Lo scorso 3 dicembre PlayStation ha spento la bellezza di ventisette candeline, confermandosi uno dei brand di console più duraturi di sempre, all’attivo da ben cinque generazioni (nonostante l’ultimo di questi sia per lo più introvabile dai giocatori).
Oggi seppur in ritardo celebreremo quella ricorrenza, ma lo faremo con un approccio diverso dal solito post celebrativo: parlando del ruolo di questa straordinaria console in un campo che ha contribuito a fondare, ovvero la transmedialità e l’impatto di una console importante anche dal punto di vista “sociologico”.
Seguiteci quindi in un bel viaggio nel videogioco anni ‘90, narrazioni a esso legate e molto altro.
Quando il 3 dicembre 1994 la Sony lanciò PlayStation, pochi si sarebbero aspettati il netto passo in avanti che questa release avrebbe costituito per la storia del videogioco, sia per quel che riguarda l’aspetto tecnologico che di costume.
Per quanto PlayStation non sia stato il primo brand di questo mercato, la potenza dell’hardware e la relativa semplicità dello sviluppo portarono forse alla nascita della prima console “democratica” e “per tutte le età”, destinata a far nascere generazioni di videogiochi molto più ambiziosi rispetto a quelli visti fino ad allora e soprattutto a dare a questo mezzo di comunicazione e intrattenimento primi e importanti segnali di maturità.
PlayStation fu infatti sinonimo di “fenomeno di massa” e di “grandi produzioni popolari”, in grado di portare il gioco digitale a uno stadio di sviluppo davvero inedito. Questo portò a molti fenomeni, non ultimo quello di un merchandise molto aggressivo, fra action figure, accessori, capi d’abbigliamento. Ma se fino a poco prima quello del merchandise era semplicemente un fattore con l’obiettivo di massimizzare le vendite di un prodotto (pensiamo a un pupazzo di Super Mario), in questa nuova fase si preparava a poter diventare qualcosa di più: una possibilità di espandere ulteriormente il narrato dell’opera videoludica.
Di fatto, non c’è periodo migliore di quello coincidente con l’uscita di PlayStation per inaugurare i primi passi del cosiddetto “transmedia storytelling”, ovvero la possibilità di creare veri e propri universi espansi legati a un’opera principale e spalmati in altre narrazioni, dal fumetto al romanzo, dall’anime al prodotto cinematografico da sala. Una strategia narrativa e commerciale già utilizzata da anni dal cinema (pensate a Star Wars e alla miriade di prodotti a esso collegati) ma che il videogioco non mancò di riprendere anche sulla spinta di esempi di successo come The Matrix.
Data la loro ambizione e complessità ludonarrativa, i giochi della “generazione PlayStation” (molti dei quali presenti anche su PC, ma trasposti efficacemente sulla console Sony) avevano la spiccata attitudine a iniziare a presentare storie complesse, che potevano avere sfaccettature degne di essere utilizzate come aggancio per universi espansi. Tanti gli esempi: pensiamo a Resident Evil o Metal Gear Solid, nei quali l’azione di gioco si fonda su premesse narrative stratificate e affatto banali come l’esplosione di un’epidemia zombie o l’attacco terroristico a una base dell’esercito americano.
In entrambi i casi, la mole di informazioni da mettere in campo per introdurre al meglio le storie da giocare era enorme, soprattutto perché il 3D e le animazioni permettevano di raggiungere praticamente la para-cinematografia e di inserire in game un’ambientazione estremamente dettagliata e, per questo, con un comparto narrativo che poteva non esaurirsi nelle poche ore di gioco.
E cosa voleva dire questo, per i publisher?
Semplice: altre entrate.
I riferimenti a Metal Gear Solid e Resident Evil non sono assolutamente secondari: fra le grandi saghe iniziatrici del modus operandi transmediale troviamo proprio loro due, con serie di romanzi e una di fumetti per entrambe.
Nel caso di Resident Evil (di cui abbiamo analizzato l’esperienza cinematografica qualche settimana fa), in particolare, possiamo vedere come l’espansione del videogioco verso l’editoria cartacea non sia stato un passo successivo, bensì una scelta espressiva praticamente complementare all’uscita del gioco, con un comic book della Marvel rilasciato come extra della prima versione del titolo nel 1997 e una serie mensile nel 1998. Uno sbarco pressoché istantaneo, che mostra come gli attori sul mercato abbiano già in tempi non sospetti abbracciato l’idea delle trasposizioni cartacee.
Quanto a Metal Gear, va detto che il caso della saga di Hideo Kojima fu addirittura precedente a quella gen, con alcune novelization di successo nel 1988 e addirittura una linea di gamebook in quel periodo, scelta espressiva ante-litteram forse dovuta al carico narrativo di tutto rispetto della prima avventura di Solid Snake.
Due esempi che ovviamente non sono stati i primi, e non furono gli ultimi; basta un rapido giro su Wikipedia per osservare come la “generazione PlayStation” abbia partorito trasposizioni paraletterarie di praticamente ognuno dei suoi esponenti, da Tekken a Silent Hill, a Crash, e poco importa se molte di queste trasposizioni siano state portate sul mercato solo a generazione superata (è il caso di Silent Hill o MGS): il fatto che dal 2000 siano usciti tantissimi prodotti editoriali basati su videogiochi PlayStation è sintomo di quale peso abbia avuto la primissima incarnazione delle console Sony nella storia della transmedialità.
Discorso analogo vale per le a volte famigerate (soprattutto in quegli anni) trasposizioni cinematografiche di classici di quel periodo, a cominciare ancora una volta da Resident Evil e da un altro classico, Tomb Raider (uscito su PlayStation nel 1996 a poche settimane dalla versione PC) arrivati solo anni dopo sul grande schermo. Certo in questo caso parlare di “transmedialità” è fuori luogo, ma è fuori di dubbio che la generazione di giochi nati anche su PS1 sia stata in assoluto quella con più trasposizioni cinematografiche (e forse più di peso). Una rincorsa alla trasposizione filmica che se da una parte suggeriva che il videogioco era ormai ritenuto un medium degno di attenzione da parte di Hollywood, dall’altra aveva anche il demerito di portare molti sviluppatori a voler costruire prodotti a volte tanto ancorati al concetto di narrativa digitale da sacrificare il gameplay (ma questa è un’altra storia).
Interessante è poi vedere cosa stesse accadendo in quegli stessi anni in Giappone, dove non solo la transmedialità ebbe una forza assolutamente pari a quella del “fronte occidentale” ma, se possibile, ancora maggiore: in una società da sempre contraddistinta da una fortissima funzione culturale del manga, non mancarono affatto esempi di trasposizioni particolari, come per esempio un manga interamente dedicato al già citato Crash Bandicoot (all’epoca fiera esclusiva Sony). Sempre dal Giappone, arrivavano poi casi straordinari e testimoni della straordinaria fortuna pop di alcune serie, come Metal Gear Solid, che nel 1998-99 ebbe una trasposizione in radiodramma sull’emittente Nippon Cultural Broadcasting che dava un seguito agli eventi di Shadow Moses. Una modalità di racconto particolare, non più nel mainstream (almeno fino all’avvento recente dei podcast).
Una cosa è sicura, guardando questi esempi: fin alla nascita della prima, grande console popolare, le major capirono che i confini fra un medium e l’altro erano destinati a essere superati e aggirati.
E quest’attenzione agli altri media, in particolare al cinema, è confermata da un campo espressivo di cui PlayStation si fece particolare paladina, con grandi risultati che facevano l’occhiolino proprio al cinema: la comunicazione pubblicitaria.
Mentre il videogioco su console Sony andava verso una già citata impostazione narrativa estremamente cinematografica, il colosso nipponico non sottovalutava la necessità di attingere dalle più moderne tecniche cinematografiche anche per quel che riguardava la comunicazione visiva, in anni in cui il settore pubblicitario stava letteralmente esplodendo.
Gli anni ’90 furono infatti il momento della concretizzazione un modo di far pubblicità d’autore già emerso nel decennio precedente, con grandi registi che al lavoro su spot televisivi che fecero la storia di questo settore, come Ridley Scott e il suo “1984”, prodotto per presentare il Macintosh. Un periodo di grande ricchezza espressiva, in cui il linguaggio pubblicitario non aveva paura di contaminarsi con quello del cortometraggio d’autore e di un suo cugino nato da poco ma già importantissimo, il videoclip musicale, utilizzando tecniche all’avanguardia per stupire e coinvolgere gli spettatori.
PlayStation si inserì alla perfezione in questo contesto, attraverso una serie di commercials che andavano oltre i trend imposti da Nintendo o Sega: fin dagli spot di lancio della console, la promozione Sony fu provocatoria, giocò con registri visivi allucinati che quasi nulla avevano a che vedere con la materia trattata (il videogioco) e persino col target tradizionale delle console, andando a rivolgersi direttamente a una nicchia di ragazzi e giovani adulti.
La comunicazione Sony pescava dal cinema puro, giocava sul registro dell’assurdo e dell’irreale, costruiva percorsi metatestuali che andavano “oltre”. Il videogioco, visto fino ad allora come qualcosa di “immaturo” al punto da essere posto sotto stretta sorveglianza da critici e specialisti, era trattato da PlayStation come qualcosa “di costume”, una pratica sociale in grado di coinvolgere gli adulti. Una pratica che, infine, rideva degli stessi pregiudizi sul videogioco.
Si trattava di un processo di comunicazione estremamente “d’azzardo”, che verrà completato all’avvento di PlayStation 2 attraverso il coinvolgimento nella promozione di una firma illustre come quella di David Lynch.
Cosa rimane oggi di quell’epoca, così proiettata verso un 2000 che appariva come la splendida realizzazione di una lucente e vera modernità e così pronta a fare di PlayStation una sua protagonista?
Senza dubbio, un inizio coraggioso di una straordinaria epopea, non solo per la Sony, e neanche solo per il videogioco, ma per l’intrattenimento tutto: se mettiamo la storia di PlayStation e delle sue innovazioni-anche transmediali-in un quadro di insieme con altre innovazioni del linguaggio narrativo (Matrix e la sua intuizione di utilizzare il web come luogo di promozione, o la nascita della serialità televisiva contemporanea con X-Files), ci rendiamo conto che Sony riuscì nella straordinaria impresa nel recepire quanto importante fosse pensare il videogioco come parte di un sistema (mass)mediatico contemporaneo e al contempo a ispirare le altre arti.
Era certo una transmedialità ancora acerba, non ottimale, basata su dei presupposti non ancora maturi e inconsapevoli, ma già proiettata in avanti, verso un’epoca in cui l’audiovisivo e l’interattività sarebbero divenuti centrali.
This post was published on 2 Febbraio 2022 14:00
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