Ho passato interi pomeriggi della mia adolescenza in compagnia di Dynasty Warriors 3 Extreme Legends.
Ci giocavo con un mio compagno di scuola che ne era il legittimo proprietario, anche se il disco rimaneva in pianta stabile nella console di casa mia. Impiegammo più di un anno per completare la campagna alla massima difficoltà con tutti i personaggi, sbloccando tutte le armi finali, impazzendo dietro a guide non troppo precise che suggerivano metodi fantasiosi per ottenerle.
La serie, in Occidente più famigerata che famosa a causa della sua ripetitività e ritrosia ad innovarsi, per molti è sinonimo di game design sciatto e privo di qualità. Eppure si tratta di una IP celebre, tra quelle di maggior successo di Koei Tecmo, holding che racchiude due nomi storici del game development nipponico, appunto Koei e Tecmo.
La compagnia è detentrice di IP che hanno fatto la storia dei generi strategico, RPG e action, ma nonostante i decenni di onorata carriera e la più volte dichiarata volontà, da parte del suo presidente Yoichi Erikawa, di diventare l’azienda numero uno dell’intrattenimento digitale mondiale, ha faticato a fare breccia al di fuori dei confini nazionali.
Nell’ultimo decennio però, forti della fusione, i due marchi hanno prepotentemente aggredito il mercato asiatico, riscuotendo ottimi successi in paesi come la Corea e soprattutto la Cina, segmento sempre più fondamentale per l’intero mercato del gaming, ed ottenendo riscontri di pubblico e critica più favorevoli anche in USA e America, grazie ad exploit come Nioh e Hyrule Warriors. Riavvolgiamo dunque il nastro del tempo alla scoperta di quest’azienda, per scoprire fin dove può condurre una smisurata ambizione.
È il 1978 quando i coniugi Erikawa fondano Koei, compagnia informatica incentrata sullo sviluppo di software per la produttività aziendale. Solo dopo qualche anno decidono di lanciarsi nel mercato dei videogiochi. Koei si concentra su due diversi filoni: lo strategico da una parte e il dating sim dall’altra. Questi due filoni rispecchiano gli interessi dei due coniugi: Yoichi Erikawa, grande appassionato di storia e amante degli strategici, è la mente dietro a due dei franchise di maggior successo dell’azienda; Keiko Erikawa, dal canto suo, fin da inizio carriera ha l’intuizione di programmare titoli che possano attrarre il pubblico femminile, inaugurando di fatto il genere dating sim. Ma andiamo con ordine: partiamo dal porno.
Il primo exploit nel mondo del gaming da parte di Koei avviene infatti in ambito erotico, con titoli che inaugurano il genere eroge (avventure grafiche/visual novel con immagini sessuali esplicite): parliamo di titoli PC come Night Life (1982) e la “Strawberry Porno Series”, nomenclatura sotto la quale ricadono due simulazioni per adulti prodotte sempre negli edonistici anni ’80: Seduction of the Condominium Wife (1983) e Do Dutchwives Dream of Electric Eel? (1984).
Tra questi titoli il più famoso è certamente …Condominium Wife, al quale è riconosciuta un’importanza seminale anche in ambito della successiva fioritura del JRPG: se è vero, infatti, che il videogioco di ruolo nasce in occidente prima di diffondersi anche nella terra del Sol Levante, è pur vero che elementi proto-RPG si riscontrano in giochi giapponesi dei primi anni ’80, tra cui proprio Seduction of the Condominium Wife, che fu un grande successo per la compagnia.
Come funziona?
Impersoniamo un venditore porta a porta di preservativi, impegnato in una intensa giornata lavorativa: il nostro compito è concupire le casalinghe di un complesso residenziale nel corso delle nostre visite, per concludere qualche affare e soprattutto… inzuppare qualche biscotto. Ci si muove negli ambienti condominiali tramite schermate vettoriali con visuale in prima persona; abbiamo a disposizione una serie di comandi fissi, in puro stile avventure grafiche, tra cui Open, Knock, Sell e… Fuck.
in caso di seduzione riuscita, saremo ricompensati da un’immagine esplicita (pur se parzialmente censurata), ma le cose non sono poi così semplici: il nostro impiegato infatti dispone di un set di statistiche i cui valori sono generati all’inizio di ogni partita, e che dovremo sempre tenere d’occhio per evitare il game over. La stamina, ad esempio, si consuma man mano che gironzoliamo per l’edificio, e la partita finisce se tale valore scende a zero. Inoltre non tutte le signore saranno ben disposte nei nostri confronti, perciò dovremo indovinare il giusto ordine di azioni da compiere per riuscire nell’impresa di insidiarne il maggior numero possibile. Ci sono poi incontri casuali con gangster ostili che causano perdita di vitalità, la quale può essere ripristinata ai distributori automatici (qui un video di gameplay, soggetto a limiti di età). Insomma il titolo ha delle meccaniche da simil- dungeon crawler, che ritroveremo di lì a pochi anni implementate nei primi JRPG. Chi si aspettava che gli “osceni” giochi sviluppati da Koei avrebbero gettato le fondamenta di ben due generi videoludici!
Il filone eroge non rappresenta però la prima incursione videoludica di Yoichi Erikawa: nel 1981 aveva già dato alle stampe, più per hobby che per autentico spirito imprenditoriale, un titolo strategico da lui stesso interamente programmato, per mettere a frutto un computer Sharp MZ-80C che gli era appena stato regalato (fonte).
Kawakanajima no Kassen si ispira ad un fatto storico del medioevo giapponese, le battaglie di Kawakanajima combattute tra il 1553 e il 1564 tra i clan Takeda e Uesugi. Erikawa immagina un sistema grazie a cui il giocatore possa governare un’intera armata, spostarla su un ampio campo di battaglia alla ricerca dell’esercito avversario – di cui non si conosce la posizione iniziale – e ingaggiare battaglia una volta individuato. L’esito dello scontro dipende dal tipo e dalla quantità di forze messe in campo (alcune unità sono deboli contro certi avversari e forti contro altri).
Come detto il titolo è stato sviluppato da Erikawa come passatempo, e pure la messa in vendita avviene senza particolari aspettative di guadagno (è fissato il prezzo modesto di 3.500 yen, circa 35 euro al cambio attuale, tenendo conto dell’inflazione).
La sera, dopo il lavoro, mi divertivo a programmare e giocare videogiochi… A un certo punto mi domandai se altre persone sarebbero state inclini all’idea di provare un gioco a tema storico. Scommisi che ci sarebbe stato senz’altro qualcuno interessato a provare un’esperienza simile. Come prova, comprai lo spazio pubblicitario di mezza pagina su Mycom, una rivista di informatica del periodo. Fu un vero successo! Ricevetti feedback di utenti entusiasti, che ci avevano passato tutta la notte davanti, che mi dicevano quanto fosse il gioco perfetto per loro.
Yoichi Erikawa intervistato da Cutscenes – 29 settembre 2021
La grande risposta del pubblico spinge Erikawa ad insistere nello sviluppo di videogiochi, evolvendo ulteriormente la formula strategica per realizzare una simulazione fantastorica dalla profondità meccanica fino ad allora inedita. Il risultato dello sforzo si concretizza nel 1983, quanto Koei dà alle stampe Nobunaga’s Ambition. Ambientato nel periodo Sengoku, il medioevo giapponese noto come “periodo degli Stati belligeranti”, il gioco prende le mosse dalla figura dello shogun Oda Nobunaga, uno dei più noti signori della guerra del periodo, che come molti altri daimyō ambiva ad unificare il Giappone sotto il suo comando militare. Il titolo è sorprendentemente profondo per l’epoca: scelto il proprio comandante, i cui attributi di salute, intelligenza, fortuna e così via sono generati randomicamente a inizio partita, dobbiamo poi selezionare la nostra regione di partenza. La “scacchiera” consiste in una rappresentazione stilizzata delle regioni giapponesi Chubu e Nikai, suddivise in 17 settori.
Da qui in poi è tutto nelle nostre mani: per conquistare il Giappone dovremo ricorrere a varie risorse, da quelle puramente militari (con scontri a turni contro gli eserciti avversari) a quelle diplomatiche (si può tentare di corrompere generali avversari per spingerli a disertare, inviare ninja in campo nemico per spiare le statistiche dei daimyō e così via) ed economiche (tassare i propri territori per avere più disponibilità monetaria, aumentando però il rischio di malumori nelle nostre fila).
Per riflettere questa poliedricità di approcci, l’interfaccia di gioco cambia a seconda dell’attività intrapresa: bisognerà passare alternativamente dalla plancia strategica a quella di battaglia, in quello che è uno dei primi esempi di plance multiple all’interno di uno stesso videogioco. Il giocatore inoltre non ha a disposizione un numero infinito di turni: i comandanti invecchiano ad ogni turno (corrispondente ad un anno), aumentando via via il rischio di morte naturale del proprio personaggio.
Il gioco è un successo immediato: convertito in un’infinità di port (la sua programmazione in BASIC lo rende facilmente adattabile a vari sistemi), dà presto origine ad un seguito distribuito oltre i confini nazionali, inaugurando un franchise che si rinnova ancora oggi con titoli rilasciati puntualmente ogni pochi anni, oltre che innumerevoli riedizioni dei capitoli più vecchi, rimasterizzati o rifatti in toto per moderni PC e console. La commistione di elementi gestionali e di combattimento a turni è forse la maggior intuizione di Erikawa, tanto che tale mix costituisce ormai un immancabile pilastro di game design per qualsiasi esponente del genere. Insomma non è difficile scorgere nelle innovazioni apportate da Nobunaga’s Ambition i prodromi del genere grand strategy, di cui il recentissimo Total War: Warhammer III (qui la nostra recensione) rappresenta un perfetto esempio contemporaneo.
Questo è il primo gioco per il quale Erikawa conia un’identità fittizia a cui accreditare la produzione: Kou Shibusawa. Non ci sono fonti certe sull’origine del nome, ma le teorie prevalenti vogliono “Kou” come semplice storpiatura di “Koei” (il quale nome è, a sua volta, una storpiatura di Keio, l’università frequentata da Erikawa), e “Shibusawa” un omaggio alla figura imprenditoriale di Eiichi Shibusawa, uno degli imprenditori che contribuì alla modernizzazione del Giappone durante l’era Meiji, particolarmente ammirato da Erikawa.
Quale che sia l’origine del nome, “Kou Shibusawa” è diventato un brand, un marchio celebre con cui accompagnare i titoli di maggior successo della compagnia, specie nel genere strategico, tanto che oggigiorno è il nome della divisione interna a Koei Tecmo specializzata nello sviluppo di questi titoli (torneremo più avanti sull’assetto odierno della compagnia).
Il successo di Nobunaga’s Ambition stimola ancor più Yoichi Erikawa/Kou Shibusawa a perfezionare la formula di gioco con un nuovo titolo strategico, anch’esso capostipite di una serie longeva che continua a vedere la pubblicazione di nuovi capitoli, e che fuori dal Giappone è ancora più nota della precedente: si tratta di Romance of the Three Kingdoms, pubblicato su PC nel 1985. Per la prima volta il setting narrativo prescelto non appartiene alla storia giapponese: siamo infatti in Cina, all’epoca dei Tre Regni (Han, Wei e Wu) che precedette l’unificazione della Cina da parte della dinastia imperiale Jin nel 280.
Si tratta di una rivisitazione dell’impianto di Nobunaga’s Ambition, arricchito da una componente fantastorica più marcata: prendendo spunto dal corpus letterario che rilegge in chiave epica gli avvenimenti del periodo storico dei Tre Regni, il giocatore impersona a scelta uno degli 8 generali disponibili, appartenenti alle 3 dinastie belligeranti, ognuno provvisto dei soliti parametri con generazione casuale dei valori iniziali. Ci si trova poi nella consueta mappa strategica, una rappresentazione della Cina suddivisa in 58 settori, ciascuno con i propri attributi di popolazione risorse, soldati da arruolare o eserciti nemici da combattere eccetera.
Le opzioni diplomatiche, gestionali e militari si moltiplicano rispetto al titolo del 1983; la componente puramente numerica aumenta, con decine e decine di valori da tenere costantemente sott’occhio: “Il gioco qui ruota principalmente intorno alla gestione delle statistiche numeriche, ognuna delle quali rappresenta un attributo di una città o di un personaggio. Ad esempio, una città avrà statistiche che indicano la quantità di cibo conservato all’interno delle sue mura, la sua vulnerabilità ai disastri come inondazioni e terremoti, quanto sono contenti gli abitanti, e così via” (fonte). Non manca un indice di lealtà da tenere sempre d’occhio per evitare defezioni da parte dei nostri militari, oltre che la consueta limitazione temporale dell’età anagrafica del personaggio, che può ancora morire di vecchiaia.
Può sembrare singolare, a chi conosce Koei Tecmo solo per Dynasty Warriors, scoprire che l’azienda affondi le proprie radici in titoli dove pianificazione e strategia sono il cuore dell’esperienza. Eppure, la sfida intellettuale è proprio l’aspetto che sta maggiormente a cuore a Yoichi Erikawa nel design dei suoi primi, seminali titoli. In questo senso è evidente la derivazione del videogioco strategico dal classico wargame da tavolo:
I videogiochi simulativi traggono la propria origine dai giochi strategici da tavolo, dove applichi differenti strategie e tattiche all’interno di una simulazione. A seconda del livello [di difficoltà del gioco] puoi adottare la tattica che ritieni più efficace; tutti questi elementi erano già presenti all’interno dei board games. Il piacere deriva proprio dall’atto di pensare: ti diverti ad elaborare strategie, ad attuare tattiche. Proprio questa attività intellettuale credo sia uno degli aspetti interessanti della simulazione.
Yoichi Erikawa intervistato da Cutscenes – 29 settembre 2021
Ironico dunque che, in Occidente, l’azienda sia nota soprattutto per i suoi titoli musou, ovvero l’antitesi del pensiero strategico! Del resto abbiamo visto come a Koei piaccia sperimentare lo sviluppo di generi completamente diversi tra loro. A questo proposito non è assolutamente trascurabile l’apporto creativo di Eiko Erikawa, co-fondatrice dell’azienda, cui si deve, tanto per cambiare, la creazione di un ulteriore genere videoludico: l’otome.
Lungi dall’essere un mero slogan, quello qui sopra è l’approccio al game design che Eiko Erikawa decide di adottare fin dall’inizio della sua avventura imprenditoriale. Certo non è facile realizzare questa visione negli anni ’80, quando non solo il target del medium videoludico è prettamente maschile, ma la stessa programmazione è una disciplina in cui le praticanti di sesso femminile vanno cercate col lanternino:
I videogiochi erano una materia che passava unicamente dal filtro di una visione maschile. Fu allora che pensai “Mi piacerebbe concepire dei videogiochi indirizzati ad un pubblico femminile (…) ritenni innanzitutto che dovesse aumentare il numero di impiegate in azienda. Perciò nel periodo in cui lanciammo Nobunaga’s Ambition nel 1983, iniziammo anche a cercare donne da inserire in organico. All’epoca le donne che studiavano programmazione e discipline informatiche erano pochissime, perciò la priorità era semplicemente aumentarle di numero: molte di loro furono inserite nel reparto sceneggiatura. Ci volle un po’ per far abituare le nuove dipendenti all’idea di mettersi al lavoro sullo sviluppo di videogiochi, perché all’epoca era normale che una persona appena assunta non avesse alcuna esperienza in questo ambito. Perciò passò un bel po’ di tempo da quando iniziammo ad assumere dipendenti donne a quando fummo effettivamente in grado di costituire la divisione interna Ruby Party.
Eiko Erikawa intervistata da Karasucorps – 9 aprile 2016
Tra inserimento in azienda e formazione del personale, occorre circa un decennio prima che la visione della Erikawa prenda forma in quella che ancora oggi è la “divisione rosa” di Koei Tecmo: nel 1994 viene pubblicato Angelique, capostipite del genere otome, sviluppato dal team Ruby Party.
In cosa consiste il genere otome? Il termine designa in primis il target di riferimento: si tratta di giochi concepiti appositamente per un pubblico femminile. Ne deriva una filosofia di game design che mette la centro una costante narrativa: vivere avventure romantiche in cui la protagonista si trova al centro di intrecci sentimentali che coinvolgono più uomini, ognuno incarnazione di vari stereotipi ideali maschili, tra i quali alla fine scegliere quello con cui coronare il proprio sogno d’amore. Un canovaccio narrativo che può quindi essere applicato a giochi dalle meccaniche diversificate, che vanno dalla più semplice visual novel al più pragmatico dating sim, dal complesso JRPG alla più tranquilla avventura grafica, e così via.
Nel caso di Angelique, lo spunto è declinato in chiave fiabesca, con una protagonista 17enne trasportata nel magico regno di una Regina che ha in mente di nominarla sua erede. Solo che Angelique – questo il nome della protagonista – dovrà vedersela con un’altra concorrente per stabilire chi tra le due sia la più meritevole di tale onore: la ragazza dovrà dimostrarsi più abile dell’avversaria nell’amministrazione di un continente in miniatura di cui le viene affidato il governo. Emerge quindi ben presto una componente gestionale che configura Angelique come una controparte edulcorata e semplificata rispetto ai giochi prettamente strategici dell’azienda, con l’aggiunta della componente romance legata ai rapporti che legano Angelique ai suoi nove Guardiani, fascinosi aiutanti con i quali la protagonista può instaurare relazioni romantiche.
In effetti, nonostante lo scopo dichiarato del gioco sia ereditare il regno, il giocatore è libero di non perseguire questo obiettivo, decidendo di convolare a nozze con uno degli affascinanti Guardiani. Se invece ci si vuole sottoporre al giudizio della Regina, essa periodicamente valuterà il nostro operato sulla base di un punteggio che varia in base alle nostre azioni di governo: avremo a disposizione 999 turni per edificare i 71 manieri necessari a far sì che la sovrana si decida a proclamarci sua erede. Il tutto infiocchettato di colori pastello e cuoricini, perché “…le donne amano gli stickers colorati, collezionare francobolli e illustrazioni. Credo perciò che creare delle interfacce utente esteticamente gradevoli, ad esempio facendo comparire un cuore quando si raggiunge un certo grado di intimità con un personaggio, e vedere che si ingrandisce man mano che l’intimità aumenta, sia un’accortezza tipicamente femminile” (fonte).
Poichè in ambito videoludico non si era mai visto nulla del genere, le vendite inizialmente non furono stratosferiche. Tuttavia l’entusiasmo del pubblico era straordinario. Fummo tempestati dai mass media al grido di “Finalmente c’è un videogioco per un pubblico femminile!”. Ricevemmo un’infinità di lettere del tipo “È magnifico quello che avete fatto per noi”. (…) Pensai comunque che un singolo videogioco non era abbastanza per esprimere tutto il potenziale del materiale su cui avevamo lavorato. Nello stesso periodo di uscita del gioco facemmo uscire anche un drama CD. Inoltre in quello stesso periodo pensammo che sarebbe stato bello allargarci anche al mercato dei manga e degli eventi a tema.
Keiko Erikawa intervistata da Karasucorps – 9 aprile 2016
Insomma, come se non bastasse l’aver creato un nuovo genere videoludico, Eiko Erikawa vede il successo di Angelique come il primo passo verso la creazione di un ecosistema mediale female-oriented. È così che viene a costituirsi il progetto Neoromance, un brand che racchiude tutte le serie videoludiche realizzate da Ruby Party per il pubblico femminile, giapponese e non, e le opere ad esse corollarie, siano essi radiodrammi, anime, manga o eventi dal vivo. Attualmente tutti i prodotti relativi al brand, compresi gli eventi dedicati alle comunità di fan, sono consultabili su un sito dedicato (in giapponese).
Ci fu chi mi disse “È un mercato troppo piccolo. Se sviluppi videogiochi per donne, non venderanno”. Ma io ero convinta che un mercato esistesse. Sono lieta di essere rimasta salda nella mia convinzione.
Keiko Erikawa citata da Anne Lee su Vice – 1 marzo 2018
A metà anni Novanta, Koei è una realtà largamente riconosciuta ed apprezzata in Giappone, con una gamma di prodotti per tutti i palati. Ma l’ambizione degli Erikawa è tutt’altro che sopita. Lungi dall’accontentarsi di essere leader nella realizzazione di videogiochi strategici e di aver praticamente creato il mercato del gaming femminile, Koei vuole raggiungere un bacino di utenza ancora più ampio, creando una nuova IP action, per far breccia nei cuori dell’utenza mainstream. È tempo di Musou. È tempo di Warriors.
Warriors è forse la più conosciuta in assoluto tra le serie Koei, anche se arriva dopo un quindicennio di attività dell’azienda, con la creazione di Omega Force, divisione interna nata con lo scopo di sviluppare titoli appartenenti a generi più appetibili dal grande pubblico, che con l’avvento di PlayStation a metà anni ’90 si sta spostando in massa su console dove, si sa, gli strategici non vendono milioni di copie. Tanto per cambiare, la neonata divisione è composta da programmatori spesso alle prime armi. Akihiro Suzuki, oggi Excecutive Officer e producer di Omega Force, è uno dei primi ad entrarvi, nel 1996 (era già in Koei dal 1992), quando alla divisione viene semplicemente richiesto di creare un gioco diverso dagli altri franchise dell’azienda: “Programmavo come hobby, ma non avevo mai lavorato allo sviluppo di un gioco vero e proprio” (fonte).
Lo stesso setting fantastorico della serie più redditizia di Koei, Romance of the Three Kingdoms, viene quindi adattato in un altro gioco di diverso genere: il primo Dynasty Warriors, pubblicato nel 1997, è sostanzialmente un picchiaduro, con nulla da spartire con i successivi capitoli, eccetto che per l’utilizzo degli iconici personaggi quali Guan Yu, Cao Cao, Lu Bu eccetera.
Concepito sull’onda del successo dei fighting games negli anni ’90 (Tekken è del 1994, Soul Edge del 1995), Dynasty Warriors è un videogioco di lotte 1-vs-1 in cui i combattenti brandiscono ognuno la propria iconica arma. Il titolo è un buon successo e Omega Force, dopo aver sviluppato altri titoli nel biennio 1998-99 (Enigma, Destrega e WinBack, quest’ultimo noto per aver introdotto la meccanica di fuoco da posizioni di copertura nei TPS), si mette al lavoro su un sequel, che è però qualcosa di completamente diverso: si tratta di un …Three Kingdoms in salsa hack’n’slash. Si tratta del primo gioco di genere musou. Si tratta di Dynasty Warriors 2.
Per ribadire il cambio di genere, al titolo originale Sangokumusou viene anteposto Shin, “nuovo”. Da quel momento la serie sarà ufficialmente ribattezzata Shin Sangokumusou. Sangoku sono appunto i Three Kingdoms, i Tre Regni cinesi che fungono da materiale narrativo di partenza. Musou, invece, è traducibile come “impareggiabile”, e finirà per diventare il termine con cui si definisce questo tipo di giochi, di esclusiva produzione Koei: il musou è un sottogenere dell’hack’n’slash caratterizzato dal fatto di porre il giocatore nei panni di un eroe indomito, sceso su un campo di battaglia popolato da centinaia (quando non migliaia) di avversari, in larga parte più deboli del protagonista, che ci si può divertire a macellare grazie ai poteri sovrumani che l’eroe ha a disposizione.
Se Dynasty Warriors 2 offre al giocatore un roster di quasi 30 eroi tra cui scegliere, le successive iterazioni dell’IP lo espanderanno a dismisura, arrivando a sfiorare i 90 personaggi giocabili nei titoli più recenti. L’aspetto narrativo ed il setting fantastorico concorrono in gran parte al successo della serie in Giappone e in Asia in generale, dove i fatti storici narrati sono meglio conosciuti: il Romanzo dei tre Regni è un classico letterario e le opere da esso derivate sono innumerevoli.
Il background culturale ha un ruolo di primaria importanza, poiché i giocatori asiatici tendono ad amare i personaggi e la trama del gioco, così come il suo gameplay, poiché hanno maggiore familiarità con la componente storica della serie Dynasty Warriors. Per il pubblico occidentale, invece, il setting storico è poco noto, quindi tendono a tenere in maggiore considerazione le meccaniche di gioco e la gestione dei controlli, il che li porta a non ritenere particolarmente importanti trama e personaggi, specialmente se paragonati al pubblico asiatico.
Akihiro Suzuki intervistato da Robert Ramsey per Pushsquare – 26 febbraio 2015
L’intento del gioco è in primis stupire il giocatore per il suo senso di grandiosità: rilasciato tra i titoli di lancio di PlayStation 2 in Nord America ed Europa, Dynasty Warriors 2 è concepito per sfoggiare la potenza di calcolo della console Sony in grado di renderizzare un alto numero di personaggi a schermo contemporaneamente. C’è un chiaro compromesso nel design delle mappe, estremamente basilare e scarno a livello di qualità delle texture e mole poligonale, oltre che interattivamente inerte, ma all’epoca non importa molto: ciò che conta è riuscire a veicolare la sensazione di trovarsi su un campo di battaglia, ad affrontare schiere di eserciti avversari, e cambiare le sorti di un’intera campagna militare con le nostre mani.
Il gioco appare come uno dei più fluidi usciti finora su PS2, con un framerate ancorato stabilmente a 60fps. (…) La build finale ha fatto sparire quasi ogni rallentamento, che avviene assai sporadicamente. Questa è anche una dimostrazione di quanto sia potente l’hardware di PlayStation 2, che riesce a renderizzare in tempo reale dozzine di soldati.
Recensione di Ike Sato per Gamespot – 30 ottobre 2000
Le uniche reminiscenze “strategiche” nelle meccaniche di gameplay sono rappresentate dalla presenza di una minimappa che consente di avere sempre sott’occhio i movimenti delle truppe sul campo di battaglia, utile per darsi un ordine di priorità rispetto a quale guarnigione nemica attaccare; dalla possibilità di conquistare i cancelli avversari, interrompendo il continuo respawn di soldati nemici sulla mappa (che allo stesso modo possono però conquistare i nostri) e dall’indicatore del morale degli schieramenti, che incide sulla probabilità di vittoria o sconfitta dei comandanti quando il giocatore non è nelle loro vicinanze: più ufficiali avversari sconfiggiamo, più il nostro morale si alza, con la conseguenza che le nostre truppe hanno maggiori possibilità di sgominare le guarnigioni avversarie autonomamente. C’è poi un briefing prima di ogni missione, che mostra le condizioni di vittoria (ovvero quale sia il generale nemico da sconfiggere per vincere) ed eventualmente di sconfitta (ad esempio, la morte di un nostro specifico ufficiale).
Premesso tutto questo, al giocatore si chiede principalmente di fare cosa molto semplice: randellare più nemici possibile. Possiamo farlo a cavallo (molto scomodo), con armi a distanza (quasi del tutto inutile) o corpo a corpo, con attacchi leggeri, pesanti o una concatenazione delle due cose, oltre che attacchi speciali particolarmente devastanti che possiamo sferrare una volta riempita a suon di mazzate una barra di carica relativa. Le truppe nemiche sono quasi del tutto inerti, pronte a farsi massacrare dai nostri colpi, e solamente gli ufficiali costituiscono un effettiva sfida per il giocatore. Anche in questo caso però, un minimo di tempismo e l’eventuale ricorso al classico mordi-e-fuggi sono spesso tattiche sufficienti a sgominare gli avversari senza grossi problemi.
Il senso di supremazia sul campo, il gameplay immediato e facilissimo da padroneggiare, la colonna sonora rockettara e il design kitsch dei personaggi che sembrano usciti da una sfilata di moda: Dynasty Warriors 2 ha tutte le carte in regola per riuscire a sfondare sul mercato, e così è.
Nonostante la critica accolga poco entusiasticamente il titolo, le vendite soddisfano Koei tanto da spingerla alla produzione di sequel su sequel. Finalmente Koei ha il suo titolo mainstream, finalmente l’azienda è riuscita a conquistare anche il palato dei giocatori occidentali, finalmente l’ambizione degli Erikawa è stata almeno parzialmente soddisfatta: la compagnia naviga in acque sicure per anni, tanto da sentirsi pronta, nel 2008, a lanciarsi in un’operazione di acquisizione. L’azienda prescelta è Tecmo, con cui Koei concorda una fusione da concretizzarsi l’anno successivo. Il primo aprile 2009 nasce ufficialmente Koei Tecmo Holdings.
L’industria [del gaming] è cresciuta. Il multi-piattaforma e l’importanza dei mercati d’oltremare sta spingendo l’industria verso una competizione globale. In questo ambito le nostre due aziende vantano eccellenti situazioni finanziarie, forza e capacità di trarre vantaggio l’una dall’altra per migliorare la propria redditività e porre le basi per diventare uno dei principali player su scala mondiale.
Comunicato ufficiale di Tecmo circa le trattative per la fusione, riportato da Brian Ashcraft per Kotaku – 9 aprile 2008
A questo punto è il caso di conoscere meglio l’azienda con cui Koei ha deciso di condividere il proprio futuro nell’industria del gaming.
La storia dei primi anni della compagnia è riportata in maniera differente su varie fonti. Mi attengo alla cronologia, forse semplificata ma se non altro chiara, presente sul vecchio sito ufficiale di Tecmo, ancora consultabile a questo indirizzo.
La prima incarnazione di Tecmo è Tehkan, che opera nel business delle attrazioni per parchi di divertimento dal 1969. Nel 1981 Tehkan realizza il suo primo videogioco in forma di cabinato arcade: si tratta di Pleiads, un classico shoot’em up suddiviso a livelli di difficoltà crescente, distribuito anche in America da Century, una compagnia specializzata nell’import di sistemi arcade da aziende giapponesi quali Konami, Taito e SNK durante tutti gli anni ’80.
A fronte di questo primo successo, Tehkan abbandona progressivamente gli altri business per concentrarsi sulla produzione di videogiochi in formato arcade: ne sforna diversi nel corso della prima metà degli anni ’80, tra cui Bomb Jack nel 1984, uno dei più conosciuti. Si tratta di un platform game a schermate fisse, in cui bisogna raccogliere tutte le bombe presenti nello stage, evitando nemici ed altri ostacoli e ricorrendo a salti e planate. I setting sono spesso esotici e ritraggono i luoghi più disparati, da metropoli ultramoderne all’Antico Egitto, senza alcun intento narrativo particolare.
Il titolo in sé non ha nulla di speciale ma vende abbastanza da spingere la compagnia a realizzarne una versione su NES: Mighty Bombjack, che a differenza dell’originale è un platform a scorrimento laterale affrontabile anche in modalità multigiocatore. Si inaugura così una nuova fase per la compagnia, che da metà anni ’80 in poi abbandonerà progressivamente il mercato arcade per gettarsi a capofitto nel mercato delle console domestiche. Inoltre Bomb Jack costituisce la prima IP “di fama” per l’azienda nipponica, che ne fa un franchise realizzando una moltitudine di sequel.
Nel 1985 Tehkan inizia a sviluppare quello che è l’ultimo gioco della compagnia: Tehkan World Cup, una simulazione calcistica. I videogiochi di calcio non erano così comuni a quei tempi, e il titolo tradisce questa natura primigenia nell’inconsueta scelta di adottare una visuale a plongée, ovvero perpendicolare al suolo, un punto di vista alle volte replicato nella storia dei videogiochi come nel caso di Sensible Soccer.
L’arcade è venduto anche in forma di cocktail cabinet (ovvero innestato in un tavolo con superficie plastica trasparente, su cui è possibile adagiare bibite senza rischio): in questo formato al posto del joystick vi è una pionieristica forma di trackball, ed è ovviamente possibile sfidarsi in partite multigiocatore. Tehkan non fa però in tempo a pubblicare Tehkan World Cup sotto il proprio nome, poiché nel 1986 la compagnia opera un rebranding che la trasforma in Tecmo Company Limited. Si ha quindi la buffa situazione in cui il titolo di un gioco ha in sé il nome di un’azienda che non esiste più al momento del suo lancio.
È il 1988 quando Tecmo dà alle stampe il primo titolo che vale all’azienda l’ingresso di diritto nella storia del gaming: si tratta di Ninja Gaiden, uscito contemporaneamente in versione arcade e NES. E qui la stranezza: i due giochi sono molto diversi!
Non è corretto dire che abbiamo effettuato una differente versione del gioco su Famicom [rispetto a quella arcade]. Piuttosto, ciò che è accaduto è che entrambe le versioni sono state sviluppate simultaneamente. Ognuna aveva il suo director. Il presidente di Tecmo voleva un gioco arcade con i ninja, poiché riteneva che stessero spopolando sul mercato estero in quel periodo. Voleva sfruttare il “ninja boom” per così dire. Il director della versione arcade era un fan dei beat’em up a scorrimento orizzontale, perciò fece quel tipo di gioco. Nel frattempo, il presidente chiese a me di realizzare un gioco di ninja per Famicom. La mia idea personale riguardo i ninja è che fossero guerrieri in grado di scalare pareti verticali rapidamente e silenziosamente, una meccanica radicalmente diversa da quelle che costituivano il gioco arcade. Volevamo massimizzare i profitti aumentando la riconoscibilità dei titoli, perciò intitolammo i due giochi allo stesso modo. Tuttavia pensavo “Questi giochi sono radicalmente diversi, sarà davvero una buona idea?”, ma il presidente era convinto e così procedemmo in questo modo.
Hideo Yoshizawa intervistato da Heidi Kemps per Gaming Moe – 27 marzo 2018
Queste le parole del director Hideo Yoshizawa (futuro creatore di Klonoa) sul parto gemellare che portò alla nascita dei due Ninja Gaiden: stesso titolo per giochi con meccaniche diverse. Mentre il titolo arcade è un classico picchiaduro a scorrimento, il gioco NES rappresenta un’evoluzione per gli action-adventure, che sul finire degli anni ’80 si stanno evolvendo in qualcosa di più sofisticato del classico run&gun. L’idea di Tecmo di sfruttare il ninja boom e in generale le arti marziali è senz’altro valida (negli stessi anni SEGA produce Shinobi e Taito dà alle stampe Double Dragon e Ninja Warriors, tutti grandi successi in America).
I giochi di Ninja Gaiden adottano così un setting tipicamente statunitense nell’art design dei livelli. Nella versione arcade il protagonista Ryu Hayabusa si aggira per le strade di una metropoli fac-simile di New York menando fendenti contro varie bandi criminali ansiose di fare a botte, a mani nude o all’arma bianca. Pur nella sua semplicità di design, il Ninja Gaiden arcade è tutt’altro che spregevole e offre un’interazione ambientale che non ci si aspetterebbe da un beat’em up, tra cui una sequenza acrobatica in mezzo al traffico della metropoli. A parte il look, tuttavia, Ryu non ha nessuna caratteristica propriamente ninja, se non forse quella dondolarsi su pertiche orizzontale per sferrare calcioni a mezz’aria.
Per la sua versione NES Yoshizawa decide che uno degli aspetti da tenere in maggior considerazione, ancora prima del gameplay, sia la narrativa: lo si dà per scontato oggigiorno, ma nel 1988 la presenza di una storia ben definita non è assolutamente un requisito fondamentale dei videogiochi d’azione. Tecmo fa di più, realizzando un’introduzione animata con dialoghi e montaggio visivo di ispirazione cinematografiche, qualcosa di inedito per l’epoca, tanto che l’azienda sbandiera la novità coniando l’espressione Tecmo Theater, con cui brandizza i suoi giochi console che fanno uso di introduzioni cinematiche, a partire dai due titoli del 1988 Captain Tsubasa e, appunto, Ninja Gaiden (rinominato Shadow Warrior per il mercato USA).
Insomma non è eccessivo riconoscere nel Tecmo Theater i prodromi delle sequenze narrative in full motion/CGI che sono diventate lo standard dell’industria dei videogiochi, non solo d’azione ovviamente. Quello che colpisce, rivedendo oggi l’introduzione di Ninja Gaiden, è l’estrema consapevolezza del linguaggio cinematografico che trasuda dalla scelta delle inquadrature, segno di un’evidente competenza da parte del director e della sua squadra circa il come veicolare emozioni e suggestioni tramite immagini e musica. Proprio la musica gioca un ruolo altrettanto importante: a realizzare la memorabile colonna sonora è il compositore Keiji Yamagishi, cui è lasciato ampio grado di libertà creativa.
Quando finii il college mandai la mia candidatura a due compagnie: Sega e Tecmo. Durante il mio colloquio a Tecmo parlai con il presidente dell’epoca, il signor Kakihara. Quando gli mostrai il CV chiese “Oh, suoni in una band?”, era alla ricerca di musicisti da implementare in azienda affinché si occupassero delle colonne sonore dei giochi. Sostanzialmente è così che avvenne il mio ingresso in azienda. Kakihara mi disse che potevo dedicarmi a qualsiasi cosa volessi e nel modo che preferivo, perciò mi offriva un grado di libertà molto allettante.
Keiji Yamagishi intervistato da Heidi Kemps per Gaming Moe – 27 marzo 2018
A livello di gameplay invece, oltre ad un pacing sensibilmente più veloce rispetto alla controparte arcade, il team si sforza di dotare il protagonista di abilità che fossero consone alla figura del ninja, potenziando la sua mobilità: oltre ai rapidi movimenti, Ryu può appendersi, scalare pareti ed effettuare wall jumps per raggiungere altezze elevate, attaccare in salto o accovacciato, corpo a corpo con la katana o a distanza con gli shuriken o altre tecniche che richiedono il consumo di energia spirituale. Tutte queste possibilità sono controbilanciate dall’estrema difficoltà del gioco, notoriamente uno degli action più ostici presenti su NES, principalmente a causa del costante ed improvviso respawn dei nemici che spesso richiede tempi di reazione infinitesimali. Il level desing, infine, è molto più complesso della controparte arcade, traendo ispirazione dai classici platform di Mario e dalle mappe complesse di Castlevania.
Se Ninja Gaiden segna la storia di Tecmo negli anni ’80, dando il là ad una IP che continua ancora oggi, gli anni ’90 sono segnati da un’altra celebre serie, che si inserisce in uno dei generi più in voga del decennio: i picchiaduro. È il 1996 quando Team Ninja, divisione interna di Tecmo costituita per l’occasione, dà alle stampe Dead or Alive.
La formazione del Team Ninja vede la luce in un momento difficile a livello finanziario per l’azienda: a metà anni ’90 Tecmo non rilascia un titolo top seller da un po’, è necessario un gioco di grande richiamo per assicurare la stabilità della compagnia. L’uomo che salva la situazione è Tomonobu Itakagi, entrato in ditta nel 1992 come programmatore grafico, che fino a quel momento ha lavorato principalmente a titoli sportivi. Forse è per questo motivo che viene scelto per co-dirigere (assieme a Katsunori Ehara e Takeshi Kawaguchi) quello che è il primo esperimento di Tecmo nei fighting game. Così come Ninja Gaiden nasce sull’onda del “ninja boom”, Dead or Alive rappresenta il tentativo di capitalizzare sul successo del genere picchiaduro, in particolare l’exploit messo a segno da Sega con Virtua Fighter, il primo del suo genere in 3D:
All’epoca Tecmo non se la passava benissimo. Il nostro non era un nome così conosciuto e i bilanci traballavano. Il management pretendeva un gioco sullo stile di Virtua Fighter – anzi, migliore di quello. Era tutta una questione di tempismo; VF era considerato il culmine dell’eccellenza videoludica a quei tempi. Se Gran Turismo fosse stato pubblicato in quel periodo, mi avrebbero chiesto di fare un gioco alla Gran Turismo.
Tomonobu Itakagi intervistato da Kikizo – 15 febbraio 2005
Due sono gli intenti principali del team: realizzare un picchiaduro accessibile a tutti, e con una spiccata personalità che lo renda divertente e visivamente accattivante. Per quanto riguarda il primo obiettivo, va sottolineato come la semplificazione del gameplay rischi di abbassare il livello qualitativo di un fighting game, genere che fa del padroneggiarne le meccaniche la sua raison d’être. Eppure Dead or Alive viene sviluppato con lo specifico obiettivo di essere semplice a livello di meccaniche, alla portata di qualsiasi tipo di giocatore: “I giochi di lotta non sono semplici per un videogiocatore principiante. Perciò è così che abbiamo sviluppato DOA: provando a semplificare il più possibile le meccaniche di gioco” ricorda Yasushi Maeda, programmatore capo del gioco (fonte: il video qui sotto).
Il fatto di avere una logica facilmente assimilabile da chiunque, non significa tuttavia svilire il gameplay; in effetti il team di sviluppo escogita alcune soluzioni inedite a livello di combat system e design delle arene: il primo abolisce la consueta parata in favore in un sistema di reazioni, offensive o difensive, che è possibile operare in risposta alle mosse avversarie, le quali possono essere rivolte contro l’avversario stesso sottoforma di punitivi contrattacchi: “un contrattacco infligge danni proporzionali alla forza dell’attacco stesso, perciò coloro che si affidano troppo spesso alle stesse semplici mosse ripetute a iosa, se li vedranno restituire addosso altrettanto spesso” (fonte); il secondo istituisce una danger zone che circonda l’area di combattimento. Chiunque vi finisca sopra riceve danni ingenti e viene scaraventato in aria, esponendosi ad un attacco avversario. In questo modo il gioco sprona il giocatore a non assumere posizionamenti attendiste o troppo guardinghi, incentivandolo anzi a cercare di spingere l’avversario fuori dal ring.
Ma Dead or Alive spopola non solo grazie alle sue innovazioni di gameplay, bensì al conturbante sex appeal delle sue protagoniste, tutte benedette da seni prosperosi e alla cui dinamica vengono profusi notevoli sforzi di programmazione. Nel corso degli anni la serie è stata talvolta criticata per l’eccessivo compiacimento con cui mostra le grazie delle sue combattenti (e d’altronde il focus degli spin-off pallavolistici Xtreme Beach Volleyball è proprio quello di titillare la fantasia erotica dei giocatori mostrando le nostre eroine in scollacciati bikini), ma Itagaki ha sempre difeso le sue scelte in nome dell’idea che l’appagamento del giocatore passi anche per il piacere estetico:
Allo studio di questo aspetto [algoritmi di gestione della fisica dei seni delle combattenti] c’è una persona che conosco. Si tratta di un accademico, non di uno sviluppatore. Il Team Ninja non può competere con lui! Per quanto riguarda questo argomento… noi ricerchiamo la bellezza, non il realismo. Se creassimo qualcosa di realistico ma non bello, quale sarebbe lo scopo?
Tomonobu Itakagi intervistato da Kikizo – 15 febbraio 2005
Ninja Gaiden e Dead or Alive sono fondamenta salde su cui Tecmo è in grado di costruire una solida e duratura reputazione: le serie sono longeve e ogni nuovo capitolo assicura lauti incassi all’azienda. Il Team Ninja, che dal 2004 prende in mano anche lo sviluppo di nuovi capitoli di Ninja Gaiden, diventa in pochi anni la punta di diamante della compagnia, con Itakagi saldamente alla guida. Tutto sembra andare per il verso giusto fino al 2008, anno delle improvvise dimissioni di Itakagi stesso, che lamenta anni di bonus aziendali mai pagati, con tanto di causa legale annessa.
In un colpo solo Tecmo si trova a gestire la perdita del loro più talentuoso director, oltre a dover fronteggiare una disputa giudiziaria e un clamoroso danno di immagine. È in questo momento che Square Enix, già leccandosi i baffi, mette sul piatto un’offerta di acquisizione da 200 milioni di dollari. L’offerta viene tuttavia rifiutata, perché Tecmo sta già lavorando ad una exit strategy dalla difficile situazione in cui si trova, solo che non si tratta di un’acquisizione bensì di una fusione: a settembre 2008 iniziano le trattative tra Tecmo e Koei.
Il ragionamento di Tecmo dietro al rifiuto è dovuto alla convinzione che l’azienda possa continuare a crescere attraverso un’operazione di fusione. “Tramite una fusione ci aspettiamo di poter crescere ulteriormente, sia grazie al riconoscimento delle identità nostra e della controparte, sia per il fatto di creare un ambiente aziendale in cui ogni dipendente possa dare il massimo delle proprie capacità” hanno dichiarato Tecmo e Koei in un comunicato congiunto, con una decisione che per Tecmo rappresenterebbe “una maggiore possibilità di aumentare il valore della compagnia”.
Articolo di Phil Elliott per Gamesindustry – 4 settembre 2008
La fusione si concretizza il primo aprile 2009, con la nascita di Tecmo Koei Holdings.
Koei Tecmo o Tecmo Koei? Questo è il dilemma! Il primo biennio di vita della nuova holding è quantomai burrascoso, con continui rebranding e riorganizzazioni interne. Nello stesso 2009 le sussidiarie statunitensi delle due compagnie sono fuse in un’unica entità, denominata Tecmo Koei America Corporation; in Europa, dove Tecmo non ha sussidiarie, la già esistente Koei Europe diventa Tecmo Koei Europe, rimanendo di fatto inalterata se non per il nome, ed è inoltre responsabile della pubblicazione del primo gioco post-fusione, Ninja Gaiden Sigma 2, un port PS3 della versione Xbox di Ninja Gaiden 2. Lo stesso avviene per le sussidiarie Koei in Canada, Taiwan, Singapore e Corea, tutte ribrandizzate come Tecmo Koei. In Giappone, infine, le due compagnie rimangono distinte fino all’anno seguente, quando vengono unificate in Tecmo Koei Games, pur continuando a sviluppare e pubblicare giochi separatamente, ognuno con il proprio marchio storico.
Tuttavia l’anteposizione del nome Tecmo rispetto a Koei evidentemente è causa di qualche malumore, poiché nel 2014 tale entità viene ribattezzata Koei Tecmo Games. Ed in effetti Koei ha dalla sua il fatto di aver salvato Tecmo dalle difficoltà finanziarie in cui versava, rilevandone tre quarti delle azioni (fonte). C’è inoltre una seconda ragione: negli anni intercorsi tra il 2010 e il 2014 la holding non genera i profitti sperati, e ciò porta alle dimissioni del presidente e CEO Kenji Matsubara (diverrà successivamente CEO di SNK) in favore, nientemeno, di Yoichi Erikawa. Per sancire questo successo, cosa c’è di meglio se non evidenziare il fatto che sia Koei a muovere i fili del gioco? L’ambizione degli Eirkawa ha condotto ad un nuovo traguardo, la nascita effettiva di Koei Tecmo Holdings. Finalmente un’unica entità di nome e di fatto: dal 2014 in poi, infatti, tutti i giochi sviluppati dalla compagnia sono pubblicati con il suo nome ufficiale, sancendo di fatto la fine di Koei e Tecmo come marchi singoli.
Com’è organizzata attualmente Koei Tecmo in ambito di sviluppo? La compagnia al momento conta sei divisioni interne, in massima parte ereditate dalla storia di Koei. Basta una rapida occhiata per rendersi conto di come Tecmo sia stata quasi completamente dissolta all’interno della creatura degli Erikawa, avendo lasciato in eredità solo l’attuale Team Ninja: comunque un’eredità non da poco.
Il nome d’arte di Yoichi Erikawa è anche il nome della divisione di Koei Tecmo Games dedicata alle IP storiche concepite dal suo presidente. Kou Shibusawa infatti si dedica allo sviluppo dei franchise strategici Romance of the Three Kingdoms e Nobunaga’s Ambition, tenendo viva l’identità storica dell’azienda. In aggiunta, la divisione cura Uncharted Waters, un’altra serie storico-strategica di vecchia data (il primo episodio risale al 1990), che applica la filosofia di design di Erikawa al setting marinaresco dell’Età delle scoperte navali europee; e Winning Post, un simulativo di corse di cavalli (il primo gioco risale al 1993) che rappresenta una rara incursione di Koei in ambito sportivo: l’unica altra di rilievo è G1 Jockey, sempre incentrata su corse equine, ma con una maggiore componente gestionale relativa allo studio parametrico delle caratteristiche degli animali. All’oggi la serie è quasi sconosciuta al di fuori del Giappone, poiché solo un titolo è stato localizzato in inglese: Winning Post EX nella sua versione per Sega Saturn del 1995.
Per quanto riguarda Nobunaga’s Ambition, la divisione ha tentato di rinnovare la formula proponendo il titolo mobile Nobunaga’s Ambition 20XX, che innesta i personaggi storici della serie in un setting fantascientifico, nonché alcuni titoli online, tra questi in particolare spicca il MMORPG Nobunaga’s Ambition Online pubblicato nel 2003 per PC e console Sony (fino a PS4). La serie in generale languisce da qualche anno in una stasi che vede il gioco più recente risalire al 2017 (Nobunaga’s Ambition: Taishi), probabilmente per lo scarso appeal che questa IP ha sempre esercitato al di fuori dei confini nazionali. Ad essa è stata di gran lunga preferita Romance of the Three Kingdoms, giunta ormai al suo quattordicesimo titolo principale (pubblicato nel 2020 per PC, PS4 e Switch), con una pletora di titoli spin-off per il mercato mobile. Il motivo è senz’altro da ricercarsi nel successo dei Dynasty Warriors, serie con la quale Romance condivide setting e personaggi. Infine, anche ROTTK ha partorito un’iterazione online, in forma di MMO strategico per smartphone: si tratta di Romance of the Three Kingdoms: Hadou, il quale non è mai stato localizzato, evidentemente l’azienda ritiene che non possa ambire a generare la massa critica di utenti internazionali necessaria a giustificarne la spesa.
Infine, Kou Shibusawa collabora come produzione alla serie Nioh, del cui sviluppo si occupa in pianta stabile Team Ninja, e ha all’attivo il co-development di Fire Emblem: Three Houses, recente capitolo della celebre saga JRPG sviluppata da Intelligent Systems.
Dopo l’abbandono di Tomonobu Itakagi, le redini di Team Ninja sono passate nelle mani esperte Yōsuke Hayasi, già director di molti episodi di Ninja Gaiden. C’era quindi da aspettarsi che questa storica serie sarebbe continuata ad essere uno dei cavalli di battaglia della compagnia, tuttavia nessun nuovo episodio principale è stato rilasciato dopo il 2012, anno di Ninja Gaiden 3: Razor’s Edge. Qualcosa probabilmente si sta muovendo in questo senso, come suggerirebbe la pubblicazione nel 2021 della Ninja Gaiden: Master Collection che, oltre ad essere pubblicata su PC e PS4, è approdata per la prima volta anche su console Xbox e Switch. La tendenza dell’industria del gaming è generalmente quella di pubblicare collezioni o rimasterizzazioni di IP storiche prima di lanciarne un nuovo capitolo principale, di conseguenza personalmente mi aspetto in tempi non troppo lontani un annuncio ufficiale in tal senso.
La divisione ha senz’altro tenuto in gran conto Dead or Alive, serie molto apprezzata a livello internazionale: l’ultimo episodio principale è Dead or Alive 6, pubblicato nel 2019 su PC, PS4, Xbox One e persino in versione arcade, per chi ancora ci gioca (soprattutto i giapponesi, scommetto). Nello stesso anno è stato anche pubblicato l’ultimo capitolo dello spin-off pallavolistico Dead or Alive Xtreme 3 Scarlet, indice del fatto che il pubblico continua a gradire il conturbante approccio del team alla simulazione sportiva. Non sono tuttavia queste due serie storiche ad aver mantenuto viva la fiamma di Team Ninja in tempi recenti: il colpo da maestro della divisione ex-Tecmo è infatti rappresentata da una nuova IP, che ha segnato l’ingresso di Koei Tecmo nel genere soulslike, ovvero Nioh.
Avendo ripercorso la storia dell’azienda risulta evidente che tutte le principali spinte propulsive di Koei sono dovute ai coniugi Erikawa, con la loro volontà di sperimentare sempre nuovi approcci di game design per creare la “next big thing”. Non stupisce quindi che, anche nel caso di Nioh, ci sia lo zampino di Yoichi Erikawa, quantomeno nel concept originale (ispirato peraltro da una sceneggiatura incompiuta di Akira Kurosawa) che si è evoluto poi nel gioco diretto da Fumihiko Yasuda, come lui stesso racconta:
Il creatore originale del concept di Nioh è stato il nostro presidente e CEO Kou Shibusawa [ricordate, è il nome d’arte di Erikawa]. Ha sempre avuto un forte convincimento nei confronti di questo gioco. Era molto coinvolto, si potrebbe quasi dire… Beh, non vorrei usare la parola ossessivo, ma aveva una visione molto chiara in proposito, e le prime fasi dello sviluppo ovviamente non sono state all’altezza delle sue aspettative. Riguardo il mio ingresso nel progetto Nioh, è accaduto circa tre anni fa [2013] quando il progetto è stato assegnato al Team Ninja. Da allora ha preso corpo una visione più definita del concept complessivo del gioco. A discapito delle idee primigenie che Shibusawa aveva su questo progetto, alla fine è risultato evidente che doveva essere un gioco d’azione. E doveva essere un gioco difficile. Alla fine si è convito e ci ha dato il via libera per procedere allo sviluppo. (…) Inizialmente era stato concepito in ottica JRPG, poi quando passò in mano ad Omega Force assunse maggiormente i connotati di un gioco della serie Warriors. Ma a parte l’idea narrativa di partenza, secondo la quale ci sarebbe dovuto essere un protagonista occidentale che si trasforma in un samurai, tutto il resto era ancora in una fase estremamente preliminare fino a tre anni fa.
Fumihiko Yasuda intervistato da Alexa Ray Corriea per GameSpot – 16 settembre 2016
Nonostante il development hell di oltre un decennio, Nioh vede la luce nel 2017 ed è un grande successo, grazie al suo combat system profondo e complesso, il setting fantastorico suggestivo e la difficoltà tarata verso l’alto. A contribuire al suo successo, oltre all’ottimo lavoro del team, ha senz’altro concorso la riscoperta fame di esperienze hardcore che ha investito il mercato a seguito della serie Souls di From Software, che ha segnato la nascita del genere soulslike, ovvero action-GDR build-based caratterizzati da sfide complesse, che costringono il giocatore a padroneggiare il sistema di gioco per poterne avere ragione, oltre che una grandissima cura riposta nel level design.
Team Ninja ha applicato la formula soulslike con precisione certosina, mettendoci del suo con una componente narrativa maggiormente esplicita, il ricorso a suggestioni culturali proprie del folklore nipponico (e ricerca storica nel design di armi e armature), un pacing veloce che lo rende uno degli esponenti più frenetici del genere in questione ed un sistema di stances (guardia bassa, media e alta) mutuata dalle tecniche di combattimento con katana della tradizione militare giapponese, che offre molteplici approcci al combattimento. Il grande successo riscontrato presso critica e pubblico ha dato origine nel 2020 a Nioh 2, accolto altrettanto favorevolmente.
Per quanto riguarda le collaborazioni, Team Ninja ha istituito una partnership con Square-Enix sin dal 2015, anno di pubblicazione di Dissidia Final Fantasy NT, un picchiaduro che sfrutta i celebri personaggi della serie JRPG più famosa al mondo. La collaborazione è proseguita su un nuovo progetto: il 18 marzo 2022 è stato pubblicato Stranger of Paradise: Final Fantasy Origin, una rilettura in chiave action-RPG del primo, storico capitolo della serie FF. La competenza di Team Ninja nello sviluppo di sistemi di gioco action non è in discussione, e l’idea di rinarrare in chiave alternate universe la storia del gioco originale è accattivante.
La divisione si dedica essenzialmente alle innumerevoli iterazioni del genere musou: la serie principale Dynasty Warriors vede nuovi episodi pubblicati con regolarità (l’ultimo Dynasty Warriors 9 è del 2018), quasi tutti accompagnati a breve distanza da un’espansione (demoninata Xtreme Legends) e da uno spin-off strategico (denominato Empires). Serie gemella è Samurai Warriors, che applica il genere ad un setting giapponese di periodo Sengoku, il che ne fa sostanzialmente la versione musou di Nobunaga’s Ambition. C’è poi la serie Warriors Orochi, che combina i personaggi di entrambe le serie sopracitate all’interno di un musou dal roster sterminato: Warriors Orochi 4 conta ben 117 personaggi giocabili! l’unica incursione al di fuori del genere è il genere hunting game, rappresentato in prima istanza da Toukiden, una sorta di Monster Hunter in salsa nipponica, dalle meccaniche estremamente semplificate rispetto alla IP Capcom. Toukiden 2 risale al 2017, e da allora non ci sono notizie su un nuovo capitolo in arrivo. Di recente è stato presentato un nuovo gioco di questo genere, intitolato Wild Hearts ed incentrato sulla creazione istantanea di gadget offensivi e difensivi da utilizzare per avere ragione di mostri enormi, affrontabili da soli o in compagnia (qui la nostra recensione).
Nel corso degli anni Omega Force ha avuto l’intuizione di applicare il genere musou a titoli su licenza, sfruttando la nomea di marchi famosi dell’industria dell’entertainment nipponico. Sono quindi fioccati musou basati sulle licenze di Attack On Titans, Dragon Quest, One Piece, Fire Emblem, Fist of the North Star (Ken il guerriero), Gundam, Arslan e Berserk. Oltre a queste, altre due hanno avuto particolare successo di pubblico e critica: Persona 5 Strikers, sviluppato assieme ad Atlus, che combina le meccaniche musou ad altre maggiormente JRPG, il tutto mantenendosi fedele all’estetica cel shading che fatto la fortuna di Persona 5; e Hyrule Warriors, basato sul franchise di The Legend of Zelda che pur prendendo le mosse dal corpus narrativo di Breath of the Wild, è considerato non canonico rispetto dalla serie principale.
Questi titoli stanno ultimamente riscontrando maggior favore rispetto alla serie principale (qui la nostra recensione di Hyrule Warriors: L’era della calamità), probabilmente grazie alla maggior varietà estetica, la presenza di personaggi molto amati appartenenti alla storia dei videogiochi e/o dei manga, e la leggera differenziazione del gameplay tra un titolo e l’altro, che contribuisce a portare una ventata d’aria fresca in un genere sempre uguale a sé stesso.
La divisione immaginata e concretizzata da Eiko Erikawa è ancora viva e vegeta, come sempre dedita allo sviluppo del suo progetto Neoromance tramite svariate IP: Angelique, Haruka: Beyond the Stream of Time, La Corda d’Oro e Geten No Hana. Della prima si è già detto in abbondanza, mentre le altre tre sono praticamente sconosciute al di fuori dei confini indigeni. Si tratta sempre di giochi appartenenti al genere otome, declinati in modi differenti.
I titoli della serie Haruka (inaugurata nel 2000 con un gioco PlayStation dal titolo omonimo) sono visual novels con blande componenti RPG (sono presenti battaglie a turni con semplici opzioni di attacco, difesa e supporto; inoltre non esiste un sistema di crescita del personaggio con punti esperienza e level up), la cui narrativa consiste in continue riproposizioni del classico canovaccio della protagonista chiamata a salvare un mondo magico con l’aiuto di giovani e affascinanti aiutanti, tra cui potrà scegliere il proprio compagno ideale. Il successo della serie in Giappone ha dato origine ad una serie manga, una serie anime, un film, due OAV ed uno spettacolo teatrale! È parecchio che la IP giace in stato di abbandono: l’ultimo videogioco pubblicato risale al 2015 su PSP e PS Vita, anche se ne è stato fatto un port su Switch.
Ottimi riscontri anche per La Corda d’Oro, otome con un originale spunto narrativo: nel primo gioco Kahoko, la giovane studentessa protagonista, viene a contatto viene a contatto con la fatina Lily che le dona un violino magico, in modo da poterla far partecipare all’annuale competizione scolastica. Ovviamente i suoi contendenti sono bellissimi ragazzi… La musica gioca un ruolo importante nella serie, che alterna fasi puramente visual novel a momenti gestionali o negli ultimi capitoli addirittura rhythm game di esecuzione musicale. In effetti la maggior parte delle OST dei giochi della serie è stata regolarmente pubblicata su CD, con grande successo. Si sono tenuti persino due concerti dal vivo, di cui uno è stato successivamente pubblicato in DVD.
Geten no Hana è il progetto più recente tra questi, essendo uscito per la prima volta nel 2016. Questo gioco applica il genere otome al contesto storico tanto caro al signor Erikawa: l’era di Nobunaga. In effetti la protagonista Hotaru è un’assassina ingaggiata per eliminare nientemeno che Nobunaga stesso, ma ovviamente il suo compito sarà ostacolato da ciò che le dice il suo cuore. Il gioco si articola in una serie di missioni affidate a Hotaru dal suo signore. Per completarle, dovremo raccogliere informazioni in vari luoghi e in un determinato periodo di tempo, soprattutto tramite interazioni con i soliti begli uomini i quali, però, potremmo inimicarci se facciamo domande troppo insistenti o inopportune, fino a rischiare di compromettere l’intera missione assegnataci. Tutto sommato, anche se l’otome è probabilmente destinato a rimanere per sempre di nicchia, sarebbe interessante se più esponenti di questo genere arrivassero in occidente: potrebbe esserci un bacino di videogiocatrici che aspetta solo di essere scoperto…
Gust era una sussidiaria della holding finanziaria Keikei Holdings, prima dell’acquisizione da parte di Koei Tecmo nel 2011. Data la lunga storia della compagnia servirebbe un approfondimento dedicato per parlarne in modo esaustivo. In questo frangente basti dire che si tratta di una software house specializzata in JRPG, la cui fortuna risiede principalmente alla serie Atelier, giochi di ruolo incentrati sulle meccaniche di crafting. I titoli della serie principale hanno corpus narrativi di volta in volta differenti, pur mantenendo premesse simili: la protagonista è un’alchimista che ha in gestione un atelier in cui realizza ricette (da pozioni a capi d’equipaggiamento) con le risorse accumulate nel corso dell’avventura, spesso caratterizzata da limiti di tempo per portare a termine la main quest o altri compiti secondari. Dalla pubblicazione di Atelier Marie, nel 1997, ad oggi, sono oltre 20 i titoli sviluppati (senza contare innumerevoli port, remastered e collections), segno inequivocabile del successo della serie, che a partire da Atelier Iris (2004) ha iniziato ad essere distribuita anche al di fuori del Giappone.
Altre IP note sono Nights of Azure, un JRPG in salsa action che attinge appieno all’immaginario fantasy gotico, e Blue Reflection che, secondo Koei Tecmo “ha dato origine ad un nuovo genere, l’Heroic RPG, in cui l’ordinaria routine della vita studentesca si mischia con quella straordinaria della lotta ai demoni” (fonte). Il gameplay è diviso nettamente in una fase scolastica, durante la quale cementificare le relazioni tra i personaggi e compiere varie attività; ed una notturna che avviene nell’Other World, dimensione parallela in cui esplorare alla ricerca di risorse ed affrontare nemici in un classico sistema di combattimento a turni… meccaniche che in verità ricordano in tutto e per tutto la serie Persona di Atlus! Se consideriamo in particolare il successo di pubblico e critica riscontrato da Persona 5, la cui pubblicazione precede di un anno quella del primo Nights of Azure, la rivendicazione di primato da parte di Koei Tecmo appare a dir poco pretestuosa. Almeno per questa volta, la compagnia degli Erikawa non è arrivata prima degli altri.
Midas è una creazione recentissima, la prima divisione istituita da zero da Koei Tecmo, nel 2017. Il focus di Midas è lo sviluppo di titoli mobile, concepiti da una squadra di sviluppatori giovani capeggiata da Kazumi Fujita, originariamente impiegato presso il settore marketing di Koei Tecmo, con focus sull’internazionalizzazione: “Ero coinvolto nella pianificazione e sviluppo dei titoli affinché fossero più appetibili da parte del mercato estero. Dopodiché mi sono dedicato allo sviluppo di titoli mobile, nonché alla produzione di (…) browser games” (fonte). Lo scopo della creazione di Midas è quella di creare nuove IP dedicate a questo segmento di mercato, da qui l’esigenza di partire da zero con un team nuovo che tralasci port e/o versioni mobile di serie Koei Tecmo già esistenti:
Il presidente Erikawa ha il forte desiderio di veder creare nuove IP da parte degli impiegati più giovani all’interno di Koei Tecmo Games, e di formare attivamente i futuri directors e produttori. (…) Per questo motivo abbiamo lanciato Midas come un nuovo marchio, oltre a focalizzarci sulla creazione di nuove IP, vogliamo guardare al futuro di Koei Tecmo Games. Per farmi capire, Nobunaga’s Ambition celebrerà il suo 35° anniversario l’anno prossimo, e anche la serie Warriors celebrerà il suo 20° anniversario; tuttavia solo la creazione di un nuovo marchio potrà aprire le porte verso il futuro.
Kazumi Fujita intervistato da 4Gamer – 18 aprile 2017
Ulteriore esempio dell’inestinguibile ambizione degli Erikawa, Midas ha la mission di segnare la strada per il futuro della compagnia, che non può permettersi di non aggredire il settore in più rapida crescita dell’intero mercato del gaming (se volete saperne di più date un’occhiata alla mia analisi di mercato sui ricavi del mobile gaming 2021). Va detto tuttavia che, a dispetto dei proclami altisonanti, il primo titolo pubblicato dalla divisione non è certo un esempio di rivoluzione di game design: si tratta infatti di Shin Hokuto Musou, che come dice il nome non è altro che un musou basato sul franchise di Ken il guerriero. Insomma rimaniamo ancora in attesa di una vera nuova IP che realizzi la dichiarazione di intenti della compagnia.
Con una storia aziendale che affonda le sue radici negli esperimenti pionieristici degli anni ’80, Koei Tecmo si presenta oggi come un gruppo compatto, longevo e dalla forte identità: le sue IP sono note in tutto il mondo, diversificate e spesso con una nobile storia alle spalle, sebbene siano talvolta annacquate da una profluvio di giochi che consistono in un more of the same con pochissime novità tra un titolo e l’altro. Koei Tecmo sopperisce a questa carenza di evoluzione interna alle singole IP con il lancio costante di nuove serie, puntando chiaramente su produzioni AA caratterizzate da narrative essenziali e gameplay immediati.
Se cerchiamo la next big thing che cambierà la storia dei videogiochi, è improbabile che la troveremo nel portfolio della holding giapponese; tuttavia, nel corso dei decenni Koei Tecmo ha dato prova di colpi di genio e brillanti intenzioni di game design, contribuendo significativamente alla nascita e/o evoluzione di una moltitudine di generi diversi. E chissà che alla lunga, l’estrema eterogeneità di cui si fa portatrice non riesca a realizzare quello che era, è, e sempre sarà l’ambizione degli Erikawa:
In linea con il nostro principio “Creatività e Partecipazione”, il gruppo Koei Tecmo continua a perseguire il suo obiettivo di diventare la “Compagnia N°1 al mondo per l’intrattenimento digitale”, per la felicità degli utenti di tutto il mondo.
Yoichi Erikawa – Saluto ufficiale pubblicato sul sito di Koei Tecmo Holding
This post was published on 11 Marzo 2022 14:00
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