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Speciali

Ho giocato Kingdom Hearts III senza sapere nulla della serie e sono felice di averlo fatto

Il modo di giocare di una persona si evolve nel tempo, l’età è senza dubbio un fattore scatenante di questa modificazione che va ad alterare alcune dinamiche, ad esempio le ore spese davanti ai videogiochi e la tipologia di prodotti di cui il giocatore decide di fruire. A cambiare in modo prepotente è anche il perché si gioca, in virtù delle scelte di vita di ogni singolo utente.

Da piccolo, e per tutta l’adolescenza, il mio approccio ai videogiochi è stato poco metodico, cioè non sceglievo il titolo da provare in quel momento facendomi tante domande sui miei pregressi videoludici (non selezionavo neanche a occhi chiusi, sia chiaro), perché mi bastava giocare qualcosa di bello, punto.

Per dire, il mio primo Resident Evil è stato il terzo capitolo, Nemesis, uno dei tanti motivi per cui è stato per molto tempo il mio preferito; altresì, io ho giocato prima Dino Crisis 2, senza pormi il problema del “capire la trama”. Questo perché non avevo alcun tipo di obbligo verso chicchessia, se non verso me stesso. Con il passare degli anni, le cose sono cambiate perché, nel mentre, sono anche diventato un giornalista che scrive di videogiochi.

Ho cominciato da questo e non sono morto

Ebbene, qualche obbligo ce l’ho, anche quando in realtà non dovrei averlo. Mi spiego meglio: a volte, tendo a giocare titoli che ho acquistato solo per me stesso e non per doveri professionali (recensione, speciali, guide) come se quei doveri ci fossero, perché sono ormai entrato nella forma mentis del “critico a tutti i costi”, nonostante nessuno mi abbia chiesto nulla.

Ciò avviene perché da giornalista mi sento “sotto osservazione”, messo alla prova. Se gioco un titolo senza conoscere i capitoli precedenti o se non recupero una serie importante, mi sento in difetto poiché “chissà cosa penseranno i lettori/colleghi“. È un modo di interfacciarsi con i videogiochi che, spesso, è deleterio, non avendo come fine ultimo il divertimento, ma un voler apparire più informato, più affidabile su un dato argomento.

Spaventato dall’eventualità che un giorno i videogiochi possano darmi alla nausea per questi motivi, ho deciso di giocare Kingdom Hearts III come facevo da bambino, fregandomene altamente delle metodologie “giuste”. Io di Kingdom Hearts non so nulla (ok, il contesto, la struttura sì, non vengo da Marte), non sono mai stato un appassionato della saga Square e non l’ho mai recuperata per due motivi: il primo è la pigrizia causata, però, dal secondo motivo, cioè il fatto di essermi demoralizzato alla constatazione che i primi due KH sono solo la punta dell’iceberg. Infatti, chiunque a cui io abbia chiesto delucidazioni mi ha sempre confermato la canonicità di TUTTI i capitoli della serie, anche di quelli a prima vista insignificanti.

Anche questo è canon, dai…

Con queste premesse, mi sono avvicinato a Kingdom Hearts III senza alcuna cautela, mi ci sono buttato dentro senza remore perché ho pensato: “Ma verrò interrogato?“, “devo parlare di KH3 in un talk show?” o più banalmente “devo scrivere la recensione?“. No, e allora chi se ne frega.

Fin dai primi istanti ho riscoperto cosa significa giocare spegnendo il cervello: ho visto Pippo e Paperino combattere in un mondo fantasy in mio sostegno (e che mazzate tira Pippo, non me lo sarei mai aspettato), ho visto una navicella spaziale giocattolo imperversare nelle varie dimensioni, ho visto Pietro fare da bodyguard a Maleficent (così, senza senso), ho ascoltato la voce di Topolino, che mi fa sempre ridere, impegnata in discussioni serie e profonde, ho visto personaggi con i capelli improbabili fare cose, e mi sta bene, mi sono divertito.

La trama ho cercato di seguirla, eh, ho ovviamente visto tutte le cutscene, ho ascoltato tutti i dialoghi e qualcosa ho carpito. In verità, il messaggio che per 40 e passa ore mi è stato sbattuto in faccia, basato su cuori che battono all’unisono, l’amicizia che può risvegliare il potere supremo, l’oscurità che perde contro la luce, mi è sembrato un po’ troppo retorico, senza dubbio affascinante per giocatori di un’età media inferiore alla mia, ma ampolloso e fumoso per i più navigati. Ma va bene lo stesso, mi sono divertito.

A tratti mi sono sentito anche stupido, perché la trama scorreva davanti ai miei occhi tra cloni, incarnazioni dell’oscurità del cuore di personaggi che sono buoni o cattivi in base a come tira il vento (o il Ventus ahaha, vabbè), uomini in nero che in realtà sono incarnazioni di un tizio pelato di nome Xehanort che può viaggiare nel tempo, il quale ha creato quest’ultime portandosele dal passato, kingdom hearts da aprire, custodi del passato e signori del Keyblade, mentre un sorriso ebete solcava il mio viso, apparentemente simbolo della mia capacità di decrittazione delle linee temporali narrate nel gioco, in realtà segno tangibile di come non ci stessi capendo una fava. Eppure, lo ribadisco, mi sono divertito.

E perché mi sono divertito? Perché esplorando il mondo di Hercules sono tornato bambino per qualche istante, sono tornato anch’io indietro nel tempo come Xehanort, a quando su PS1 giocavo ai titoli della Disney, tra i quali proprio Hercules e Le avventure di Tarzan (l’ho consumato!); mi sono divertito perché ho menato centinaia di heartless con al mio fianco Woody e Buzz Lightyear, prendendo possesso di mecha giocattolo, entrando in un videogioco, Verum Rex, al grido “Verso l’infinito e oltre“.

Mi sono divertito perché a me film d’animazione come Rapunzel e Frozen non sono mai particolarmente piaciuti (no, non voglio fare machismo tossico, non mi piacciono, punto), eppure mi sono affezionato a Olaf e Flynn, ho ammirato le combo pazzesche a colpi di treccia della principessa dai capelli dorati e infiniti, ho adorato il mondo innevato della principessa di ghiaccio (nei videogiochi amo esplorare ambientazioni invernali).

Mi sono divertito perché andare all’arrembaggio con Jack Sparrow senza dover scaricare Sea of Thieves non è cosa di tutti i giorni (visto che di videogiochi di Pirati dei Caraibi fatti bene bene bene non ce sono), perché mentre ero al timone della mia nave ho pensato di aver sbagliato gioco e di aver caricato Assassin’s Creed: Black Flag, perché picchiare Davy Jones è soddisfacente.

Mi sono divertito anche a raccogliere la frutta e la verdura per Tappo, l’amico roditore di Winnie the Pooh, in una sorta di minigioco alla Puzzle Bobble, perché l’ho fatto senza sapere minimamente cosa stessi facendo.

Giocare con tutti i dati a propria disposizione è eccezionale, avere chiaro tutto il quadro narrativo di una serie è meraviglioso, ti fa godere appieno ogni singola scena, però. fatemelo dire, ogni tanto, un po’ di sana ignoranza ci vuole. Ho giocato Kingdom Hearts III senza sapere nulla della serie e sono felice di averlo fatto.

This post was published on 5 Luglio 2021 13:22

Michele Longobardi

Laureato in Lettere moderne, scopro la passione per il giornalismo quasi per caso. I videogiochi sono il mio più grande amore e così decido di coniugare le due cose. Il giornalismo videoludico diventa la mia forma finale. Per me i videogiochi sono una forma d'arte e guai a dirmi il contrario. Appassionato di tutto ciò da cui sgorga sangue: cinema horror (registi preferiti Argento e Romero), letteratura gialla e dell'orrore (autori preferiti Christie, Poe e Lovecraft) e ovviamente i videogiochi del genere (Silent Hill e Resident Evil sopra ogni cosa). Il mio videogioco preferito di sempre è Fahrenheit che ho finito un numero non precisato di volte, da lì scaturisce la mia ammirazione per tutti i lavori di David Cage. La mia "carriera" videoludica è segnata da un marchio da cui non sono mai riuscito a staccarmi: PlayStation! In circa 20 anni di gaming, ho completato più di 800 titoli.

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