Vi è mai capitato di imbattervi in un capolavoro in maniera del tutto casuale?
Vi è mai capitato di acquistare un videogame solo perché non sapevate come spendere quei tre o quattro euro di credito residuo nel vostro portafogli?
E, infine, vi è mai capitato che proprio quel gioco cambiasse radicalmente la vostra opinione sul suo genere di appartenenza?
Signori miei, ho una confessione da farvi: fino a qualche tempo fa, chi vi scrive riteneva i walking simulator la forma più pura di ridondanza videoludica.
Forse anche a causa della proliferazione incontrollata di simulatori di ogni genere che affliggeva Steam giusto qualche anno fa, qualsiasi titolo che rientrasse in quella categoria attivava in me un meccanismo di difesa, che me ne faceva prendere in automatico le distanze.
Anche questo, come ogni pregiudizio, era destinato a sgretolarsi.
In tempi recenti ho infatti apprezzato diversi degli esponenti di maggior spicco dei walking simulator, da Firewatch a What Remains of Edith Finch, passando per Gone Home e The Vanishing of Ethan Carter; tuttavia, avevo bisogno di un punto di svolta, di qualcosa che disintegrasse tutti i luoghi comuni che oramai avevano preso il sopravvento nella mia mente.
Ebbene, in un caldo pomeriggio estivo, quel punto di svolta si palesò, portava il nome di Dear Esther e, per tutti i motivi che spiegherò, non avrei potuto desiderare di meglio.
Un piccolo avviso ai naviganti: nelle righe che seguono ci saranno diversi spoiler sulla trama di gioco. In base a quanto ora scritto, non proseguite oltre se non avete ancora vissuto questo viaggio tanto breve quanto intenso, e tornate qui solo dopo che lo avrete portato a compimento.
Chi siamo? Dove ci troviamo? Che ci facciamo in questo luogo? E, soprattutto, cosa dobbiamo fare?
Non nascondo che i primi minuti in Dear Esther possano causare un po’ di smarrimento, soprattutto a coloro che non sono abituati ai videogame in cui non sono presenti nemici a cui sparare o enigmi da risolvere. Per cercare di chiarirci un po’ le idee, proviamo a rispondere alle domande appena menzionate.
Innanzitutto, non conosciamo l’identità del nostro protagonista; sappiamo solo che è un uomo di mezza età che ama scrivere lettere, quasi tutte indirizzate ad Esther, una donna a cui è profondamente legato e che, per motivi che ignoriamo, ora non c’è più.
Per quanto riguarda il setting della nostra avventura, invece, abbiamo qualche informazione in più: ci troviamo su una delle isole Ebridi, situate al largo della costa occidentale scozzese. Si tratta di un arcipelago abitato sin dagli albori del genere umano e, tra le altre cose, formato dalle rocce più antiche del Regno Unito.
Se risulta difficile, almeno all’inizio, comprendere la ragione della nostra presenza su questo luogo disabitato, ciò che siamo chiamati a fare è piuttosto semplice, nonché l’unica opzione a nostra disposizione: camminare. Man mano che esploreremo l’isola, infatti, saremo accompagnati dalla voce del protagonista che, non appena raggiungeremo determinati luoghi, ci racconterà delle storie riguardanti la vita di alcuni personaggi: Donnelly, la prima persona a mappare l’isola, Jakobson, un pastore vissuto nel corso del XVIII secolo, ed infine Paul, un uomo dipendente dall’alcool che, in qualche modo, è legato alla scomparsa di Esther.
Inutile dire che, soprattutto all’inizio, tutte queste informazioni sembreranno dei pezzi di un puzzle troppo ampio. L’unica cosa che sembra attirare l’attenzione del protagonista è un’antenna radio, visibile sin dai primi minuti di gioco, e che diventerà la meta del nostro viaggio, contrassegnato dal lento incedere del nostro eroe senza nome.
Come sottolineato in precedenza, il gameplay di Dear Esther consiste nel recarsi da un punto A ad un punto B, con poche eccezioni. Il grosso dell’esperienza di gioco, tuttavia, consiste nell’esplorare l’isola cercando di cogliere gli indizi che si paleseranno davanti ai nostri occhi, e che daranno un senso alle narrazioni della voce fuori campo.
L’idea di non essere su una comune e semplice isola prenderà corpo solo verso la metà del nostro cammino; tuttavia, dei segnali in tal senso saranno chiari sin dalle prime battute.
In diversi punti dell’isola, infatti, sarà possibile imbattersi in dei messaggi scritti con una vernice fluorescente, che riprodurranno tanto “pitture rupestri” quanto formule chimiche, fino a riportare delle vere e proprie scritte chiaramente leggibili.
Subito dopo aver abbandonato il molo, inoltre, vedremo delle grandi linee bianche sulla parete verticale della scogliera che, come la voce narrante precisa, costituivano un metodo, sin dai tempi più antichi, per segnalare la presenza di un’epidemia a chiunque intendesse sbarcare. È chiaro, quindi, che l’isola è stata funestata da qualche morbo, ma noi sembriamo gli unici esseri umani presenti nell’arco di chilometri.
Se formule chimiche (probabilmente di farmaci) e riferimenti a malattie non fossero sufficienti, basta guardarsi intorno per capire che, al di là del piccolo molo iniziale, non sono presenti luoghi in cui sia possibile sbarcare e, di conseguenza, neanche per potersene andare. Quanto ora detto è rafforzato dai relitti trovati nella baia, che forse rappresentano dei tentativi di approdo e/o di fuga andati male.
La conferma dei nostri sospetti arriva in maniera del tutto casuale quando, esplorando dei luoghi secondari, troviamo una catasta di libri abbandonati nel fondo di una gola.
Non ci sono più dubbi: l’isola su cui ci troviamo non è nient’altro che una metafora, la rappresentazione di una condizione mentale in cui il nostro protagonista si trova bloccato da chissà quanto tempo, da cui qualcuno avrà provato a trarlo in salvo in vari modi (navi e farmaci sono lì a provarlo), ma senza successo.
Ora è tutto più chiaro: a seguito di un evento traumatico, il nostro protagonista si è rinchiuso su un’isola deserta del suo subconscio, non consentendo a nessuno di entrare né, a lui, di uscire.
Ma che cosa può aver spinto un uomo ad un gesto tanto estremo? Non possiamo ancora dirlo, ma la sensazione è che la “cara Esther” sia direttamente collegata all’intera vicenda che stiamo vivendo.
Come sopra – così sotto,
come sotto – così sopra.
Come dentro – così fuori,
come fuori – così dentro.
Come nel grande – così nel piccolo.
La terza legge universale, così come riportata negli scritti di Ermete Trismegisto, afferma che ciò che avviene dentro di noi influenza direttamente ciò che, invece, accade all’esterno di noi. Proprio sulla base di quanto ora scritto, per capire il “fuori”, dobbiamo guardare dentro, anche se questo significa venire a diretto contatto con il dolore.
Il nostro viaggio è cominciato in alto, in un silenzio interrotto solo dai nostri passi, da qualche folata di vento e dalla voce narrante, ma la vera comprensione di ciò che sta accadendo avverrà nel momento in cui decideremo di esplorare ciò che sta sotto, all’interno, approdando in uno degli scenari più suggestivi del gioco: le caverne.
Se la superficie era rappresentata come un panorama quieto, immobile e toccato da una luce tenue, filtrata da un perenne manto di nuvole, le caverne sono l’esatto opposto: un costante gioco di luci ed ombre accompagnerà la nostra discesa, così come la bioluminescenza dei minerali e dei vegetali presenti, il tutto accompagnato dallo scorrere costante di fiumi sotterranei. Arriveremo in questa zona facendo un vero e proprio salto del vuoto, raggiungendo così la parte più profonda dell’isola e scoprendo qual è l’avvenimento alla base di tutto.
Il mistero è finalmente svelato: la Esther tanto cara al nostro protagonista è morta in un incidente stradale, causato da quel Paul a cui la voce fuori campo ha spesso fatto riferimento e che, probabilmente, era ubriaco al momento del tragico evento.
Il protagonista, evidentemente, non è mai stato in grado di superare il trauma, rifiutando qualsiasi elaborazione del lutto e trovando sollievo unicamente nell’isolamento più totale, rappresentato come un luogo inaccessibile, immobile, privo di pressoché qualsiasi forma di vita senziente ed in cui tutte le vie di fuga sono state distrutte o rese inservibili.
Tutte tranne una: la torre radio.
Immaginate di trovarvi su un’immensa spiaggia nell’ora più buia della notte, e le uniche fonti di luce sono rappresentate dal pallore di un’enorme luna piena e da un lontano falò.
Subito dopo aver toccato con mano il dolore del nostro protagonista, saremo chiamati a raggiungere di nuovo la superficie, essendo però consapevoli di ciò che dobbiamo affrontare. Stavolta, però, saremo baciati dai candidi raggi della Luna, che svelerà uno scenario tanto malinconico quanto mozzafiato.
Oramai siamo a conoscenza del mistero che il nostro uomo cercava di nascondere al suo interno; esso è completamente emerso, ed ora ci toccano le fasi più difficili: l’elaborazione ed il superamento.
Non appena muoveremo i primi passi sul litorale illuminato dal chiaro di Luna, ci accorgeremo della presenza di numerose candele accese. Osservandole più da vicino, noteremo che non siamo in presenza di semplici candele, ma di veri e propri lumini votivi, nelle cui vicinanze c’è un oggetto appartenuto alla nostra amata, o a lei collegato.
Delle foto in cornice, dei pezzi della sua automobile distrutta ed addirittura un nido con delle uova all’interno (forse ad indicare che la donna non è stata l’unica vittima dell’incidente), senza considerare le tantissime barchette di carta ricavate dalle infinite lettere mai arrivate a destinazione: tutti questi elementi sono una testimonianza del legame del protagonista con Esther, rappresentando un omaggio alla donna della sua vita e, al tempo stesso, l’ostacolo principale al raggiungimento di una nuova vita, di un nuovo inizio.
Non è un caso quindi che, in prossimità della salita verso la torre radio, dovremo lasciarci tutto alle spalle, raggiungendo l’unico punto che ci consentirà di lanciare un messaggio di aiuto verso l’esterno. Una volta arrivati a destinazione, però, il nostro protagonista compirà un gesto inatteso: si getterà nel vuoto. Tuttavia, a pochi metri dal suolo, la sua ombra (l’unica cosa che possiamo vedere di lui) muterà in quella di un uccello, librandosi in aria ed allontanandosi dall’isola, concludendo così il nostro viaggio.
Come avrete facilmente inteso, Dear Esther è un titolo decisamente particolare, che non svela subito la sua trama che, di fatto, è l’unico ingrediente alla base di tutta l’esperienza di gioco. La narrazione, tuttavia, si presenta sin da subito come criptica e frammentata e, come spesso accade, lascia diversi quesiti inevasi.
Chi è esattamente il protagonista?
È il marito di Esther?
Oppure si tratta proprio di Paul, il colpevole dell’incidente?
Egli ha veramente visitato l’isola presente nel suo inconscio?
La donna è stata l’unica vittima?
E, soprattutto, come si conclude la vicenda?
Il protagonista è riuscito ad inviare un segnale all’esterno, chiedendo aiuto?
Ha scelto, all’opposto, di continuare a vivere isolato da tutto e da tutti, fuggendo dalla torre radio?
Oppure ancora ha scelto di compiere un gesto estremo, capendo che il suicidio era l’unica, vera via di fuga dall’isola?
È quasi inutile sottolineare quanto queste ed altre domande siano state terreno fertile per thread di discussione sui forum e sulle pagine ufficiali del gioco, e che ancora oggi, ad anni di distanza, non si sia raggiunta una posizione univoca. The Chinese Room marcia molto sulle domande che sorgono nella mente dell’utente, ma non fornisce mai una vera e propria risposta o, almeno, non in maniera “classica”. Le lettere ed i racconti della voce fuori campo sono quasi un contorno al nostro cammino, mentre il grosso sarà narrato (e svelato) facendo ricorso alle emozioni. In che modo? Attraverso i suoni, i giochi di luce ed i colori che si alternano nei vari stage.
Il clima uggioso della prima sezione, ad esempio, è un riflesso della condizione del protagonista, che da chissà quanto tempo si trova nell’isolamento più totale, senza il minimo contatto umano. La stessa presenza di case abbandonate, di relitti o anche di oggetti della vita quotidiana è tutto ciò che rimane della precedente integrità psichica dell’uomo. Ovviamente il giocatore non potrà comprendere quanto ora scritto se non dopo un certo momento, ma tutto ciò che lo circonda è un chiaro riferimento alla precedente vita del protagonista.
Il momento della “discesa nel sottosuolo” è senza dubbio la parte più intima di Dear Esther, con cui il team di sviluppo ha scelto far riaffiorare i ricordi più dolorosi. Non è un caso, infatti, che la scena dell’incidente venga (ri)vissuta sul fondo di un lago sotterraneo, forse la parte più profonda dell’isola e, quindi, più nascosta. L’ambiente che troviamo nelle caverne è, come detto in precedenza, ricco di luci e di colori, paradossalmente molto più allegro rispetto alla superficie. I dev hanno scelto questi cromatismi proprio per simboleggiare l’attività cerebrale ed i suoi guizzi creativi, ancora presenti nonostante tutto. La mente umana è il più grande mistero scientifico di sempre e, anche nel nostro caso, rimane imperscrutabile, e gli unici messaggi a noi comprensibili sono le pitture e le scritte fatte con la vernice fluorescente che, in certi punti della discesa, sono molto più presenti e probabilmente sono state scelte per rappresentare i disagi e le psicosi del protagonista.
La parte finale del nostro viaggio si svolge, invece, di notte: tutto è avvolto dall’oscurità che, con il suo colore nero, ci comunica il lutto che il protagonista vive, ricordatoci anche dai tanti lumini disseminati sul litorale. Dai toni più distesi della colonna sonora, si percepisce una sorta di accettazione, e non è un caso che, nella salita finale, si riesca a raggiungere il punto più alto dell’isola, che ci consente di vederne ogni angolo, quasi a rappresentare la presa di coscienza del nostro uomo che, mai come ora, osserva la sua condizione in piena lucidità.
Ciò che ci rimane, a quasi 10 anni dalla release di Dear Esther, è una storia intensa ed emozionante, capace di meravigliare anche i più scettici e di aprire la strada a tanti altri titoli che faranno la fortuna dei walking simulator.
Se dovessi rivolgermi alla versione scettica passata di me stesso, gli direi che si: nei walking simulator l’unico scopo è quello di andare da un punto A ad un punto B, ma che ciò che fa la differenza è ciò che si verifica nel lasso di tempo che ci separa dalla destinazione finale. Non avremo orde di nemici da sbaragliare, enigmi da risolvere, piattaforme su cui saltare o oggetti da fabbricare, ma saremo costantemente avvolti da una storia che ci accompagnerà ad ogni singolo passo.
E credetemi: certe volte, è tutto ciò che serve.
This post was published on 26 Gennaio 2022 14:00
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