E’ l’11 aprile 2021, e fuori piove.
Sono seduto alla scrivania nonostante sia domenica mattina, per gli ultimi ritocchi a un articolo molto importante, forse una delle cose più personali fra quelle che potrei mai pubblicare su un sito.
Un articolo che neanche dovrei scrivere, in teoria, perché io in Player mi occupo di videogiochi, e non di GDR, ma non importa, perché questa è una story personale e quasi necessaria, specie per chi come me vede in cose come videogioco, gioco di ruolo, scrittura e critica un groviglio di passioni ispirante e quasi necessarie a vivere; uno di quei gomitoli da srotolare per trovarne ogni capo.
Questa story prende una campagna che concluderò domani sera e ne spezzetta gli ingredienti in particelle, cercando di spiegare tanto a me che la scrivo quanto a voi che leggete quanto ciò che fingiamo di vivere possa diventare parte di ciò che siamo come singolo e come gruppo e come riesca ad alimentarne le passioni.
Vi invito a seguirmi quindi in un memoir fatto di misteri, tanta passione per il gioco, un po’ di malinconia, e tanto cuore.
Come si raccontano sei anni di campagna gdr, capaci di attraversare momenti cruciali della formazione di una persona e del suo approdo nel mondo adulto?
Non è facile, ma tenterò di cominciare dall’inizio.
E di farlo con stile.
Abbiamo cominciato a giocare il 14 aprile del 2015, esattamente sei anni fa (sì, abbiamo fatto di tutto per concludere la campagna esattamente sei anni dopo l’inizio) presso la Gilda del Drago Nero, la storica associazione di promozione del gioco di ruolo e da tavolo di cui eravamo fra i soci gestori (e della quale sono ancora oggi presidente, fottuta pandemia permettendo).
Credo fosse un martedì, potrei andare a controllare sul calendario ma credo di non potermi sbagliare, perché Brass Age, all’epoca, non era altro che l’ennesima campagna costruita per animare i pomeriggi e fare attività associativa.
Il setting era interessante, una Londra vittoriana steampunk nella quale mi trovavo a mio agio, perché solo qualche mese prima mi ero laureato con una tesi su un romanzo a fumetti dedicato a Jack lo squartatore (sì, è From Hell di Alan Moore) e solo un mesetto prima avevo provato The Order: 1886, primissimo assaggio di PlayStation 4 per me.
Per chi non lo conoscesse, Brass Age è un gdr italiano by Limana Umanita Edizioni che pone i giocatori nei panni di un gruppo di investigatori al soldo del famoso Club Diogene, circolo di gentlemen inglesi che nasconde in realtà un nucleo primitivo dei servizi segreti britannici, impegnati a risolvere situazioni “scottanti” in giro per l’impero (se volete saperne di più, questo è l’articolo che fa per voi).
Siamo in piena Età Vittoriana, l’Inghilterra è il centro del mondo, e fra le minacce da affrontare si trovano principalmente organizzazioni criminali, sette segrete, ordini che tramano nell’ombra per il dominio sull’umanità (qualcuno ha parlato in Illuminati?).
Al tavolo, fra gli altri, un’amica di vecchia data (Lidia) e il suo fidanzato (Giorgio, il master), conosciuto proprio grazie a me. Non era la prima volta che giocavamo col gruppo, anzi si trattava dell’ennesima campagna cominciata e portata avanti fra di noi anche per coltivare l’amicizia. All’epoca c’era tanto tempo per giocare, o almeno io lo avevo, perché appena laureato e con di fronte a me la triste idea che trovare un lavoro sarebbe stato arduo.
Però proprio grazie a BA c’era una valvola di sfogo per tutta quella pesantezza (due in realtà, perché quel maggio uscì anche il mio videogioco del cuore, The Witcher 3: Wild Hunt), una via di fuga da tutta quell’impressione di essere “fuori luogo” e destinato a una precarietà costante: ogni martedì si giocava a Brass Age, si stava insieme ai propri amici, ci si rilassava.
Si tenevano i problemi fuori dalla porta e ci si concentrava su un rito collettivo quasi catartico.
È difficile da spiegare, se non ci passi.
È come se, per due o tre ore a settimana, ci si dimenticasse del resto e si pensasse solo e soltanto a una dar vita a un mondo.
Vorrei scrivere i nomi di tutti i giocatori e i loro personaggi, ma sapete come sono i gruppi dalla lunga vita: gente che va, gente che viene, parecchi gli abbandoni. Per una scelta sofferta indico il gruppo principale attuale, il nucleo forte, che ha resistito per la maggior parte di questi anni.
E poi c’ero io, o meglio c’era il fido Frederick Gull, attempato detective della Polizia metropolitana di Londra con un passato difficile e un problemino con l’oppio.
Premessa importante: il tipo di campagna.
Chi conosce Brass Age sa più o meno che tipo di gioco è: ogni giocatore è legato a una rete di relazioni con una serie di PNG (e con gli altri PG, a volte) attraverso debiti e crediti che delineano varie questioni che il personaggio deve risolvere durante le indagini.
Il risultato finale è una campagna basata su complotti e inganni, in cui giocatori corrono persino il rischio di essere messi l’uno contro l’altro dagli eventi.
Il tono della nostra giocata è stato però un po’ diverso, e ha aperto a un po’ di “home rules” non da poco. Abbiamo espanso la lore con elementi presi dalle più disparate ispirazioni (ma non essendo il master non mi dilungo), ma soprattutto abbiamo adottato un approccio del tutto particolare, in cui a essere giocati non erano solo le indagini e le cospirazioni, ma anche gli slice of life, ovvero momenti di quotidianità dei nostri PG.
A inizio campagna, tutti i personaggi erano semplicemente “tipi” da gdr con ambientazione vittoriana.
Oggi sono quasi personaggi tridimensionali, con un vissuto fatto anche di relazioni sentimentali, carriere… e persino figli, come il mio Gull, passato dall’essere un poliziotto di quartiere oppiomane e donnaiolo a fedele marito innamorato di una ragazza più giovane di lui e padre di tre bambini.
In mezzo, un fiume di avventure in luoghi straordinari, indagini, scoperte eclatanti, intrighi di palazzo, scoperte scientifiche straordinarie che rischiano di mettere in pericolo il mondo, orrori soprannaturali tratti dal folklore inglese.
Ma questa è solo la superficie di un’esperienza ben più complessa e totalizzante.
Chi gioca di ruolo costantemente sa che alcune campagne non sono come le altre, perché diventano parte di una routine quotidiana della quale il gioco diventa una sorta di accompagnamento costante, nella gioia e nel dolore, nella salute come nella malattia.
Brass Age è stato questo, e qualcosa un po’ di più, per diversi motivi: perché il setting ci piaceva, perché eravamo tutti innamorati delle storie giocate, perché adoravamo i nostri personaggi. Per tutti questi motivi, l’approccio con le dinamiche del racconto si avvicinava incredibilmente a quello che possiamo avere con un serial di Netflix, o un fumetto amatissimo. Non stavamo interpretando dei personaggi, stavamo costruendo una grande storia collettiva (o almeno, questa è sempre stata la mia percezione da dentro).
Catherine, Stewart, William, Richard, Gull e tutti gli altri personaggi erano tasselli della nostra epopea vittoriana, in cui i personaggi lottavano insieme per proteggere i loro amici e le loro famiglie, per salvare l’impero britannico in nome degli ideali del tempo, ma anche semplicemente perché amanti del brivido.
Intanto attorno c’era un mondo che ti metteva alla prova, in qualche modo.
C’era la crisi lavorativa, c’era qualche momento difficile in famiglia, c’erano le aspirazioni frustrate, i primi amori, la scuola, un matrimonio (quello fra master e Lidia, sì, al quale sono stato testimone dello sposo).
C’era la vita e tutti stavamo in qualche modo cercando di capire come affrontarla da adulti o quasi adulti.
Se mi guardo dentro, se decido di tirare fuori, direi quasi che quella campagna è stata per me non solo il classico punto di fuga dalla realtà difficile, ma luogo di confronto, il porto sicuro in cui portare le mie piccole debolezze e, attraverso il gioco, tirarle fuori con una chiacchierata, un momento particolare, riflettere su quello che lasciavo fuori.
È strano che un ventiseienne impari a giocare di ruolo e a “sentire” sé stesso così tardi e solo in questo modo, ma io sento che è stato così.
Si dice spesso come il gioco di ruolo non sia competitivo, ed è vero, ma a volte ti dà spunti per migliorare, per crescere, aprirti, sentire quando prendi troppo sul serio questioni futili come quelle di gioco e suggerendoti di focalizzarti su cose veramente importanti, su ciò che sei.
E anche, in parte, su quel che vuoi fare da grande, nel mio caso.
Quando partecipi a una cosa del genere, quando un racconto ti fa “ballare” così tanto, inizi a voler far ballare anche te le persone con una bella storia.
E magari a voler terminare quel libro che hai nel cassetto da tanto.
E magari a voler prendere più sul serio le emozioni che ti suscitano giochi e videogiochi, e a voler scrivere degli articoli su questo su un sito dedicato.
E poi c’è l'”altro”, la persona che hai davanti, l’amico del cuore col quale condividi una passione, che inizi a conoscere ancora un po’ meglio e dal quale impari sempre più.
Se il gioco di ruolo è teatro gamificato, e il teatro è anzitutto catarsi e occasione di crescita, allora in qualche modo ha funzionato con me.
Prima di salutarci, tiriamo qualche considerazione generale.
Questa campagna si conclude con un insegnamento, cresciuto negli anni, sul concetto di “gioco”. Nonostante alle spalle avessi già sette od otto anni di campagne (quasi) continuative, questa a Brass Age è stata la serie di partite che mi ha aperto veramente gli occhi sulla potenza del gioco di ruolo, e in generale sull’incontro fra gioco e storytelling.
Più di una volta, giocando, mi sono ritrovato a ragionare su come un racconto, e in particolare un racconto gamificato, possa funzionare.
Cos’è che ci emoziona davvero di una campagna gdr? Quanto in là devi spingerti con l’interpretazione e l’immedesimazione per creare una tua grande storia emozionante? Ma soprattutto, qual è il ruolo dell’imprevedibilità di un tiro di dado o di una decisione piuttosto che un’altra?
Sono concetti interessanti che chiunque sia appassionato di narrazione e gioco si pone spesso, ma che un’esperienza ludica lunga, continuativa e ben oliata come questa può farti toccare con un’intensità davvero unica. E si tratta di un’impressione che ti porti dietro anche in altri tipi di giochi. Se il tuo personaggio in una campagna gdr soffre e sanguina tanto da fartelo sentire, stai sicuro che soffrirai allo stesso modo anche seguendo storie come quelle di Red Dead Redemption II o di The Last of Us. E si tratta di sensazioni stupende, che nonostante un po’ di sofferenza fanno scaturire un bel po’ di sano amore per la narrativa gamificata in generale e persino per una delle dimensioni più “basic” di ogni grande gioco: il roleplaying, l’immedesimazione, il vestire panni altrui.
Brass Age mi ha portato a rivalutare il modo in cui gioco nei panni di un personaggio, e forse mi ha fatto tornare anche l’appetito per il giocare a trecentosessanta gradi.
E quindi a questo punto…
E alla fine eccoci, è il termine del viaggio.
Molto è il tempo passato, molte le minacce affrontate, molti gli amici incontrati sulla lunga strada, vari i momenti d’oro che porteremo tutti nel cuore.
Nel frattempo, Brass Age ha cementato l’amicizia, fatto pubblicare un libro (long long story), ci ha persino portati a Londra per celebrare il mio trentesimo compleanno andando a visitare le location delle nostre avventure gdr.
Forse fra qualche anno, da adulto (o da “un po’ più adulto”? Boh), rileggendo queste parole mi dirò “Santo cielo, che sproloquio senza senso e che esagerazioni per una campagna di gioco di ruolo”. Forse ho ingigantito le cose, forse a pesare è la percezione amplificata dall’affetto di un’amicizia, dal ricordo del calore di una sessione dopo una giornata passata a disperarsi per il lavoro difficile da trovare o dalla lontananza dalla normalità a causa della pandemia.
Forse andrà così, anche se non credo: se c’è una cosa che i videogiochi mi hanno insegnato è che certe avventure ludiche ti cambiano.
Forse il gioco di ruolo fa esattamente questo, a volte. Non sempre, magari. I tipi di campagna sono tanti e tutti diversi, ma sono abbastanza certo che una volta su mille una campagna gdr riesca ad appassionare un gruppo di giocatori tanto da rendere una partita qualcosa di più di una semplice partita.
Renderlo necessario appagamento dell’anima, quanto quel libro che ci ha cambiato la vita, quel videogioco che ci ha aperto gli occhi su una data questione. Con noi è successo, ed è stato bellissimo.
Grazie ancora, ragazzi. Di tutto.
This post was published on 13 Aprile 2021 17:00
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