Fra le notizie videoludico di questo strano inizio 2021, una delle più rumorose è il ritorno sulla scena di Keiichiro Toyama (Silent Hill, Siren e Gravity Rush) sulla scena con un nuovo progetto horror assieme al team fondato lo scorso anno con altri creativi, Bokeh Studio.
Un progetto ancora avvolto nel mistero, di cui sappiamo solo pochi e sparuti dettagli non ben collegati, ma che ha almeno un paio di elementi stuzzicanti: il coinvolgimento dello stesso Toyama, ovviamente, ma anche il suo ispirarsi a un’ambientazione poco utilizzata nell’horror videoludico mainstream: l’Asia.
Che a oltre dieci anni dall’ultimo Siren Toyama stia per tornare al j-horror?
In questa story, i motivi per cui sarebbe davvero una notizia interessante.
Prima di tutto, i fatti.
Attraverso una serie di news uscite fra dicembre e febbraio, sappiamo che:
Poco sappiamo di questo gioco, anche se possiamo iniziare ad annusarne l’atmosfera attraverso una serie di concept diffusi in un video dallo stesso Bokeh Studio. Da quel che possiamo vedere, il gioco di Toyama dovrebbe essere un horror o fanta-horror contraddistinto da un’ambientazione cittadina che, stando a ciò che ha affermato lo stesso game designer, si rifarebbe alle atmosfere delle città asiatiche.
Scorci claustrofobici, situazioni macabre e malsane, creature uscite fuori dai più assurdi deliri di Junji Ito (Tomie).
In mezzo, le dichiarazioni di Toyama circa la sua volontà di voler costruire un horror in cui
L’idea è di (vedere) scossa la vita quotidiana. Piuttosto che mostrare cose spaventose, dovrebbe mettere in discussione la nostra posizione, farci dubitare il fatto che viviamo pacificamente.
Un setting/mood che non solo appaiono molto diversi dai setting di Siren (in cui una cittadina è caduta preda di una terribile maledizione), di Silent Hill (stessa cosa, ma in salsa U.S.A.) e distanti anni luce da Resident Evil, ma che si avvicina soprattutto alla filosofia dell’horror giapponese.
Un genere che, pur muovendosi nella scia del canoni del racconto di paura “internazionale”, si basa su tematiche molto particolari che non sempre il videogioco nipponico è riuscito a sfruttare in maniera autonoma.
Come già detto, le informazioni sul primo “cucciolo” di Bokeh sono ancora poche. Tuttavia, con uno sforzo di immaginazione neanche troppo esoso possiamo notare che buona parte degli screen ci regalano scorci propri di film che potrebbero essere Ringu (The Ring) o Ju-On (The Grudge). Per di più, ricordiamoci che nonostante l’ambientazione U.S.A. di Silent Hill, Toyama non è nuovo all’utilizzo del Giappone come setting per storie nere: Siren e i suoi sequel erano infatti giochi costruiti attorno a un folk-horror declinato in salsa giapponese, con città fatte di case in legno affastellate l’una sull’altra o villaggi rurali sperduti nella nebbia in cui l’orrore sembra abitare nella casa accanto.
E a questo punto, veniamo al sodo: a giudizio di chi scrive, il ritorno di Toyama la genere sarebbe un’occasione molto ghiotta per i giocatori di vivere col pad in mano le atmosfere di un genere davvero affascinante e che, se qualche anno fa si era imposto come novità nell’horror cinematografico mondiale, oggi è passato di moda.
L’horror giapponese ha una storia antica fatta non solo di molte opere interessanti come film, romanzi, manga (ovviamente) e anime, ma soprattutto di un’atmosfera e di un codice espressivo che solo pochi giochi di respiro internazionale sono riusciti a sfruttare.
Laddove il nostro horror si imbeve di case gotiche sulle colline, cimiteri vittoriani o ancora castelli, l’horror asiatico e in particolare nipponico si nutre di cigolanti case medioevali, tempi shintoisti maledetti e, soprattutto, spettri e creature da incubo che nascono da una quotidianità normale solo in apparenza.
Il folklore orrorifico del Sol Levante si alimenta di situazioni se possibile ancora più spaventose e viscerali rispetto a quello occidentale, più incentrato su una certa “lontananza” dall’orrore, dovuta al decadere dello stile di vita “rurale”.
Si tratta di escamotage spaventosi che solo in parte sposano quelli della scuola di derivazione anglosassone, incarnando una concezione dell’orrore molto più interiore.
Ringu, pur essendo in fondo la solita storia del fantasma vendicatore, mette in scena quest’ultimo come una sorta di inquietante presenza “infestante”, un orrore impossibile da sradicare. I manga di Junji Ito e Kazuo Umezz (attivo soprattutto negli anni ’70 e ’80) sono forse ancor più disturbanti, raccontando di inquietanti demoni dall’aspetto avvenente che fanno impazzire gli uomini (Tomie di Ito), di mature attrici che scelgono di fare uno scambio di cervello con la figlia adolescente per ottenere una nuova giovinezza (Baptism di Umezz).
Un’impostazione simile è ovviamente adottata in molti videogiochi giapponesi, ovviamente adattata a esigenze sceniche molto diverse.
In Siren, ancora di Toyama, la minaccia è quella di una schiera di persone tramutate in incarnazioni di una divinità mostruosa del folklore nipponico, che fa di un intero villaggio lo scenario di un horror apocalittico.
Nei Fatal Frame, dei coraggiosi quanto stupidi eroi sfidano antiche case giapponesi per fotografare spettri di persone morte in circostanze misteriose. In molti giochi indie giapponesi, la minaccia è data da spiri infestanti o da minacce che vivono nelle pieghe di una quotidianità fatta non-luoghi come strade, scuole, case all’apparenza innocue.
E questi sono solo i giochi di produzione nipponica, ma atmosfere simili possono essere trovate anche nelle produzioni di altri paesi asiatici come la Thailandia, Taiwan o Corea.
Si tratta di un bagaglio culturale immenso e accattivante per un gioco horror, che se sfruttato può dar vita a delle creazioni interessanti, ma probabilmente di non facile spendibilità al di fuori del Giappone: non è un caso che in occidente serie come Fatal Frame o Siren abbiano attecchito poco, e come la pur fortunatissima tradizione giapponese del gioco dell’orrore sia diventata famosa per due saghe che hanno giocato a rielaborare all’infinito figure retoriche dell’horror occidentale, ovvero Silent Hill (che tuttavia ha ereditato varie caratteritische dall’horror giapponese “nativo”) e Resident Evil.
Ora però forse è arrivato il momento di una piccola innovazione.
Dar voce alle proprie aspettative per un videogioco accompagnato da un alone così misterioso è un rischio, ma le premesse che abbiamo descritto fanno passare qualche pudore.
Gli indizi per un sostanzioso “J-horror game” ci sono, visti sia i precedenti di Toyama sia alcuni segnali, come la fuoriuscita dello stesso director da Japan Studio, controllato da una Sony che alcuni dicono non interessata a storie dal tono “troppo asiatico” (ne abbiamo parlato in questa news). Infine, a stuzzicare sono le stesse parole dell’autore.
In cosa si potrebbe concretizzare tutto ciò?
Forse in una piccola novità nel panorama sì straordinario ma ormai “stabilizzato” del gioco horror, fatto di saghe rinate e dominanti (Resident Evil) e di una galassia di bellissimi esempi di giochi sperimentatori come Outlast o Amnesia, ma che forse ha bisogno di nuovi attori interessanti. Non va dimenticato inoltre che un altro grande del genere, come Shinji Migami (papà di Resident Evil) ha costruito il suo prossimo Ghostwire Tokyo su un racconto soprannaturale della capitale nipponica.
Che una nuova voga del genere, forse trainata dal successo dei manga horror all’estero, stia per arrivare?
Che la next gen dell’horror parli per lo più giapponese?
Cosa ne pensate?
This post was published on 8 Aprile 2021 17:00
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