hanno alcun interesse per la serie. Volevamo creare un gioco che potesse emozionare e parlare non solo ai nostri fan storici, ma anche a quelli della nuova generazione
Quindi sì, Final Fantasy XVI è ispirato in parte ai recenti GDR tripla A con struttura open world. Tuttavia, per confezionare una storia che sembra abbracciare un intero mondo e oltre, abbiamo deciso di evitare un design open world che ci limiti a un singolo spazio e concentrarci invece su un design di gioco basato su diverse aree indipendenti, nel tentativo di offrire ai giocatori una sensazione più vivida di una dimensione realmente “globale”.
Qualcosa si sta muovendo in tal senso, forse. Qualcuno sta iniziando a capire che l’open world a tutti i costi non deve essere un cruccio, ma una risorsa preziosa da usare con parsimonia per non trasformarla in una risorsa comunissima e senza importanza.