Il mese scorso mi trovavo in una sala di un cinema di Roma a vedere l’ultima pellicola della serie 007: No Time To Die. Più i minuti passavano, tra una peripezia e l’altra del buon vecchio James Bond, più il film mi strappava un sorriso. Non tanto (o non solo) per la piacevolezza del film in sé, quanto per il disvelamento del suo nucleo narrativo, che ruota attorno alla minaccia rappresentata dal “progetto Heracles”, lo sviluppo di un virus intelligente, in grado di essere programmato per colpire solo specifici individui, identificabili tramite sequenze di DNA.
Il mio divertimento derivava dal fatto che questa storia non mi era affatto nuova: l’avevo già vissuta negli anni ’90, non da spettatore bensì da protagonista. Avevo vestito i panni di Gabe Logan, agente segreto incaricato di sconfiggere la stessa identica minaccia; avevo giocato a Syphon Filter.
Serie storica di PlayStation, passata poi alle console portatili di Sony e quindi sparita dai radar, Syphon Filter è stata il trampolino di lancio di Eidetic, software house passata per varie fasi evolutive, la cui attuale incarnazione è rappresentata da Bend Studio, developer di Days Gone ed attualmente al lavoro su una misteriosa IP non ancora annunciata. Incrociando le dita per un possibile approdo di Syphon Filter su next-gen, mi sono divertito a ripercorrere la storia dello studio, su cui raramente si puntano i riflettori. Sony stessa più sovente incensa studi interni più rinomati quali Naughty Dogs o Santa Monica. Bend Studio ha però tanto da raccontare.
Basti pensare che, nel corso della sua storia, ha programmato per una varietà di piattaforme differenti, fisse e portatili, sviluppando giochi dei generi più disparati e cambiando nome ed assetto per ben 3 volte, ridefinendo i propri obbiettivi e scommettendo su progetti talvolta di grande successo, talaltra completamente fallimentari. La storia di Bend è, inevitabilmente, la storia del suo rapporto con la casa madre Sony: un rapporto di odio e amore, che a fasi alterne è risultato sia sinergico sia castrante. Ma andiamo con ordine.
La storia di Eidetic è legata a quella di due uomini, suoi fondatori: Marc Blank e Michael Berlyn. Negli anni ’80 entrambi sono dipendenti di Infocom, azienda produttrice di avventure testuali tra cui la nota serie Zork (di cui fu artefice lo stesso Blank, adattando la primigenia versione del gioco che aveva programmato per il mainframe PDP-10 all’epoca dei suoi anni di studente presso il prestigioso MIT di Boston), ispirata al leggendario Colossal Cave Adventure, gioco testuale del 1976 che funse da apripista per l’intero genere e sue evoluzioni.
I due lasciano Infocom in tempi e per motivi differenti (Blank, divenuto vicepresidente della compagnia, lamentava di non aver più tempo di dedicarsi alla parte creativa del lavoro; Berlyn invece era insoddisfatto dalla politica aziendale di non assumere consorti dei propri dipendenti, il che impediva l’ingresso di sua moglie nella compagnia) ed hanno vicende lavorative separate fino a che, nel 1992, decidono di riunirsi e tentare l’avventura imprenditoriale in proprio fondando la Blank, Berlyn and Co.
I primi tentativi della neonata compagnia si orientano alla produzione di giochi finalmente dotati di interfaccia grafica, seppur minimale. La piattaforma di destinazione di queste prime opere è infatti Apple Newton, la famiglia di computer palmari prodotti da Apple tra il 1993 e il 1997, una stagione di breve durata che non si ripresentò fino a molti anni dopo, con la nascita di iPod Touch e iPhone. Ma Blank e Berlyn in quel momento ci credono, il dispositivo presentato da Apple rappresenta il futuro: un computer in un palmo di mano è qualcosa di fantascientifico, e sembra la piattaforma ideale su cui videogiocare.
Come? Vendendo giochi installati nel supporto PC Card (una grossa cartuccia di memoria esterna) e trasformando così Apple Newton in una sorta di Game Boy; più grande ed ingombrante, certo, ma si tratta pur sempre di un dispositivo infinitamente più avanzato della semplice handheld console di Nintendo; lo si può immaginare come una console per adulti, un dispositivo che permetta anche ai professionisti di rilassarsi con qualche partita ai videogiochi tra un impegno di lavoro e un altro. Il primo gioco rilasciato dal duo è Columbo’s Mystery Capers, che esce sul mercato nell’ottobre del 1993.
È un gioco “investigativo” a schermate fisse, in cui il giocatore è chiamato ad ispezionare la scena di un crimine alla ricerca di indizi che permettano di ricostruire i fatti ed incastrare il colpevole. Ci sono 40 casi da risolvere, di difficoltà variabile, che richiedono “…dai 5 ai 15 minuti a caso per essere risolti, a seconda delle vostre abilità investigative” (fonte). L’impostazione tradisce la deformazione professionale dei suoi creatori, che non si discostano più di tanto da quell’approccio ragionato e statico tipico delle avventure testuali che da sempre Blank e Berlyn sono abituati a concepire e scrivere. Insomma il titolo non è nulla di clamoroso ma funziona, il publisher StarCore (di proprietà della stessa Apple) è soddisfatto e la compagnia può continuare con un progetto più ambizioso, un gioco di simulazione sportiva.
Russ Wetmore, programmatore che ha appena terminato 7 anni di lavoro in Apple ed è noto nell’ambiente videoludico per aver creato Preppie! II (un gioco d’avventura a labirinti zeppi di ostacoli e rane assassine), fa il suo ingresso in azienda, che inizia lo sviluppo di Live Action Football, rilasciato nel 1994 e pubblicizzato in pompa magna sulle riviste di settore.
Il titolo è molto curioso, visto con gli occhi di oggi: non è una simulazione in tempo reale, non si ha il controllo diretto dei giocatori e la partita stessa non è rappresentata in computer graphic. Lo si può quasi considerare uno strategico di ambientazione sportiva: lo svolgimento della partita è scomposto in singole azioni; il giocatore sceglie di volta in volta la manovra che la squadra deve intraprendere, e il gioco ne mostra l’esito tramite sequenze in live action, girate dal vero con giocatori professionisti; a questo punto il giocatore sceglie la prossima manovra e così via.
L’espediente non è nuovo in ambito videoludico: l’inserimento di sequenze full motion video esiste già dagli anni ’80, epoca dei pionieristici esperimenti di Dragon’s Lair, e continuano a comparire saltuariamente per tutti gli anni ’90 (il filmato di apertura di Resident Evil è ancora nella memoria di molti di noi). Tuttavia l’utilizzo di tale tecnica in un titolo sportivo è inusuale, e contribuisce ad accendere i riflettori sul prodotto, creando una discreta cassa di risonanza attorno ad esso.
Lo sviluppo del titolo è reso possibile, oltre che dalla buona nomea della compagnia, anche dalla decisione di investire nel progetto da parte di Accolade, developer e publisher di grande importanza per tutti gli anni ’90 (sarà poi acquisita da Infogrames nel 1999). Mike Berlyn aveva lavorato ad Accolade appena prima di fondare la sua compagnia con Blank, e durante la sua permanenza presso l’azienda californiana era stato autore di un titolo di buon successo, Bubsy in: Claws Encounters of the Furred Kind, pubblicato nel ’93 su SNES e Genesis. C’è quindi un rapporto di fiducia reciproca tra Berlyn e Accolade, che decide di assecondare il bizzarro progetto finanziando le riprese video necessarie per l’implementazione in game. Per 4 giorni vengono filmate azioni realistiche, simulate da giocatori professionisti appartenenti all’Arena Football League americana, sotto la supervisione del coach Perry Moss.
Lo script consisteva di dozzine di pagine di accurate descrizioni di azioni e di inquadrature, e dei differenti esiti di cui avevamo bisogno. È giusto dire che i giocatori non erano felici alla fine delle riprese. Inscenarono tra le 150 e le 200 azioni ogni giorno, ovvero circa due intere partite al giorno, per 4 giorni di fila. Inquadrando ogni singola azione da angolazioni differenti, ci siamo assicurati diverse possibilità di presentare le stesse in più modi.
Mark Blank intervistato da Arnie Katz per Electronic Games – 1994 N°11
Il gioco viene programmato tramite ScriptX, un ambiente di sviluppo multipiattaforma creato da Kaleida Labs nel 1990, che consente di realizzare software eseguibili sia in ambienti MacOS che Windows. Malgrado tutti gli sforzi profusi, l’accoglienza critica è ben poco lusinghiera: il gioco viene giudicato poco appassionante, la resa visiva delle sequenze filmate è di qualità scarsa a causa della compressione, e in definitiva la filosofia di game design alla base del gioco non riesce a renderlo divertente. La fredda accoglienza sfiora il dileggio, come evidente dalla video recensione d’epoca proposta qui sotto, realizzata da Interactive Entertainment, un magazine americano venduto in formato CD-ROM (la quale, tra parentesi, è la più antica forma di video recensione che abbia mai visto!).
malgrado le bastonate critiche, comunque, l’azienda rimane florida e ambiziosa. Nel 1995 Blank e Berlyn danno alle stampe All-Star Baseball (copia carbone del titolo precedente ma appunto di ambito baseball) e cambiano il nome della compagnia: nasce Eidetic, il cui primo progetto è la realizzazione di un gioco interamente in grafica tridimensionale. I due fondatori sono finalmente decisi a fare il salto di qualità, vogliono sviluppare un grande gioco, che sfrutti le tre dimensioni in tutta la loro potenzialità e che sia della massima qualità possibile, magari facendo leva su un personaggio già esistente, per assicurarsi il riscontro di pubblico. Ed è allora che Berlyn si ricorda di Bubsy, protagonista del gioco che aveva sviluppato qualche anno prima per Accolade. Il personaggio è mediamente conosciuto (sono stati realizzati due sequel dopo il capostipite, oltre che una serie animata) ma ancora non è riuscito a “fare il botto”: quale occasione migliore per trasformarlo in icona videoludica, che renderlo protagonista di un pionieristico platform 3D?
La compagnia promuove a capo programmatore Christopher Reese (già programmatore dei due giochi sportivi precedenti) con una squadra di 4 juniors; Michael Berlyn è invece il lead designer, con altri 3 sottoposti, mentre Mike Blank fa da produttore esecutivo. Complessivamente dunque lo sviluppo di Bubsy 3D è in mano ad una decina di persone, armate di tanta buona volontà ma di scarse competenze in ambito tridimensionale. La sfida si prospetta ardua, specie in virtù degli obiettivi ambiziosissimi che lo studio si prefigge: 16 livelli, ognuno con una superficie di oltre 10 acri (40.000 metri quadrati); boss fights variegate, modalità di gioco plurime; molteplici finali; collezionabili nascosti; possibilità di saltare e nuotare; grafica di alto livello.
La strada è tutta in salita, tanto più che lo studio, sempre supportato da Accolade, ha deciso che svilupperà il titolo per la neonata console di Sony: Bubsy 3D debutterà su PlayStation, con un porting già pianificato su Sega Saturn. È la prima volta che Eidetic si cimenta con lo sviluppo per console, un altro tuffo nell’ignoto. Sul sito della compagnia si leggono proclami roboanti: “Il gameplay di Bubsy 3D non sarà simile a null’altro che abbiate provato finora. Più di qualsiasi altro videogioco, Bubsy 3D ricrea il feeling e il look dei classici cartoni animati, con te al comando! Perchè guardare un cartone animato quando puoi giocarne uno?” (fonte).
Ed in effetti il gioco non è privo di meriti: ha una profondità di campo notevole, la grafica è renderizzata in alta risoluzione per gli standard console del periodo, e le animazioni del protagonista sono particolarmente curate (supervisiona le animazioni, non accreditato, l’animatore della Warner Bros. Chuck Jones).
Va aggiunto poi che all’epoca non ci sono precedenti a cui ispirarsi, la videoludica 3D è agli albori, ed ogni developer naviga a vista, adottando soluzioni variegate senza alcuna certezza circa l’esito finale. A causa delle difficoltà di programmazione, però, il team deve anche accettare dei compromessi, ad esempio ricorrere al flat shading (cioè adottare un’unica illuminazione uniforme per ciascun poligono, con il risultato di “piattezza” conseguente) al posto della texturizzazione dei poligoni, riservata ai soli personaggi. Il sistema di controllo inoltre è semplicemente terribile (parlo per esperienza, avendo provato il gioco in prima persona): legnoso e poco responsivo, piagato da input lag e da movimenti inerziali imprevedibili, fa rimpiangere i tank controls del primo Tomb Raider, il che è tutto dire.
Eidetic vi lavora per oltre un anno e mezzo, la data di pubblicazione si avvicina e nessuno è davvero soddisfatto del risultato. Le dichiarazioni di Marc Blank alla stampa, piuttosto che risultare incoraggianti, danno l’idea dei salti mortali compiuti per riuscire a portare a termine il lavoro: “Abbiamo usato poligoni flat shaded e unshaded, sprites, poligoni con Gouraud shading [un sistema di shading più avanzato che fa uso di interpolazione bilineare, ndr] texturizzati e non. Ne abbiamo tralasciato qualcuno?” (fonte). Ma la mazzata piscologica più grande arriva quando Michael Berlyn si trova al Consumer Electronics Show di Las Vegas per presentare il gioco.
Io e il mio socio andammo per dare una mano ad Accolade a presentare Bubsy. Si presentava bene pur essendo ancora in fase beta. (…) Me ne andai a zonzo per l’area Nintendo (…) vidi Mario [Mario 64, che sarebbe stato pubblicato di lì a poco, ndr] e mi dissi: “È finita. Torniamo alla progettazione”. Dissi al mio socio di andare a dare un’occhiata anche lui e poi tornare da me. Lo fece, e io dissi: “Non possiamo venderlo. Semplicemente non possiamo”. E lui: “Accolade ci ha dato un sacco di soldi per svilupparlo, che facciamo?”. Risposi: “Torneremo indietro e faremo il meglio che possiamo con ciò che abbiamo a disposizione, con tutti i limiti che abbiamo”. E così facemmo, ma fu davvero una doccia fredda quando vidi Mario 64.
Michael Berlyn intervistato da Josh Wirtanen per Retrovolve – 1 dicembre 2015
Bubsy 3D è pubblicato in Nord America il 25 novembre 1996, arriverà in Europa nell’agosto del 1997. È un flop tremendo, tanto che il port per Saturn sarà prima posticipato e poi cancellato. Col senno di poi, vanno riconosciute le buone intenzioni dell’azienda, che ha peccato d’ingenuità o di troppa ambizione nel ritenere possibile realizzare un progetto di così ampio respiro senza le competenze necessarie. A difesa di Eidetic va poi detto che i pochi aspetti positivi presenti sono passati inosservati, a causa di altre due uscite videoludiche concomitanti: il già citato Mario 64, uscito a giugno dello stesso anno, e ancor più Crash Bandicoot, uscito a settembre, divenuto istantaneamente una killer application per PlayStation, che ha quindi adombrato totalmente la fatica del team di Blank e Berlyn. Sony trova la sua mascotte, e lo sfortunato Bubsy sparisce per sempre dai radar.
Eidetic se non altro ha la fortuna di resistere bene agli urti del mercato. Bubsy 3D È il secondo flop a cui va incontro, ma nemmeno questo provoca uno sconquassamento nell’azienda. Certo, il team ha lavorato sodo con l’illusione di un successo e deve ingoiare il rospo del fallimento, ma quello che sarebbe accaduto in altre circostanze, ovvero la bancarotta dello studio con conseguente chiusura e diaspora dei dipendenti, non avviene. Anzi, avviene l’esatto opposto: Sony contatta Eidetic e gli propone di sviluppare una IP originale! A spiegarne le ragioni è John Garvin, oggi Creative Director dello studio:
La ragione per la quale Sony venne da noi e ci propose il progetto fu proprio Bubsy. Tutto partì da una sinossi di una pagina che Sony presentò al nostro studio. Si trattava di un thriller spionistico, poiché era appena uscito GoldenEye [pubblicato su Nintendo 64 nel 1997, ndr] e fu un grande successo, e loro volevano creare una sorta di “risposta di PlayStation” a quel tipo di gioco.
John Garvin intervistato da Colin Moriarty per IGN – 19 gennaio 2012
Con Naughty Dog lanciatissima grazie a Crash Bandicoot, Sony la mette subito al lavoro su un sequel. Ciò significa che in quel momento non ci sono altri studi con esperienza pregressa di sviluppo di giochi totalmente 3D per la loro console. Nessuno tranne Eidetic: il loro gioco ha floppato, è vero, ma il team si è espanso, è già formato e pronto a sviluppare per PlayStation. L’ardire di Blank e Berlyn comincia finalmente a dare i suoi frutti.
Ironicamente, questo è proprio il momento che segna la separazione tra i due fondatori. Michael Berlyn infatti decide di lasciare la compagnia, esausto per il troppo lavoro e la tematica del nuovo gioco proposto da Sony: “Quello che volevo fare era creare prodotti divertenti ed esperienze che fossero divertenti per le persone. Non mi interessavano i temi dell’olocausto nucleare, dello sparare alle suore o del fare a pezzi bambini. Non era roba per me. Non era una questione di sensibilità religiosa, né di etica o morale: semplicemente non era il mio” (fonte). Uscito di scena Berlyn, Blank continua a dirigere lo studio verso la sua prossima avventura: nasce Syphon Filter.
È un producer di 989 Studios – divisione di Sony Computer Entertainment America – a presentare il concept del gioco a Eidetic. John Garvin, incaricato di svilupparlo in uno script fatto e finito assieme a Richard Ham, ricorda come il progetto fosse in prima battuta piuttosto fumoso:
Non c’era una trama, non c’erano personaggi, non c’era una storia; c’era solo un’idea di massima riguardo setting, meccaniche e gameplay. Fin dall’inizio sarebbe dovuto essere un gioco “stealth action” (in un’epoca in cui non esisteva un genere di riferimento in tal senso) con un focus sulle armi, i gadget e l’infiltrazione. Il nostro obbiettivo era far sentire il giocatore una super spia. Il nostro Lead Designer [Richard Ham] fu parecchio influenzato da GoldenEye di Nintendo, probabilmente il gioco più simile a Syphon che si potesse trovare in giro all’epoca.
John Garvin intervistato da Sid Shuman per PlayStation Blog – 25 ottobre 2012
Richard Ham ricorda invece che un’idea primigenia ci fosse, ma si trattasse di qualcosa di assai distante dal gioco finale, una sorta di fantascienza distopica ambientata 200 anni nel futuro. L’impresa tanto per cambiare si preannuncia difficile, a partire dal significato del titolo, che è un mistero per tutti! Nessuno sa che senso dargli fino a che Garvin ha l’idea di utilizzarlo come “nome in codice per un terribile virus “programmabile”. Niente di tutto ciò era nuovo, film e fantascienza avevano già esplorato questi temi, ma per i videogiochi si trattava di una novità” (ibid). Da qui si prendono le mosse per sviluppare una trama che, vissuta oggi, dà la forte impressione di essere un calderone di stereotipi dei film di spionaggio, mischiati al machismo del cinema d’azione americano. All’epoca però davvero non si era ancora visto nulla di simile, soprattutto su console, con le uniche eccezioni del già citato GoldenEye uscito nel 1997 e di Metal Gear Solid uscito nel 1998.
Entrambi questi titoli avevano avuto il merito di adottare un approccio più realistico e adulto nella messinscena videoludica, contrariamente alla comune vulgata che vuole il medium destinato ad un pubblico infantile e/o adolescenziale. Garvin e Ham decidono che è quella la strada giusta da perseguire nella scrittura del gioco: innestare la trama nel mondo reale, adottare un setting cupo, imbastire un’azione di gioco violenta ed allo stesso tempo stuzzicare il giocatore con una sfida tattica basata talvolta sul non farsi scoprire, talaltra sul disinnescare bombe in missioni a tempo, o ancora articolare i livelli in più fasi con obiettivi multipli, dagli esiti inaspettati.
Tutto questo, ovviamente, da realizzare con un pugno di programmatori. Non ci sono più di 12-13 persone al lavoro su Syphon Filter, e con un budget non astronomico, tanto che il team lavora in crunch per oltre un anno nel tentativo di rispettare le scadenze di consegna. Il publisher si preoccupa per il ritardo accumulato, inizia a valutare di ridimensionare il progetto. Richard Ham allora vola a mostrare un prototipo del gioco a Kelly Flock, allora presidente di 989 Studios. Fortunatamente il responso è positivo: “Andò piuttosto bene perché ottenemmo un posticipo della scadenza e addirittura un ampliamento del budget e fummo così in grado di terminare il gioco” (fonte: video qui sotto).
Il bello di scavare nella storia videoludica è trovare aneddoti curiosi, che fanno capire come la genialità di questa o quella meccanica sia spesso il risultato combinatorio di un solido lavoro di squadra. I ruoli nel team di Eidetic sono ben definiti, ciò non toglie che le opinioni e i suggerimenti di tutti siano presi in considerazione per migliorare il risultato finale. Darren Yager, produttore associato di 989, è un ottimo esempio: è lui ad avere l’intuizione di introdurre una variabile nella precisione della mira assistita, suggerendo ai programmatori di renderla più imprecisa quando Logan spara in posizione eretta, e al contrario più efficace quando fa fuoco da accovacciato: “Oggigiorno è una nozione che si dà per scontata, ma all’epoca semplicemente non esisteva. L’ha praticamente inventata lui!” ricorda Ham (ibid). Oppure Connie Booth, produttrice esecutiva, che accolse la proposta di Ham e Garvin di dirottare la storia in ambito di agenti segreti perché lei stessa coltivava il sogno giovanile di lavorare nella CIA o nell’FBI.
Ci sono altre intuizioni particolarmente felici, che sono rimaste distintive della serie; ad esempio l’utilizzo del taser: l’impostazione realistica del gioco fa sì che le munizioni siano limitate. Occorre quindi immaginare un’arma che possa essere utilizzata come ultima risorsa, nel caso in cui si rimanga a corto di proiettili. I designer provano ad inserire un coltello da combattimento, ma non riescono ad implementarlo in modo soddisfacente (avranno successo nel sequel). Adottano quindi la soluzione del taser, che può addirittura dare fuoco al nemico agganciato se lo si fulmina per parecchi secondi. Personalmente lo ricordo come l’arma che più mi divertivo ad utilizzare, perché era assolutamente inedita per i tempi, ed è rimasta un marchio di fabbrica della serie.
Un’altra ragione del successo del gioco è a mio parere da ricercare nella costante sensazione di pericolo che il gioco suscita: Logan ha tante armi a disposizione ma non è un superuomo; il giubbotto antiproiettile regge solo pochi colpi, ed una volta consumato bastano un paio di colpi ad ucciderci. Oltre a ciò lo spawn dei nemici è imprevedibile, e non è raro che mentre si è impegnati a mirare un avversario davanti a noi, se ne materializzi magicamente un altro alle nostre spalle. Si tratta di una precisa scelta di design, spiega Ham, per obbligare il giocatore a muoversi continuamente senza potersi adagiare sugli allori. È anche, come sempre, una scelta figlia di limitazioni tecniche, in questo caso l’impossibilità di renderizzare più di 5 personaggi a schermo contemporaneamente (numero comunque cospicuo per gli standard dell’epoca).
La difficoltà del gioco dovuta a questa caratteristica viene bilanciata con l’introduzione di checkpoint al superamento di ogni singolo obbiettivo di missione, che permette di spezzettare i livelli evitando l’eventuale frustrazione di dover ricominciare daccapo la missione, come invece avviene in GoldenEye. Anche così, Syphon Filter rimane un gioco impegnativo, con alcuni degli ultimi livelli che lasciano davvero poco margine di errore (avevo 9 anni all’epoca dell’uscita e lo ricordo come l’esperienza più hardcore vissuta fino a quel momento).
Eidetic ha dato tutto quello che aveva per sviluppare il gioco. Ora rimane la grande incognita del mercato: che accoglienza sarà riservata a Syphon Filter da parte di pubblico e critica? Guardare ai fatti col senno di poi è facile, ma calarci nei panni degli sviluppatori ci aiuta a comprendere l’incertezza, la tensione di quei momenti; i precedenti illustri nel genere stealth sono quasi inesistenti, non c’è modo di prevedere come il mercato reagirà alla novità.
Il gioco viene pubblicato il 12 febbraio 1999 in Nord America e, con grande sollievo di tutti, è un successo immediato: la critica lo accoglie con sorpresa ed apprezzamento per l’originalità dell’impianto narrativo dal taglio cinematografico, la varietà di gameplay e il carisma del suo protagonista. Il pubblico lo acquista in massa, e la distribuzione in Europa (a luglio) ed in Giappone (in agosto) è altrettanto positiva. Sony ci ha visto lungo, ha scommesso sul cavallo vincente ed ha una nuova killer application per PlayStation. Lo stealth game ha un nuovo importante rappresentante che contribuisce a codificare ulteriormente il genere, aprendo la pista per future IP quali Splinter Cell o Hitman. Quella di Eidetic è stata una lunga corsa, una marcia forzata alla fine della quale è arrivata spompata e con il fiatone, ma ce l’ha finalmente fatta. Non le resta che mungere la mucca.
In totale, Eidetic realizza 7 giochi della serie Syphon Filter. Uno dopo l’altro, al ritmo di quasi uno all’anno, come una perfetta catena di montaggio che macina soldi e vendite, puntando sul sicuro. Poche innovazioni tra un titolo e l’altro, l’importante è reiterare la formula vincente. Un more of the same che, almeno per i primi 3 giochi, continua a soddisfare il pubblico (meno la critica). A realizzarli quasi sempre le stesse figure chiave, con poche variazioni nelle posizioni inferiori del team. Blank, Garvin, Ham e Reese rimangono saldi alla guida dello sviluppo di Syphon Filter 2 e 3 (in quest’ultimo viene promosso a lead designer Jeff Ross, futuro Director di Days Gone), concludendo un’ideale trilogia per PlayStation.
Forti del successo del primo gioco, con Syphon Filter 2 si punta più in grande, elaborando una trama più articolata ed aumentando la quantità di sequenze CGI, tanto che lo studio è costretto a spalmare il gioco su due CD a causa di limiti di spazio del supporto. A parte questo l’unico elemento di novità rispetto al capostipite è rappresentato dalla possibilità di giocare dei livelli impersonando la co-protagonista del gioco Lian Xing, le cui missioni si focalizzano maggiormente sulle meccaniche stealth, mentre a Gabe sono riservate le sequenze d’azione più concitate. Viene anche aggiunta una modalità deathmatch multigiocatore: piccole arene per sfide 1 contro 1 per cui ricordo affettuosamente molti pomeriggi passati ad ingaggiare mio fratello in duelli mortali. Un’aggiunta divertente ma introdotta chiaramente senza particolare inventiva.
Più interessante la vicenda produttiva del terzo episodio, che aiuta a comprendere le ragioni di un risultato finale non all’altezza dei due giochi precedenti. Va innanzitutto sottolineato che nel 2000 Sony decide di acquistare la compagnia, trasformandola in uno studio first-party: è in quest’occasione che Eidetic cessa di esistere, lasciando finalmente il posto a Bend Studio, nome scelto (poco fantasiosamente) in virtù della location dei suoi uffici a Bend, Oregon. In questo momento Blank e soci stanno lanciandosi nel prossimo grande passo della loro avventura, ovvero sviluppare il loro primo gioco per PlayStation 2, lanciata sul mercato proprio nel 2000. Ma Sony ha altri piani:
In origine stavamo lavorando ad un Syphon Filter 3 da far uscire su PlayStation 2. Il titolo sarebbe dovuto essere Syphon Filter Online. Il mio sogno era prendere Syphon Filter e combinarlo con Diablo: le stesse meccaniche e visuale di Syphon Filter, ma con mondi generati randomicamente e scenari di combattimento alla Diablo. (…) Ma Sony venne da noi dicendoci “Hei, finora non abbiamo venduto tantissime PS2 e c’è ancora un sacco di gente che gioca con PSX, potete mettere da parte il progetto Online e rielaborare gli assets per renderli compatibili con un gioco per PlayStation?” (…) Ecco spiegato perchè la narrativa di Syphon Filter 3 è così frammentaria, un’accozzaglia di tante piccole storie che hanno poco a che fare l’una con l’altra.
Richard Ham intervistato da EmuGamer – 2018
Syphon Filter 3 è quindi un capitolo di compromesso, che tutto sommato aggiunge un po’ di varietà alla formula, strutturando la narrativa di gioco a colpi di flashback che ci portano ad impersonare Gabe e i comprimari della serie in missioni ai 4 angoli del globo. La varietà di ambientazioni proposte è solo la conseguenza della struttura dislocata originariamente pensata per il progetto online, ma si rivela un aspetto positivo della produzione. Uno dei pochi in realtà. Il titolo soffre della sua natura di prodotto riadattato, non aggiunge alcuna nuova meccanica rispetto ai predecessori (eccetto qualche modalità multiplayer aggiuntiva) e finisce davvero per essere una sterile ripetizione del gameplay dei primi 2 capitoli della serie. La critica se ne accorge e non lo premia più come in passato, e il successo di pubblico è modesto, poco più di mezzo milione di copie, contro i 2.8 milioni del capostipite (fonte).
L’avventura di Bend Studio sulla prima PlayStation finisce così in sordina, e la serie vivacchierà con alterne fortune sulle console di successiva generazione, senza più tornare ai fasti primigeni.
Per qualche anno Bend Studio tenta di tenere viva la fiamma della serie, e continua a sviluppare nuovi giochi targati Syphon Filter, anche se dietro il legittimo sfruttamento del marchio è evidente la stanchezza generale dello studio, che teme di fossilizzarsi sulla sua creatura di successo e brama nuove strade da intraprendere. Nel 2004 esce Syphon Filter: Omega Strain, che incarna quell’ambizione per il gioco online di nuova generazione precedentemente castrata dalla decisione di Sony. Il problema del gioco, che ne ha decretato l’insuccesso anche a detta degli sviluppatori, risiede nella perdita d’identità del brand: il giocatore non controlla più Gabe Logan, bensì una recluta della squadra segreta da lui fondata, le cui fattezze possono essere personalizzate a piacere, prima di lanciarsi in una delle modalità multigiocatore disponibili, cooperative e competitive. Le mappe sono estese e articolate su diversi piani di altezza, gli obbiettivi sono multipli e variabili nel tempo, vi è persino una componente gdr nella progressione di esperienza e sblocco di armi e risorse aggiuntive al raggiungimento di determinati punteggi: sulla carta Omega Strain è un titolo online maturo ed al passo coi tempi.
Il gioco ha però davvero poco da spartire con il resto della serie, e da ciò si evince la volontà di Bend Studio di percorrere strade non ancora battute. Ancora una volta, tuttavia, il tentativo di emanciparsi dalla vecchia formula è ostacolato da Sony, che spinge per l’inserimento di una campagna per giocatore singolo. Questa decisione toglie tempo e risorse dal progetto principale, cosicché il risultato finale è un prodotto che non eccelle da alcun punto di vista.
Dalle parole di John Garvin traspare il disappunto per le ingerenze che l’azienda madre provoca sul risultato finale:
Siamo molto orgogliosi di Omega Strain, e siamo convinti che sia stato e sia tuttora un gioco sottovalutato e che non sia stato capito. Era stato pianificato fin dall’inizio come un gioco solamente online che avrebbe dovuto offrire un’esperienza multigiocatore co-op e competitiva; fu solo a sviluppo molto avanzato che ci venne chiesto di ficcarci dentro a forza un’esperienza single player… ma il gioco non era stato affatto concepito in tal senso. Sebbene tutto questo avesse come fine la creazione di un gioco online solido e sperimentale, non ha contemplato la creazione di un’esperienza single-player fortemente diretta e story-driven che i fan storici della serie potevano aspettarsi, e per tale ragione non andò bene quanto Syphon Filter 1 o 2 (mentre ha comunque venduto più del 3).
John Garvin intervistato da Sterling McGarvey per GameSpy – 8 giugno 2007
Ovviamente non c’è tempo di riadattare le mappe, pensate per missioni multiplayer, alla campagna singola: esse vengono prese di peso ed utilizzare anche per il single player; potete immaginare gli enormi problemi che questo comporta in termini di bilanciamento. Ulteriore problema è rappresentato dallo spawn costante dei nemici, comprensibile nel gioco online ma semplicemente seccante nella partita in singolo. Il pubblico è abituato a pensare Syphon Filter come un’avventura da giocare in solitaria, perciò all’uscita di Omega Strain è quella la modalità ad essere maggiormente attesa: si crea un errore di percezione, il titolo viene atteso come un sequel canonico della serie, con la presenza accessoria di una componente online, mentre era stato concepito per essere l’esatto opposto! Lo scoramento di pubblico e critica di fronte allo stato pietoso della campagna si traduce in recensioni non lusinghiere e vendite scarse.
Sarà a causa delle ennesime scelte ostruzionistiche di Sony, sarà per la perdita di interesse nei confronti del medium, fatto sta che dopo l’uscita del titolo Marc Blank lascia la compagnia che aveva fondato: Bend Studio rimane orfana di entrambe le figure che ne sono state gli artefici, e le redini passano totalmente in mano a John Garvin (nel ruolo di Creative Director) e Christopher Reese (Technical Director), con il sempre presente Jeff Ross nel reparto design. Anche con questo nuovo assetto il team mantiene la sua attitudine alla sperimentazione, sempre apprezzato ed incoraggiato dalla casa madre; è infatti Sony stessa, tanto per cambiare, a fare una proposta creativa allo studio: sviluppare un titolo per la neonata console portatile PSP. Nel 2006 esce Syphon Filter: Dark Mirror.
Abbandonate le velleità online come fondamento di game design (rimane come modalità extra), Dark Mirror riporta la narrativa al centro dell’interesse del gioco, con un’avventura single-player incentrata su Gabe Logan. La sfida principale dello studio consiste nell’adattare l’impianto di gioco al nuovo hardware, soprattutto dal punto di vista della mappatura dei controlli: PSP infatti è sprovvista degli stick analogici, è dotata infatti di un singolo pomello che obbliga a ripensare il sistema di mira e movimento. Inoltre la mappatura dei comandi è adattabile dal giocatore, in modo che ognuno possa trovare la configurazione che più lo aggrada. Parallelamente al titolo ne viene sviluppata una versione anche per PS2 (esce nel 2007), che offre invece la consueta mappatura a doppio stick; questa versione è però sprovvista di qualsiasi componente online: “Volevamo che alcune caratteristiche rimanessero prerogativa di PSP, e volevamo far approdare il gioco su PS2 con un prezzo contenuto che permettesse a tutti i giocatori di console domestica di poter fruire la nuova esperienza single-player“, racconta John Garvin a GameSpy.
La scelta di offrire una doppia versione del gioco si rivela vincente: chi vuole l’esperienza completa, singola e multiplayer, acquista il gioco portatile; chi non dispone di PSP può comunque godersi l’avventura in solitaria su PS2. Dark Mirror riscuote consensi molto maggiori del predecessore, tanto che il copione si ripresenta identico per il successivo episodio della serie, l’ultimo finora uscito: Syphon Filter: Logan’s Shadow è pubblicato nel 2007 su PSP (con un port su PS2 nel 2010). Si tratta di un episodio particolare, poiché Bend Studio decide di mettere la parola fine alla serie nel modo più brusco possibile: uccidendo il protagonista.
Di solito non si uccide un protagonista o un intero franchise senza che avvengano infinite discussioni in merito. All’epoca invece fu semplicemente un “Oh sì, posso scrivere uno script del genere; sì possiamo farlo” e lo facemmo, semplicemente!
John Garvin intervistato da PlayStation Access – 2019
Il gioco affina ulteriormente la formula vincente del precedente, impreziosendo il gameplay con qualche evento QTE, la possibilità di utilizzare i nemici come scudi umani (elemento mutuato dai Metal Gear) e sequenze subacquee inedite per la serie. Insomma, come era già avvenuto dieci anni prima con Bubsy, lo studio ci ha messo un po’ ad ingranare sulla nuova piattaforma, ma nel giro di pochi anni ha acquisito le competenze necessarie per sviluppare alcuni dei titoli che diventeranno tra i maggiori successi di vendite per PSP. E finalmente, non saranno più Syphon Filter.
Resistance – Fall of Man, sviluppato da Insomniac Games, fu uno dei titoli di lancio di PlayStation 3 nel 2006. Per qualche anno il brand è il riferimento degli FPS per la console Sony (almeno fino alla ribalta di Killzone 2 di Guerrilla nel 2009), perciò a Sony viene naturale pensare di realizzare un capitolo del franchise per la sua console portatile. Ancora una volta, Sony manda un’ambasciata a Bend Studio per sondare il loro interesse in merito. È l’occasione perfetta per rompere la spirale che da un decennio intrappola lo studio nella sua IP stealth, foriera di tante soddisfazioni ma anche di qualche ulcera. Contentissimi di potersi finalmente avventurare in nuovi lidi, i vertici dello studio ci tengono però a mettere le cose in chiaro, come ricorda Jeff Ross: “Immediatamente quello che facemmo fu di mettere le mani avanti dicendo “Non faremo alcun port. Faremo questo gioco, e questo gioco sarà la nostra versione di Resistance”” (fonte: il video qui sotto). Nasce Resistance: Retribution.
Per provare a Sony che fanno sul serio, i ragazzi di Bend Studio presentano una vertical slice del gioco che stanno progettando, la cui principale differenza rispetto alla controparte per console domestica è il cambio di prospettiva, dalla prima alla terza persona. Ovviamente ciò costringe a riadattare il classico sistema di mira a doppio stick, espediente cui il team è già dovuto ricorrere ai tempi dei Syphon Filter:
Abbiamo preso il sistema di mira perfezionato di Logan’s Shadow e Dark Mirror, e l’abbiamo semplificato riducendolo ad una mira assistita che riteniamo piuttosto rivoluzionario per la PSP – volevamo rendere il gioco il più accessibile, riducendo la dipendenza dall’uso dei quattro pulsanti frontali – ma allo stesso tempo, non volevamo togliere il feeling da giocatore “skillato” che un gioco come Resistance solitamente fornisce.
John Garvin intervistato da Brian Keltner per PlayStation Blog – 16 settembre 2008
Lo studio vuole però spingersi oltre alle normali meccaniche di gameplay, e decide di mettere in piedi un’inedita sinergia tra i due hardware Sony, PS3 e PSP; il risultato è la Infection Mode, un esempio piuttosto unico di interazione fisica tra dispositivi diversi, che riporta alla mente la pionieristica tecnologia Lock-on di Sonic & Knuckles. In sostanza, collegando tramite un cavo USB una PS3 che sta eseguendo Resistance 2 e una PSP che sta eseguendo Resistance: Retribution, quest’ultimo viene “infettato” sbloccando una modalità nascosta, che dota il protagonista di abilità particolari (ad esempio respirare sott’acqua, cosa che permette di accedere a porzioni della mappa normalmente precluse), armi aggiuntive, una diversa uniforme e persino elementi narrativi aggiuntivi. Va aggiunto che la Infection Mode permette di trasmettere il segnale video sullo schermo del televisore e di giocare tramite il pad console. Una volta scollegati i dispositivi, il gioco torna alla sua normale configurazione.
Ancora una volta Bend Studio coglie l’occasione per tentare strade inedite, spinta dalla continua ricerca di implementazione di meccaniche innovative. Quando lasciata libera di creare, dà spesso prova di ingegno, e questo titolo non è da meno. Quando esce sul mercato, il 17 marzo 2009, Resistance: Retribution si impone come uno dei migliori fps per PSP. E fa guadagnare allo studio il credito sufficiente per assicurarsi l’adattamento di un altro franchise fondamentale di PlayStation: Uncharted. Sony infatti sta lavorando ad una nuova console portatile, PlayStation Vita, che raggiungerà i negozi nipponici a dicembre 2011 e l’anno seguente il resto del mondo. Serve un titolo di lancio che faccia da system seller, e in quel momento l’IP di Naughty Dog è uno dei franchise di punta di PS3. Occorre farne una versione portatile, e quale team può riuscirci meglio di Bend Studio?
Ovviamente Naughty Dog non è disposta a delegare la produzione di un titolo della sua IP a cuor leggero, neanche se a farlo è uno studio competente quanto quello di Garvin e Reese. Tutto lo sviluppo avviene sotto il segno di una “supervisione collaborativa” da parte dei cagnacci, che mettono a disposizione gli assets di Uncharted 2 (il cui sviluppo procede in parallelo) e gli studi di motion capture, mentre sul versante narrativo è Amy Hemming (autrice della serie originale) a supervisionare in qualità di Story Consultant il lavoro di scrittura di John Garvin.
Malgrado tutto il materiale a disposizione, anche in termini di risorse umane (il gruppo di lavoro arriva a contare più di 50 persone, un numero inaudito per uno studio medio-piccolo quale è sempre stato Bend Studio), non tutte le ambizioni del team vengono soddisfatte. La componente multiplayer online, tanto per cambiare, è la vittima più eclatante della mannaia di Sony, dato che viene completamente eliminata (fonte). Un peccato a giudicare dalle idee innovative proposte dagli sviluppatori durante il pitch di presentazione del gioco (la documentazione è scaricabile qui). L’idea è infatti quella di creare un sistema di classifica mondiale di cacciatori di tesori, con la possibilità di collaborare e gareggiare allo stesso tempo con gli altri giocatori per scovare, identificare e collezionare antichi manufatti. Con l’aiuto della realtà aumentata sarebbe stato possibile esaminare artefatti da ogni angolazione possibile, e tramite degli espositori virtuali ogni utente avrebbe potuto allestire il suo museo virtuale, visitabile pubblicamente, dove esporre i cimeli raccolti. Addirittura si prospetta un sistema economico di compravendita dei manufatti, con possibilità di ricorrere alla vendita al mercato nero per accumulare ingenti risorse.
I programmatori implementano comunque numerose meccaniche volte all’utilizzo di tutte le peculiari caratteristiche della neonata console; in effetti Bend Studio fu uno dei primi developers ad essere messo a conoscenza del progetto PS Vita, tanto da contribuire con suggerimenti chiave al suo design definitivo (Garvin ricorda ad esempio di aver spinto fortemente per l’adozione del doppio stick analogico, in conformità alla console domestica). Ecco che i sensori di movimento e luminosità del dispositivo sono impiegati per risolvere enigmi o ripulire manufatti, mentre la superficie tattile posteriore è utilizzata per compiere acrobazie o effettuare combo nelle fasi di combattimento.
Lo sviluppo non è una passeggiata, anche perché l’hardware stesso di PS Vita sta ancora venendo ottimizzato, e lo studio lavora senza avere mai la certezza di avere tra le mani la piattaforma finale:
Tutto cambiava in continuazione. Durante il primo anno di sviluppo il nostro hardware non disponeva di stick né di pulsanti. Avevamo un solo dev kit in studio, grande come un PC. (…) Abbiamo dovuto utilizzare un controller Sixaxis ed innestarlo alla “mostro di Frankestein” sopra ad un touch pad con dei morsetti metallici. Ad un certo punto quest’unico dev kit doveva essere utilizzato a turno da oltre 15 artisti diversi. La prima tecnologia touch impiegò mesi per arrivare ad un grado di ottimizzazione tale da poter essere davvero utilizzata ai fini del gameplay. Per il reparto artistico fu molto dura perché per tutta la prima fase utilizzammo uno schermo della PSP, lo schermo OLED arrivò molto più tardi a sviluppo avanzato.
John Garvin intervistato da Matt Leone per 1Up – 10 febbraio 2012
Arrivati ancora una volta col fiato corto, i ragazzi di Bend riescono comunque a tagliare il traguardo: dopo 3 intensi anni di sviluppo, Uncharted: Golden Abyss esce in contemporanea al lancio di PS Vita, di cui diviene come previsto il system seller: “È veramente incredibile avere qualcosa di visivamente così bello su una piattaforma da gioco che puoi tenere tra le mani” (fonte). Peccato che le scarse vendite complessive della console (una stima di USGamer del 2018 parla di 16 milioni, contro gli 80 di PSP) non abbiano mai permesso a Vita ed al suo parco titoli di essere conosciuti da un ampio pubblico. L’ennesima fatica del team è destinata a rimanere confinata entro un bacino di utenza relativamente modesto (1.6 milioni di copie vendute complessivamente) dato che all’oggi non è mai stato realizzato un port per console domestiche. Ancora una volta le ambizioni di Bend Studio si realizzano solo in parte. Forse è ora di abbandonare le console portatili e tornare a quelle domestiche. Forse è ora di cavare fuori dal cilindro una nuova IP originale, dopo anni di prodotti su licenza. Forse è ora di Days Gone.
In questo lungo excursus abbiamo visto come la storia di Bend Studio sia una storia di mezze vittorie e mezze sconfitte. Le batoste più clamorose hanno in sé la scintilla che permette allo studio di rialzarsi senza sventolare bandiera bianca; e d’altra parte i successi sono spesso vittorie di Pirro, che non permettono di godersi appieno un riconoscimento tanto meritato quanto sfuggente. È anche la storia di un rapporto coniugale solido ma che si fa occasionalmente burrascoso, in cui l’impressione è che uno dei due consorti, anche nei momenti più favorevoli, guardi l’altro sempre dall’alto in basso. Il rapporto tra Sony e Bend Studio non potrebbe mai essere paritario, ovviamente, ma è chiaro che l’atteggiamento della casa madre si è mantenuto sempre meno sussiegoso verso il team rispetto a quanto fatto verso Naughty Dog o Santa Monica.
Da una parte Sony ha sempre trattato Bend Studio con considerazione, facendone lo studio di punta per le proprie console portatili e scommettendo su di esso all’epoca della prima PlayStation, accordandole una fiducia che non era affatto scontata. D’altra parte, tuttavia, gli ha impedito per 20 anni di lavorare su un progetto tutto suo (o quantomeno non l’ha incentivato in tal senso), relegando la sua reputazione a “quelli che campano di rendita su Syphon Filter” o “quelli che fanno le versioni portatili dei giochi famosi di Sony”. Eppure Bend Studio ha un’identità e ci tiene a sottolinearla, decidendo per questo di lanciarsi in una nuova scommessa: realizzare un grande, moderno action game open world per PlayStation 4, prendendo finalmente il posto che le spetta accanto ai più blasonati cugini che danno lustro alla famiglia dei PlayStation Studios.
Le idee di design su cui reggere il titolo si cristallizzano dopo il primo anno di concettualizzazione: dotare il protagonista di un veicolo iconico, una moto, con cui scorrazzare per ampi spazi naturali; e adottare un setting distopico da apocalisse zombie incentrando gli scontri sull’eliminazione di orde, con un gunplay atto ad esaltare la lotta 1 contro 100.
Va detto che il gioco è più una palestra per il team di sviluppo di quanto lo sia per il pubblico: all’epoca della sua pubblicazione nel 2019, il mercato è saturo di giochi open world, ne abbiamo visti in tutte le salse. Days Gone arriva da buon ultimo, offrendo un’esperienza non certo innovativa o sorprendente. Tutti gli elementi sono al loro posto ma non c’è nulla che faccia gridare al miracolo. Il gioco è un ottimo successo di pubblico, ma non incontra il favore della critica che, pur promuovendolo in linea generale, non vi ravvisa degli elementi sufficientemente identitari da farlo spiccare nell’oceano di offerta ludica dello stesso genere. La narrativa è diligente ma non sorprendente, le sparatorie sono soddisfacenti ma ripetitive, il mondo è grande e visivamente accattivante ma con poche “cose da fare”, e via di questo passo. Ancora un volta il solito copione: un successo di pubblico convinto ma non accompagnato da altrettanto plauso critico.
Days Gone ha venduto più di tutti i nostri altri giochi passati messi assieme. Da questo punto di vista, e da quello della creazione di una community e della risposta del pubblico, è stato un successo. Ma per quanto riguarda la critica… è stato lo Sbarco in Normandia. È stato un bagno di sangue. Io sono super orgoglioso del gioco. So, come chiunque altro, che ci sono dei difetti nel titolo. Non è un gioco perfetto ma doveva essere il primo capitolo di una serie, e si sa che il primo capitolo è sempre una testa di ponte, da lì si parte e si costruisce, migliorando quel che si deve e insistendo su ciò che funziona.
Jeff Ross citato da Andy Robinson su VGC – 11 aprile 2021
Peccato che un sequel verosimilmente non ci sarà mai: non esistono dichiarazioni ufficiali in merito ad una cancellazione, ma lo studio ha pitchato l’idea per un Days Gone 2 a Sony, che non ha mai dato il via libera per il progetto (fonte). Un anno dopo l’uscita del gioco, inoltre, sia John Garvin che Jeff Ross, due tra i più antichi dipendenti storici dello studio, ai vertici dello stesso per molti anni, nonché alla guida del progetto Days Gone, hanno lasciato la compagnia. Nessuno dei due ha espresso una correlazione tra le proprie dimissioni e l’ipotetico alt di Sony allo sviluppo del sequel, ma si dovrebbe essere davvero ingenui a non ritenere che i due fatti non siano collegati.
Una conferma di ciò è arrivata a gennaio 2022: a seguito di un tweet di felicitazioni del developer Sucker Punch nei confronti degli 8 milioni di copie vendute del suo gioco Ghost of Tsushima, Ross non ha resistito a commentare che lo stesso numero è stato totalizzato e superato da Days Gone, ma ciò non ha portato ad un riconoscimento nei confronti dell’operato di Ben Studio da parte di Sony:
Il solito destino bifronte: passare dal maggior successo della compagnia alla bocciatura del suo sequel e alle dimissioni dei suoi vertici nel giro di un anno può sembrare una sfortunata casualità. Nel caso di Bend Studio, abbiamo imparato a farci il callo.
Mike Berlyn è morto a marzo 2023.
This post was published on 31 Gennaio 2022 14:00
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