Cos’è la difficoltà? In che modo influenza una nostra sessione di gioco? E ancora, cosa significa accessibile?
Sono domande che spesso ci poniamo quando ci approcciamo a un videogioco dotato di un’anima differente, in grado di proporre il proprio stile. Quest’anima, infatti, può prendersi il rischio di allontanare i giocatori meno avvezzi con una difficoltà “diversa” dalla media.
Di esempi in commercio ce ne sono tanti: Elden Ring (a tal proposito, qui la recensione del nostro Claudio), Salt & Sanctuary, Sekiro: Shadows Die Twice e molti altri. Eppure, come è noto, la tana del Bianconiglio nasconde videogiochi e ne incensa altri.
Il caso di Sifu di Sloclap rientra all’interno di questo discorso in maniera prepotente (ma anche azzeccata). Pubblicato il 6 Febbraio scorso, quasi tre settimane prima di Elden Ring e dodici giorni prima di Horizon Forbidden West (ecco la recensione del nostro Michele), Sifu è la seconda opera di SloClap. La precedente opera della software house, Absolver, rappresenta lo scheletro del combat system ed è uno dei motivi per cui, dallo state of play del 25 Febbraio del 2021, Sifu è stato sulla bocca di molti.
Facciamo un passo indietro: Sifu è un videogioco sul kung-fu, un videogame action ibridato con il mondo dei picchiaduro ma non solo.
Sifu è una produzione con un’anima ben definita e precisa, con lo scopo di offrire qualcosa di memorabile. A distanza di due mesi dalla sua pubblicazione è questa la domanda che ci poniamo: in Sifu come ha influito la difficoltà?
E ancora, in che modo un giocatore ne apprende i tecnicismi e la profondità?
Sekiro: Shadows Die Twice ci ha abituato al concetto di fallimento e la stessa sensazione a dominare le partite di Sifu. Il videogioco di FromSoftware, pubblicato nel 2019, richiedeva al giocatore la soddisfazione di un requisito: l’apprendimento e la comprensione del suo sistema di combattimento.
Il fallimento, quindi, era la norma specie nelle prime ore di gioco. In Sifu le intenzioni degli sviluppatori sono risultate essere molto simili: l’apprendimento delle mosse, la conoscenza dei tempismi e la familiarità con i pattern dei nemici sono caratteristiche fondamentali per poter proseguire con l’avventura. Il game design della proposta ludica è quindi simile nelle intenzioni a quella del capolavoro di FromSoftware. È nel come il gioco si propone che si trovano le differenze fondamentali.
Sifu è un rogue-lite e, già da qui, si trovano le grandi differenze in termini di struttura e natura rispetto all’opera di Miyazaki. Questo suo animo si può riscontrare già da come il protagonista di Sifu interagisce con l’avanzamento nel gioco. Il protagonista dell’avventura invecchia dopo ogni nostra morte perdendo progressivamente concentrazione, lucidità e vedendosi la barra della vitalità diminuire progressivamente pian piano che viene raggiunta la veneranda età dei settant’anni.
Per impedire ciò al giocatore viene richiesta un unica cosa: non morire; per questo motivo apprendere le mosse e migliorare le proprie abilità, andando quindi a raffinare le proprie prestazioni sul campo, è il modo migliore per poter impedire il processo d’invecchiamento.
Detta così sembra facile, ovvio, ma non lo è per niente: i combattimenti sono tra i più intricati e complessi della storia del medium.
Se in Sekiro: Shadows Die Twice parare, deflettere e contrattaccare è alla base del sistema di combattimento, cercando di portare il giocatore alla rottura della postura avversaria, in Sifu bisogna spezzare la guardia del proprio avversario scatenando una serie di combo, aiutandosi con l’ambiente circostante e gli strumenti casuali che si trovano sul terreno. A questo va aggiunta la possibilità di difendersi dalle mazzate degli avversari in base al posizionamento del protagonista. Siamo d’accordo, sì, col dire che il sistema di combattimento sia fluido e, al contempo, punitivo?
In questo caso Sloclap, come FromSoftware, ha scelto un approccio alla difficoltà differente basandosi sulle proprie idee. La software house è stata chiara sin dall’annuncio del gioco: confezionare un’opera che mantenesse una difficoltà impegnativa, incastrandola con una storia, un concept interessante e, soprattutto, catturando tutte le nozioni essenziali del kung-fu direttamente dalla cultura cinese. Ma a parte questo, mesi dopo la sua uscita, Sifu ha tutte le potenzialità per diventare il classico videogioco che rimane inconcluso nelle librerie di molti giocatori, un po’ come per Elden Ring dove ci sono statistiche a suggerire come non sono moltissimi a superare il secondo boss, complice anche la complessità del titolo. Qualcosa che potremmo anche capire se non fosse che il rapporto tra Sifu e la sua difficoltà è forse la caratteristica che maggiormente caratterizza l’animo del gioco, arrivando così allo scopo comunicativo che gli sviluppatori si sono prefissati.
Prendiamo un’altra opera, andando per una volta a pescare un titolo un po’ meno giocato e dotato di una difficoltà ancora più ripida e aggressiva rispetto a Sifu. Ghostrunner è un titolo indipendente che ha stupito tutti proponendo un’avventura ed un gameplay in grado di strizzare l’occhio ai videogiochi run and gun degli anni ottanta, aggiungendo al tutto una veste tridimensionale e sezioni platform ad alto grado di difficoltà; anche questo è un caso di videogioco in cui la difficoltà è strumento espressivo. Sempre parlando di difficoltà, invece, come fare per non citare Darkest Dungeon? Quello si che è un titolo complesso.
L’accessibilità, tuttavia, è un altro termine che molto spesso viene utilizzato durante l’uscita di un gioco dall’identità così marcata. Questo termine non funge da sinonimo per la parola difficile, chiariamoci, ma sta ad indicare l’accesso all’esperienza per persone diversamente abili (e non solo). Ovviamente questo discorso riguarda anche Sifu, che ora ha un’accessibilità complessiva che permette al giocatore di ingrandire i sottotitoli e di migliorare il contrasto sulle piattaforme PlayStation (caratteristiche presenti in videogiochi come God of War o The Last of Us).
Quando alle volte parliamo dell’inserimento di un selettore di difficoltà, ad esempio, dobbiamo ricordare che potrebbe essere utile per permettere a tante persone di godersi una bella storia senza, per forza di cose, morire in continuazione. Chiaramente la presenza di un selettore del genere va contro ciò che gli autori di Sifu hanno voluto comunicare con il game design del gioco. Sifu è complesso ed è un videogioco che va appreso ad un certo grado di profondità per poter essere completato; affrontare Sifu significa avere la certezza che le cose si sbaglieranno prima di apprenderle.
Morire è quindi normale e non può che essere altrimenti! Nei videogiochi di questo genere la morte è parte integrante dell’esperienza di gioco e serve come strumento agli sviluppatori che vogliono gestire un particolare tipo di racconto o narrazione.
I videogiochi, come i film e i libri, raccontano la morte facendola conoscere in prima persona ai chi fruisce delle opere. Molto spesso la morte virtuale è un passo obbligato e permette all’utente di rinascere dalle proprie stesse ceneri con un bagaglio cognitivo superiore, da applicare stavolta contro un nemico o contro un’area difficile che è risultata, in precedenza, impossibile da superare.
Nei videogiochi la morte, se la colleghiamo alla difficoltà, diventa materia fondante delle basi per la struttura narrativa e ludica.
La difficoltà, prendendo il gioco di Sloclap come esempio, è parte integrante del racconto ed è necessaria per far conoscere al meglio l’impianto comunicativo messo in piedi dal team di sviluppo. Anche in Sekiro la morte viene usata per discorsi di lore, così che anche questo accade andando a pensare al recente Elden Ring. Quando consideriamo un videogioco “complesso” o poco “accessibile” non possiamo non pensare al viaggio fatto in termini di scontri con boss e miniboss all’interno dei titoli; se in Sifu i nemici letali non mancano, in Elden Ring solo di boss ne troviamo ben 165; abbastanza per lastricare tutto il percorso di schermate di game over.
Diventa quindi naturale riflettere anche sui mob e i nemici meno impegnativi. Essi sono dotati di una loro anima e di un loro scopo all’interno di questo compost alchemico, andando quindi a comporre le sfaccettature che servono al game design e alla storia per brillare. Se siamo passati dall’incubo di Ishiin Ashina a quello di Malenia, è grazie al chiacchiericcio sui social e alla condivisione degli utenti per merito della narrazione emergente, cioè delle reazioni non scriptate generate dal giocatore, il quale passa le sue conoscenze ad altri giocatori. Scontri o momenti del genere all’interno di videogiochi come Elden Ring o Sekiro, non scomodando sempre Sifu, è quello che porta opere del genere a essere giocate, amate e raccontate ovunque, facendole diventare delle esperienze reali da tramandare ai posteri.
Il fenomeno della difficoltà è collegabile anche ai nemici che vengono scritti e disegnati in questo modo perché ampliano il discorso sulla narrazione che, rispetto a qualche anno fa, ora ha evoluto la sua modalità d’approccio attraverso dei gameplay più stratificati e scritti con maturità. Ci domandiamo anche, quando facciamo discorsi così complessi, in che modo l’accessibilità riesca a convogliare tutto questo in una singola opera, facilitando l’approccio alle persone diversamente abili. Riguarda le caratteristiche dell’accessibilità, cioè una serie di pratiche per permettere a tutti i giocatori di accedere al mezzo comunicativo – in questo caso il videogioco – attraverso delle caratteristiche presenti nel menù delle opzioni.
In The Last of Us Parte II di Naughty Dog, per esempio, è presente un sintetizzatore vocale che agevola le persone con problemi di vista o di dislessia, permettendo loro di vivere una delle esperienze più importanti degli ultimi cinque anni. Alle volte è persino accaduto che, per andare incontro ai giocatori, si siano cercati modi più leggeri e fluidi per proporsi al grande pubblico. In Elden Ring, ad esempio, l’aggiunta di nomi e posizioni degli NPC per la mappa di gioco rappresenta un buon esempio di avvicinamento del titolo alla massa; questo scopo nobile, tuttavia, potrebbe non essere di gradimento a chi apprezza un gioco per scelta più grezzo come Sifu.
Rispetto a qualche anno fa, ora che abbiamo prodotti più complessi e articolati, dobbiamo ammettere che probabilmente la difficoltà è un compromesso che dovremmo accettare quando non è presente un selettore di difficoltà. Ovviamente è impensabile pensare a videogiochi come Sekiro: Shadows Die Twice con una modalità facile o un Elden Ring con un diario dove sono elencate tutte le sue quest.
Se nel primo caso c’è una linearità, nonostante le diramazioni al suo interno, la complessità del mondo di Elden Ring (e il suo far di tutto per far letteralmente perdere il giocatore al suo interno) rende la presenza del diario un qualcosa di snaturante. Quest’ultimo è un perfetto esempio di soluzione difficile da adattare senza far perdere potenziale alle scelte degli sviluppatori.
Negli ultimi due mesi abbiamo vissuto esperienze diversificate tra loro e alcune di esse hanno plasmato quello che sarà il futuro dei videogiochi, con tutte le sue nuove contaminazioni. Se ci pensiamo l’annata videoludica di quest’anno è iniziata col botto, ed è cominciata proprio con un videogioco che si è ritagliato uno spazio importante sin dalle prime giornate, facendo molto parlare di sé e alimentando molte discussioni.
L’avventura del protagonista è stata incredibile e sfaccettata e ci ha permesso di approfondire meglio cosa sia il significato del senso di difficoltà di un videogioco, come queste due anime si incontrino e facciano parlare di sé e discutere, nonché approfondire questioni che adesso permettono di avere una visione più ampia del futuro che abbiamo davanti.
Immaginiamo il futuro del gaming cercandolo con una lente d’ingrandimento mentre ci preoccupiamo, al contempo, di cosa ci manchi. Il futuro della difficoltà cambia in relazione alle decisioni degli sviluppatori, e su questo possiamo discutere ricollegandoci alle caratteristiche del perfetto game design come abbiamo fatto nel nostro articolo. L’accessibilità, al contrario, riguarda le opzioni per consentire alle persone con disabilità (e non solo) di godersi un’esperienza in modo naturale e con un approccio pensato a tutti i giocatori. A ogni singolo giocatore.
This post was published on 18 Maggio 2022 18:00
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