Alan Wake è tornato, evviva Alan Wake.
Uno dei giochi di genere mistery più affascinanti degli ultimi dieci anni, autoriale, bramato sia da Remedy Entertainment (suo sviluppatore) che da una fan-base affezionata a questa storia sospesa fra fiction e meta-fiction e fra scrittura, serie TV e videogioco, è tornato sotto una scocca rivista (in parte) a undici anni dal suo primo arrivo su Xbox 360.
Alan Wake meriterebbe fiumi d’inchiostro a livello di analisi di lore e storia editoriale, ma chi scrive se lo sta ancora gustando (per la prima volta, oltre tutto) e dunque reputa qualsiasi sua parola in merito davvero fuori luogo. C’è però una cosa che non riesce a non farmi piacere e sulla quale Remedy ha calcato genuinamente la mano. Una cosa che, da autore di racconti e romanzi del terrore, non può che farmi piacere: Alan Wake mi sta colpendo soprattutto parla di scrittura, e soprattutto di scrittori e di dubbi legati a questo mestiere.
Lo fa in maniera divertita, pop e genuinamente citazionista, (re)inserendo nel videogioco il topos dell’autore in crisi di ispirazione che a un certo punto inizia a impazzire e vede i mostri partoriti dalla sua mente creativa divenire orrori nella vita reale. Chi mastica il genere e in generale la letteratura sa che non è niente di nuovo, si tratta appunto un topos che proviene da molto lontano e ha la sua radice in vari autori contemporaneo. Stiamo parlando, ovviamente, di Stephen King, che su questo punto ha costruito gran parte della sua poetica, ma non solo.
E non è solo neanche Alan Wake: nella storia del videogioco, il protagonista del gioco Remedy non è il primo scrittore alle prese con grandi problemi soprannaturali.
Alan Wake, ovvero: Stephen King in vacanza a Twin Peaks
Alan Wake è probabilmente l’omaggio più sfacciato e bello mai fatto dal videogioco a King: se, come ricordavamo qualche settimana fa, le opere del maestro del terrore non sono mai state trasposte in un titolo di spessore, il gioco di Remedy ha proposto un epico tributo alla sua poetica e a uno dei suoi espedienti letterari più amati, ovvero mettere scrittori psicotici e disagiati a confronto con cose terribili che rappresentano i suoi terrori più intimi e inconfessabili.
La storia di Wake è nota: Alan è un autore di bestseller horror che si ritrova vittima del solito, terrificante blocco dello scrittore e che per combatterlo arriva nella bellissima e bucolica Bright Falls, stato di Washington, dove sua moglie Alice viene rapita da forze del male dai tratti apocalittici che lo trascinano in un vortice di terrore e folli esplorazioni notturne. È una storia in cui si intrecciano tantissimi temi di King ad altri cari a Remedy e a parte dell’intrattenimento contemporaneo.
Del primo c’è l’elemento già accennato dello scrittore in crisi che vede la sua paura più grande, il non saper più raccontare storie, divenire una forza oscura che lo assale, lo circonda e tenta letteralmente di ucciderlo. Il più grande esempio kinghiano di questa dinamica è ovviamente il Jack Torrance di Shining, ma l’elenco è lunghissimo e potrebbe proseguire con Ben Mears (protagonista del vampiresco Le Notti di Salem) e Thad Beaumont (La Metà Oscura) fino ad arrivare a Paul Sheldon (Misery non deve morire), ma la lista è davvero-troppo-lunga.
Dei secondi-da Remedy a David Lynch-nel gioco meta-narrativo di Alan Wake c’è il tentativo di mettere a nudo il più possibile la stessa meta-narrazione, quasi in maniera ironica. In Alan Wake Remedy non mette solo in scena una tipica storia di Stephen King, ma lo fa incentrandola in uno scenario à la Twin Peaks, una serie in cui Lynch ha sempre giocato con le regole dell’inganno dello spettatore, sulle aspettative, sul visto-e-non-visto. Un tributo alla serie che in pochi anni ha quasi fatto satira dei meccanismi narrativi della storia nera, facendoli tornare in luce.
Focalizzando l’attenzione solo sul suo rapporto col campo semantico dello scrittore dannato, vediamo come Alan Wake si riveli presto una sorta di grande trattazione filosofica sull’immaginazione, sul potere delle storie e su quello della meta-fiction, nella miglior tradizione kinghiana: il Cauldron Lake è infatti un’enorme centrale di energia paranormale che trasforma le invenzioni dei creativi nei suoi pressi in realtà, portandoli a un legame speciale con quel posto.
Scrittori e orrori
Pensando ad Alan Wake e al modo in cui il gioco Remedy tratta il tema della scrittura creativa, mi sono sforzato di pensare a quanti e quali siano i giochi che hanno trattato questo tema in modo così approfondito, oppure che l’abbiano incrociato in qualche modo. Di sicuro mi sono perso qualcosa, ma l’unico esempio degno di nota che mi viene in mente è Gabriel Knight, meravigliosa serie punta-e-clicca partorita da Sierra Interactive negli anni ’90 e incentrata su un aspirante scrittore di fiction a tema paranormale che nel tempo libero va a caccia di vampiri, lupi mannari e spettri come un Dylan Dog digitale.
Nel corso delle sue tre avventure, il buon Gabriel viaggia fra Europa e Stati Uniti imbattendosi in tre casi molto particolari: quello legato a una congrega Vodoo (GK 1: Sins of the Fathers), uno che ci metteva sulle tracce di un licantropo (GK 2: The Beast Within) e uno in merito a casi di vampirismo nella Francia meridionale.
È un approccio completamente diverso e più “normie” del binomio scrittore-indagatore di Remedy, che curiosamente anticipava l’impostazione di detection à-la-Dan Brown, ma partiva dallo stesso assunto: lo scrittore che diventa a sua volta parte di una storia assurda e inquietante, avendo al contempo in mano gli strumenti per affrontarla (per esempio, un’immaginazione che gli consente di accettare l’impossibile).
Se guardiamo alla letteratura o al cinema, non impiegheremmo molto tempo a trovare molti altri casi del genere. Perché gli sceneggiatori e gli scrittori hanno tanta voglia di mettere dei creativi alla prese con vampiri e altri orrori?
Non c’è una regola scritta, c’è però una considerazione da fare: per un creativo, la scrittura è spesso autoanalisi, proiezione su carta delle proprie paure, paranoie, inquietudini. Non è per esempio difficile pensare che Shining sia un grande processo di rielaborazione che King fa di sé stesso, o meglio che King fece di sé stesso quarant’anni fa (e all’epoca era alcolizzato, depresso e con una marea di problemi).
Si tratta di un processo creativo e letterario molto più profondo di quel che pensiamo, che incrocia costantemente temi biografici e meta-letteratura. In questo genere di storie elementi della vita dello scrittore come il già menzionato blocco dello scrittore o il rapporto con un editore terribile diventano ostacoli insormontabili (spesso con risvolti soprannaturali) che riflettono la psicologia “a disagio” dell’autore. Non a caso, di fatto nell’immaginario collettivo lo scrittore è divenuto quasi l’ultimo vero esempio di “artista dannato”, di “escluso” che lotta per l’affermazione.
Certo, in una dimensione più “pop” come Alan Wake l’elemento narrativo dello scrittore maledetto sembra diventare solo tributo, omaggio, utilizzo del topos in una nuova veste. Ma se invece ci raccontasse un po’ di più di uno dei mestieri chiave dell’industria videoludica?
Dagli incubi dello scrittore a quelli del game designer
Per i creativi, la vita lavorativa è costante sinonimo di dubbio, incertezza, complessità, dolore.
Vale per lo scrittore, come detto, ma anche per il pittore, il musicista o l’attore, e vale ovviamente anche per un contesto come il videogioco. Si tratta certo di un campo creativo molto più “disintermediato” e “di concerto” rispetto per esempio alla scrittura, in esso un game designer (che a volte coincide anche col lead writer di un videogioco) lavora assieme a un team fatto di figure dai background molto diversificati, è parte di un meccanismo molto più grande. Tuttavia, le difficoltà nella costruzione di un’opera sono spesso le stesse: pressioni di un editore (che poi nel gergo tutto anglofono dell’Industria altro non è che il publisher), tempi contingentati (che anche nell’industria editoriale esistono e sanno essere spietati), l’idea di vedere la propria creatività strumentalizzata e svilita.
Non sappiamo se durante la scrittura di Alan Wake Sam Lake (che lo scrisse con Mikko Rautalahti e Petri Järvilehto) avesse l’intenzione di inserire nel gioco riflessioni meta-narrative di questa portata, e probabilmente azzardarlo sarebbe ridicolo.
Tuttavia, se pensiamo alla storia editoriale del gioco stesso, con vari restart, ridimensionamenti del progetto e del gameplay (prima open-world e poi divenuto gioco “lineare ma con stile”), ci rendiamo conto di quanto la storia dell’Alan Wake-prodotto sia essa stessa una perfetta storia-parabola sulla creatività e sul rapporto creativo-opera-pubblicazione.
E la domanda che mi faccio, di fronte a tante storie di contrasti e “sfide” fra autori di videogiochi e contesti produttivi, è se vedremo mai un videogioco su uno sviluppatore di videogiochi horror che pressato da un publisher inizia a essere tormentato da qualcosa di indicibile.
Secondo me il momento arriverà, e sarà una goduria.