Chi scrive ha da poco recensito Guilty Gear -STRIVE-.
Parliamoci chiaro: STRIVE è un giocone, uno di quelli che rischia sinceramente di scrivere un qualche capitolo della storia dei picchiaduro bidimensionali.
Rischia questo perché, per la prima volta nella storia del brand, la software house dietro tutto quel ben di dio che vediamo a schermo ha preso un grande rischio riformando le basi del gameplay.
Passare da un videogioco incentrato su sistemi di combo fluide, con infiniti approcci diversi ad una stessa apertura (ed un livello di difficoltà d’esecuzione astrale) ad un titolo che si basa maggiormente sul cosidetto gioco neutral è stato un rischio che si spera paghi.
Nella recensione, appunto, abbiamo parlato in maniera approfondita di queste caratteristiche ludiche, di come Arc System Works sia riuscita a tradurre in maniera intelligente il complicato sistema di scelte che regola l’alberatura del gioco.
Quello di cui però vogliamo parlare oggi non è tanto il gameplay quando il comparto tecnico, portando avanti una tesi molto interessante: Guilty Gear -STRIVE- magari non sarà il miglior picchiaduro di sempre, sia chiaro, ma di sicuro è una delle cose migliori che si siano mai viste a schermo secondo gli stilemi dell’animazione giapponese.
Per questo motivo la speranza è che sempre più studios prendano in esame la meraviglia visiva realizzata da Arc System Works per poi traslarla in prodotti d’animazione lontani dal cel shading animato terribile che ha infestato (e infesta) certe produzioni nipponiche.
Si potrebbe scrivere un intero articolo soltanto sulla natura storicamente problematica della terza dimensione all’interno dei prodotti animali, davvero.
Il video linkato qui sopra, realizzato dallo youtuber Gigguk, mostra diversi esempi di tridimensionalità usata in maniera negativa all’interno del contesto animato.
Guilty Gear -STRIVE- è il sesto capitolo di una saga di picchiaduro nata a cavallo tra gli anni novanta e duemila da Daisuke Ishiwatari, un disegnatore e musicista appassionato di videogiochi. Cresciuto a pane e Street Fighter il nostro trova l’occasione per lavorare all’interno di Arc System Works, all’epoca software house di supporto per diversi videogiochi realizzati da Sega, Sammy e Banpresto.
Dopo aver realizzato le illustrazioni ed aver lavorato sul comparto grafico di Exector per Playstation 1, uno pessimo sparatutto in terza persona uscito nel 1995, Arc System Works decide di dare ascolto ad un pitch di Ishiwatara per la realizzazione di un picchiaduro bidimensionale velocissimo e dal look incredibile, ispirato tanto dalla musica heavy metal che dal manga Bastard!.
Dopo un anno e mezzo di lavoro, complice il supporto di un team interno ad ASW chiamato Neo Blood, arriva sul mercato il primo capitolo di Guilty Gear.
Un videogioco fin da subito destinato ad uno sparuto numero di giocatori, velocissimo grazie ad un dinamismo fenomenale e con un gameplay molto più hardcore degli altri titoli presenti sul mercato, ormai quasi tutti consegnati alla terza dimensione (complice la grande popolarità di PlayStation in Giappone).
Guilty Gear, il primissimo capitolo della saga, già presentava uno spritework di alto livello che traslava pixel su pixel le bontà calligrafiche del design di Ishiwatara su schermo. Già da li nascono character design tutt’ora memorabili come Sold BadGuy, Ki Kiske, Potemkin, Faust e Zato-1, mischiando i soliti lottatori stereotipati con un mondo fantasy incredibilmente dettagliato, destinato ad espandersi poi in maniere incredibili.
Per più di dieci anni, dal 1998 fino al 2012/2013 Guilty Gear è stato sinonimo di infinita maestria nella grafica bidimensionale.
Gli sprite che animano i combattimenti di Guilty Gear X2 sono, tutt’oggi, alcune tra le migliori cose mai accadute al genere dei picchiaduro bidimensionali.
Complici dei problemi legali dovuti alla fusione tra Sega e Sammy (publisher legato a doppio filo con Arc System Works) ed un capitolo a dir poco divisivo come Guilty Gear Overture (una specie di MOBA single player per console, si meriterebbe un articolo a parte) il brand di Guilty Gear è rimasto dormiente per diversi anni.
È in quel momento che Arc System Works, reticente a starsene con le mani in mano, porta le sue maestranze bidimensionali all’interno di un nuovo brand chiamato BlazeBlue, molto simile a livello ludico e tematico con Guilty Gear ma legato ad una diversa personalità: quella di Toshimici Mori, un sottoposto di Ishikawara arrivato ad Arc System nel 2003.
Nel 2008 vede la luce BlazeBlue Calamity Trigger, primo videogioco del brand e ancora una volta grandissimo esempio di cosa si possa fare con moltissimo lavoro, un buon budget e degli sprite bidimensionali ad alta risoluzione.
Questo è il punto di partenza per il nostro discorso: BlazeBlue Calamity Trigger è l’inizio della fine per i picchiaduro bidimensionali classici all’interno del percorso videoludico di ASW.
A dirlo è direttamente Junya Motomura, il technical lead artist per Arc System World all’interno di uno splendido GDC talk che vi linkiamo qui sopra.
Che fai una volta che arrivi all’apice di una montagna?
Ne trovi un’altra da scalare.
Nel 2013 Arc System Works pubblica il nuovo capitolo della saga di Guilty Gear, ovvero Guilty Gear Xrd, un nuovo inizio per la serie per svariati motivi. In primis perché finalmente la maggioranza delle licenze sono tornate in mano ai rispettivi creatori, permettendo di mettere in piedi un videogioco senza doversi interfacciare con la barbosa burocrazia giapponese, in secondo luogo perché questo è il primo videogioco completamente realizzato con grafica tridimensionale.
La parte più divertente di questa affermazione è che Xrd tutto sembra meno che un picchiaduro tridimensionale. Come spiegato ampiamente nel talk di cui sopra il trucco adottato da Arc System è in realtà un nuovo metodo di lavoro.
Se in Blazeblue o Persona 4 Arena i personaggi venivano modellati in tre dimensioni per venir poi essere usati come reference per i pixel artist, qui il procedimento è più lungo ed elaborato.
Il personaggio viene modellato con l’idea di essere quanto più simile possibile ad un personaggio animato.
L’applicazione delle texture passa attraverso un lungo procedimento di texture mapping, decisamente troppo complicato (andate a vedervi il talk per saperne di più) per spiegarlo con tutti i crismi qui. L’ultimo step è invece rappresentato dall’applicazione degli shader sul modello poligonale, evitando completamente l’applicazione sul modello del personaggio delle luci che invece regolano l’ambientazione: niente global lightning insomma, in favore di un illuminazione personalizzata caso per caso.
Quest’ultima caratteristica separa bruscamente l’animazione bidimensionale da quella tridimensionale, andando ad incentivare l’anime look di Guilty Gear.
Il resto del lavoro viene fatto in sede di animazione.
Arc System Works, per incentivare ancor di più la sensazione da prodotto animato, invece di utilizzare l’interpolazione tra le pose dei moderni programmi per la gestione delle animazioni esegue una scelta coraggiosa. ASW decide di trattare le animazioni più come una serie di still images conseguenti che come normali archi di movimenti.
Questo, unito ad un buon gioco di telecamera nei momenti meno dinamici, accentua ancor di più il senso di trovarsi davanti un prodotto animato bidimensionale, complice anche la saggia scelta di seguire i crismi produttivi dell’animazione televisiva mantenendo a schermo un frame per quanti più secondi possibili senza rompere la sospensione dell’incredulità.
L’ultimo tocco è rappresentato dalle imperfezioni che vengono aggiunte manualmente per far saltare proporzioni e continuare a mantenere il look da anime bidimensionale al titolo. Questo, senza l’intervento manuale dell’animatore/modellista, non sarebbe possibile vista la tendenza alla simmetria/perfezione data dai programmi del settore.
Andando poi a scomporre le animazioni frame per frame si notano in molti casi movenze esagerate , fenomeni di warping, distorsioni prospettiche e chi più ne ha più ne metta, tutto per andare a mantenere intatta la sensazione di aver tra le mani un prodotto nato per le due dimensioni.
Tutte queste tecniche sono possibili perché, a differenza dei normali modelli poligonali, i personaggi di Guilty Gear hanno un elevato numero di ossa (termine tecnico proprio del mondo dell’animazione) animabili che possono essere distorte in base alle preferenze dell’animatore.
Siamo arrivati al 2021 e a Guilty Gear -STRIVE-.
Negli scaffali di qualche fortunato c’è anche una PlayStation 5 con cui giocare, mentre gli altri si devono arrabattare con le vecchie console o con computer più o meno performanti.
Guilty Gear -STRIVE-, rispetto al passato, non cambia la formula con cui viene creato l’impianto grafico, ma la mette al servizio di strumenti di calcolo più grandi e precisi.
Rispetto al passato c’è sicuramente un maggiore utilizzo degli sfondi poligonali, con alle volte anche elementi non sempre bellissimi per capirci, ma i personaggi risultano ancora più grandi e dettagliati.
Rispetto a Xrd e alle sue revisioni, dato anche il gameplay più lento di STRIVE, è possibile ritrovare per la prima volta dei leggeri movimenti di macchina durante alcune mosse non per forza di cose speciali.
Un po’ sottotono, al massimo, possono essere le transizioni durante gli stage che risultano quasi un po’ floaty. Questo elemento è buono per sottolineare l’identità della meccanica del wall break, legata al un reset del ritmo di gioco, ma va un po’ a stridere con il resto del comparto animazioni, molto più dinamico e capace di grande sensazione di potenza.
In questo capitolo, data anche l’assenza delle destroyer moves (le famose mosse che oneshottano gli avversari) non ci sono nemmeno esplosioni pirotecniche in grado di mettere in risalto le ambizioni cinematografiche della software house, ma è legittimo pensare che ci sia sempre tempo per inserirle, viste anche le diverse dichiarazioni sulle difficoltà pandemiche fatte dalla software house in tempi non recenti.
Quello che rimane è un gioco visivamente enorme, specie grazie alla scelta di portare a schermo dei modelli con dettagli e dimensioni gargantueschi.
Grazie a questi modelli personaggi come Leo o Nagoriyuki risultano ancora più carismatici di quanto ad un primo approccio si potrebbe pensare, complici anche idle animation ancor più esagerate di quelle viste nei precedenti capitoli.
Tutte le 1600 parole qui scritte servono ad enfatizzare un concetto: la grafica di Guilty Gear -STRIVE- ci è piaciuta da impazzire e ci ha convinto a volere qualsiasi cosa realizzata in questa maniera.
C’è però qualcosa che ci ha convinto molto meno, che non ce la siamo sentita di valutare negativamente durante la recensione perché ininfluente nei confronti della qualità del gioco
Parliamo, ovviamente, della modalità storia.
Guilty Gear -Strive- possiede una modalità storia particolare, completamente priva di gameplay e composta da quattro ore di filmati che vanno a raccontare la (parecchio) complessa trama del videogioco in questione.
Questi filmati sono realizzati con i medesimi modelli del gioco ma, complici le complicazioni della pandemia ed il focus della produzione altrove, risultano decisamente più brutti delle loro controparte ludiche. Qui tutte quante le belle parole spese sopra lasciano il tempo che trovano poiché ci si ritrova davanti ad una produzione decisamente un po’ così dal punto di vista visivo, che alle volte potrebbe far urlare al nostro caro Gigguk ancora un po’ di Bad CG.
Le motivazioni per cui la qualità produttiva della story mode sia questa possono essere molteplici: il focus del prodotto era chiaramente altrove, la pandemia di Coronavirus ha lasciato (e sta lasciando) cicatrici profonde all’interno del mondo del lavoro giapponese, non c’era fisicamente l’intenzione di fare un prodotto d’animazione all’interno di un videogioco d’altissima qualità per il prezzo a cui viene venduto etc etc.
Facciamo che al prossimo Guilty Gear riusciamo a fare tutto con la stessa qualità produttiva, ok?
Con affetto: il redattore che è riuscito a morire 15 volte contro Nagoriyuki prima di riuscirlo ad abbattere usando Faust.
This post was published on 16 Giugno 2021 14:00
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