Ovvero: perché gli sviluppatori di app (e gli inserzionisti) non sanno più chi sia il loro pubblico
Prima dell’annuncio della dismissione dell’IDFA, il mondo delle pubblicità in-app (mobile gaming compreso) era una pacchia per gli inserzionisti che, come accade tutt’ora sul Web, raccolgono dati sugli utenti a tutto spiano, magari pure in maniera surrettizia, arrivando a profilare i giocatori.
Che la raccolta dati fosse effettuata dallo stesso proprietario dell’app (first party) o da un’azienda esterna accordatasi con esso (third party), nulla frenava le compagnie dallo scandagliare tutte le attività dell’utente per tracciarne abitudini di comportamento, propensione all’acquisto e generalità anagrafiche per poi rivendere i dati al miglior offerente e/o “offrire” pubblicità su misura del singolo utente.
L’orgia è durata fino a che, con la pachidermica lentezza che li contraddistingue, enti regolatori, organi di controllo e istituzioni europee hanno iniziato ad esaminare la questione e a legiferare in merito, nel tentativo di arginare questo straripante flusso di informazioni più o meno sgraffignate.
E gli enti hanno agito, va detto, in modo deciso, implementando normative stringenti a tutela della privacy degli internauti.
Certo, da quando è entrato in vigore il GDPR del 2016 questo ha causato anche qualche scompenso, in primis la proliferazione di disclaimer sull’uso dei dati e presenza di cookies, che per l’utente finale rappresentano spesso una fastidiosa seccatura ancor prima che una garanzia di sicurezza; ma chi ha avuto più da lamentarsi (e da perdere) sono stati senz’altro gli inserzionisti e le aziende big tech che hanno fatto della raccolta e vendita dati uno dei loro principali business.
Vediamo quali sono le problematiche principali per queste aziende e che conseguenze stiano provocando nell’ambito del mobile gaming.
Per poter capire fino in fondo la portata di questo terremoto è necessario provare a identificare le cause immediate.
Ne possiamo distinguere almeno 3.
L’anno appena trascorso ha segnato un apice nell’ambito dei ricavi del mobile gaming. Nel 2021 l’industria del videogioco portatile ha fruttato ben 90,7 miliardi di dollari: per dare un ordine di grandezza, equivale a poco più del PIL della Bulgaria (che è stimato in 89,5 dal Fondo Monetario Internazionale). Di tutta questa ricchezza, ben il 45% riguarda transazioni effettuate su Apple Store. Trovate maggiori informazioni sui numeri del mobile gaming 2021 in questo approfondimento dedicato. Per Apple e per chi sviluppa applicazioni per il suo store, la pubblicità in-app rappresenta un affare letteralmente miliardario.
E tuttavia la batosta delle regolamentazioni è arrivata anche per l’azienda di Cupertino, che a partire da iOS 14 ha iniziato a dismettere l’IDFA automatico nelle app vendute nel suo Store. Ho spiegato approfonditamente la questione in passato, potete recuperare maggiori informazioni qui. Per i più pigri, ecco un bigino: in sostanza le applicazioni scaricate da Apple Store non possono più analizzare, archiviare e vendere i vostri dati senza il vostro consenso. Quando aprite una app per la prima volta, se essa prevede dei sistemi di tracciamento al suo interno, è obbligata a comunicarvelo in qualche modo, chiedendovi il consenso alla profilazione. Inutile dire che, da quando questa richiesta è stata resa esplicita, il numero di permessi ha iniziato a diminuire e il portafogli degli inserzionisti a sgonfiarsi.
Ovviamente il mancato consenso alla profilazione non comporta l’assenza di pubblicità in-app, semplicemente rende impossibile per gli inserzionisti capire di che tipo di utente si tratti: di conseguenza noi continueremo a visualizzare pubblicità, che però sarà generica e non più mirata. Se questo sia un bene o un male, sta a noi utenti deciderlo.
Questo secondo problema non riguarda solamente il settore mobile, ma l’intera pubblicità su Internet che fa capo a Google: il colosso di Mountain View è infatti al lavoro per eliminare completamente i suoi cookies di terze parti dai siti associati al network Google Ads. Avrebbe dovuto farlo entro quest’anno, ma l’operazione si sta rivelando più lenta e complessa del previsto, infatti la compagnia si è presa un altro anno di tempo per venire a capo della cosa, con una dismissione completa prevista per fine 2023. Ma di cosa si tratta esattamente?
Ve la spiego in soldoni, anche perché non sono certo un esperto in materia: quando il proprietario di un sito si affilia a Google Ads, acconsente all’inserimento di annunci pubblicitari sul proprio sito. Non solo: permette a Google di raccogliere informazioni sugli utenti che navigano in quel sito, tramite l’utilizzo di cookies.
Ecco perché questi cookies sono definiti di terze parti: c’è un sito internet di proprietà X, un utente Y che lo naviga e un soggetto Z (Google) che raccoglie informazioni su Y mentre naviga su X, e che vende tali informazioni agli inserzionisti che le useranno per proporre pubblicità sul sito X tarata sui comportamenti e le preferenze di acquisto di Y.
Questo sistema permette, ad esempio, di conoscere la cronologia di navigazione dell’utente, informazione utilissima per sondarne interessi, hobby e abitudini dell’utente, ma ovviamente anche lesiva della privacy dello stesso. Per questo motivo molti browser inibiscono a priori l’installazione di cookie di terze parti: è il caso, ad esempio, di Safari e Firefox. Google Chrome invece li consente eccome, ed è proprio questo aspetto che deve essere corretto dalla compagnia di Redmond. Come specificato, questa abolizione riguarda solo i cookies di terze parti, quindi non quelli relativi ai siti di proprietà di Google stessa: dunque usare Chrome per la ricerca web tramite Google, o per bazzicare su YouTube, o ancora per utilizzare gli applicativi di Drive o Gmail, continuerà ad esporre l’utente all’installazione di cookies.
Pur con queste chiarificazioni, è evidente che l’eliminazione dei cookies di terze parti comporterà un enorme problema per il network di Google Ads, con probabili perdite di ricavi colossali fin tanto che non sarà imbastita una soluzione alternativa che riesca a raccogliere dati utili agli inserzionisti senza ledere la privacy del singolo individuo. Tenete conto che oltre il 60% degli internauti utilizza Google Chrome come browser! (fonte)
Ovviamente sono al vaglio diverse soluzioni, una delle più chiacchierate è la Federated Learning of Cohorts (FLoC), di cui Google ha iniziato la fase di testing, che consiste nel raggruppare le informazioni relative ad utenti accomunati da comportamenti simili e venderli agli inserzionisti sotto forma di pacchetti, denominati coorti, che impediscano la profilazione del singolo internauta: una sorta di “scatola chiusa” di utenti potenzialmente interessati ad una categoria di prodotti, cui l’inserzionista possa mostrare la propria pubblicità senza sapere esattamente di che utenti si tratti.
Questa tecnologia, come detto, è tutt’ora in corso di sviluppo quindi è inutile addentrarsi in meandri troppo tecnici: non c’è nemmeno la garanzia che sarà la soluzione definitiva verso cui Google deciderà di propendere, né c’è modo di sapere quanto questa opzione potrà eventualmente piacere agli inserzionisti.
Sono anni ormai che tiene banco la diatriba legale tra Apple e Epic: sulle pagine di Player abbiamo iniziato a parlarne qui, per poi proseguire qui e pure qui. Oh aspettate, anche qui!
Nell’ultimo aggiornamento vi ho dato conto della vittoria totale di Apple tranne che su un fronte, quello dell’anti-steering. In pratica il giudice ha stabilito che Apple non può impedire ad uno sviluppatore, all’interno della propria app, di promuovere l’acquisto di propri contenuti tramite metodi esterni all’Apple Store, cosa che invece era sempre stata osteggiata dalla mela morsicata. Questa è sembrata una grande vittoria per gli sviluppatori, non più costretti a vendere contenuti aggiuntivi solamente in-app, cosa che comporta sempre la cessione di una quota dei proventi ad Apple.
Ma è stata una gioia di breve durata: non tanto perché Apple ha fatto ricorso – questo se lo aspettavano tutti – ma perché il tribunale d’appello ha accolto provvisoriamente la richiesta di Apple di esaminare nuovamente il caso, il che implica che l’anti-steering potrà rimanere in essere finché non ci sarà un pronunciamento definitivo (tra mesi? Anni? Secoli? Se ci sono esperti di tempi della giustizia americana, fatemi sapere grazie).
Insomma un provvedimento che poteva essere una boccata d’ossigeno per gli sviluppatori è stato congelato fino a data da destinarsi, con grande sollievo momentaneo di Tim Cook e dei suoi investitori.
Tra l’altro Apple non deve vedersela solo con Epic, bensì anche con l’autorità garante per la concorrenza nel Regno Unito: è notizia recente che la CMA (Competition and Markets Authority) ha intrapreso un’indagine conoscitiva nei confronti di Apple e Google, circa la loro posizione dominante nel mercato delle mobile apps. Soffermandoci in particolare sui videogiochi, uno degli aspetti più controversi delle politiche di Apple è quello di vietare sul proprio store applicazioni che consentano il cloud gaming. Ufficialmente Apple difende la propria scelta adducendo motivi di sicurezza e tutela della privacy degli utenti, ma secondo la CMA i motivi sono ben altri, puramente economici:
Le app di gioco sono una fonte di guadagno fondamentale per Apple e il cloud gaming potrebbe rappresentare una vera e propria minaccia alla posizione dominante di Apple nella distribuzione delle app stesse.
dichiarazione della CMA riportata da Jeffrey Russeau per Gameindustry – 14 giugno 2022
Come rispondere a questa ondata di incertezza? Capire i gusti del pubblico è sempre più difficile, di conseguenza anche i produttori di giochi mobile devono muoversi con sempre maggiore cautela, perché nella fog of war dell’App-ocalypse ogni passo può far cadere in fallo: non è più così semplice pronosticare il successo di questo o quel titolo.
In passato ho risposto parzialmente a questa domanda individuando la più recente tendenza del mercato mobile alla produzione di giochi su licenza.
In un’epoca di incertezza si batte il sentiero sicuro, quello dei franchise di successo. Ecco quindi spiegata la proliferazione sempre maggiore di titoli mobile appartenenti a franchise transmediali, da LoL a Fortnite, da Marvel a Star Wars, da Disney a Westward Journey (il Viaggio in Occidente, classico della letteratura cinese, che funge da base narrativo-culturale per un sterminata galassia di videogiochi mobile asiatici).
La seconda reazione, anch’essa piuttosto evidente, è quella di un aumento delle attività di M&A, tradotto: acquisizioni. Per gli studi più piccoli, con limitate risorse finanziarie, l’incertezza dei metodi di monetizzazione e spazi di pubblicità è particolarmente insostenibile. Molto meglio farsi assorbire da una grande compagnia già affermata, in grado di reggere agli urti di un mercato così incerto.
Ecco perché negli ultimi anni ci sono state tantissime acquisizioni di studi medio-piccoli da parte di grandi holdings.
Il più clamoroso, in verità, riguarda un’azienda tutt’altro che piccola: parliamo infatti di Zynga, che è stata fagocitata da Take-Two per la modica cifra di 12,7 miliardi di dollari. Ce ne sono state altre di notevoli: ad aprile 2021 EA ha comprato Glu mobile (quelli di Deer Hunter e di vari CoD mobile) per 2,1 miliardi; il publisher coreano Netmarble ha acquisito spinX Games (società di Hong Kong specializzata in virtual casino) per 2,2 miliardi; per non parlare delle acquisizioni di DECA e Crazy Labs (entrambi specializzati in GaaS e hypercasual games) da parte di Embracer Group tra il 2020 e il 2021.
Operazioni di questo tipo paiono destinate ad aumentare di numero e frequenza fintanto che la situazione non cambierà.
La terza reazione, quella più preoccupante, è semplicemente panico generalizzato: secondo un sondaggio realizzato da Bango, che ha intervistato oltre 300 sviluppatori mobile americani e inglesi, circa un terzo teme che la propria compagnia sarà costretta a chiudere i battenti a causa delle incertezze circa la possibilità di pubblicizzare e monetizzare i propri contenuti.
Nel concreto, i risultati del sondaggio sono allarmanti:
Il 27% di loro prevede la chiusura della propria attività, citando tra le ragioni principali i cambiamenti IDFA di Apple, la decisione di Google di rimuovere i cookie di terze parti e le normative governative. Secondo l’indagine, il 62% degli sviluppatori di app “non ha idea” di come acquisire nuovi utenti paganti sulla scia delle nuove normative sulla privacy. Tuttavia, il 64% riconosce che la privacy degli utenti deve essere la priorità assoluta per le loro aziende.
Le applicazioni per l’istruzione, l’intrattenimento, la produttività, la finanza, i giochi e lo stile di vita sono state le più colpite dalla cosiddetta “App-ocalypse”.
Da Game World Observer – 16 giugno 2022
In sostanza gli sviluppatori hanno il terrore di perdere il contatto con il proprio pubblico, di non saperlo più riconoscere e non poter più capire a chi stiano vendendo. Se, quindi, da una parte ci si concentra su investimenti ritenuti sicuri (gli IP-based games citati prima), d’altro canto la propensione al rischio nei prossimi anni sembra destinata a calare precipitosamente, e con esso la voglia di sperimentare.
Insomma, il destino del mobile gaming ha in serbo per noi solo una moltitudine di gacha brandizzati da marchi famosi, e/o hypercasual fotocopiati senza un minimo di inventiva?
Almeno per il momento, questo sembra essere il triste destino che ci aspetta.
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This post was published on 24 Ottobre 2022 12:30
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